L’analisi dell’incontro prende spunto da una sollecitazione culturale da parte del presidente del Circolo Culturale “L’Agorà” Gianni Aiello che ha dato modo al relatore dell’incontro, Riccardo Partinico, di effettuare alcune analisi sul luogo della fucilazione di Gioacchino Murat avvenuta, come la storiografia ufficiale afferma e cioè all’interno del castello di Pizzo Calabro il 13 ottobre 1815.
I dati emersi, realizzati su indicazioni da parte di Gianni Aiello e sviluppati successivamente da Riccardo Partitico sono stati resi noti proprio nel corso della manifestazione, grazie anche all’ausilio di diverse immagini.
Tutti gli incontri organizzati dal sodalizio reggino poggiano le loro basi sull’analisi di variegati documenti archivistici che hanno dato modo di rivalutare il periodo storico in questione.
Questa volta invece verranno esaminati altri documenti e nello specifico si tratterà di indagini balistiche.
I risultati emersi nel corso dell’incontro hanno dato degli sviluppi interessanti a ciò che accadde in quel pomeriggio, quando dopo un sommario processo venne eseguita la condanna a morte del Re di Napoli, Gioacchino Murat.
Durante l’incontro sono esaminate anche le tipologie delle armi del periodo che furono strumento dell’esecuzione del cognato di Napoleone Bonaparte e ci sarà anche il supporto logistico di alcuni esperti del settore che daranno il loro autorevole giudizio sugli esiti delle ricerche analizzate da Riccardo Partinico.
Altri sono gli interrogativi  legati alle ultime ore del Re che riguardano soprattutto la sorte delle sue spoglie che non furono mai rinvenute, ma queste domande saranno oggetto di ulteriori  ricerche da parte del sodalizio reggino.
«La storia – dice Gianni Aiello – è una materia elastica, sempre in movimento, nel senso che non può rimanere ancorata a ciò che ci è stato tramandato.
Essa è costituita da documenti e dal ritrovamento di altri che ne provocano una sorta di "revisione" non in funzione del cambiamento ma della veridicità degli avvenimenti.
Non ci si può fermare alla semplice narrazione dei fatti, nella fattispecie a quelli relativi alla fucilazione, dopo un processo sommario, del Re di Napoli Gioacchino Murat - afferma il presidente del Circolo Culturale L’Agorà -  ma alla ricerca di nuovi documenti che mettano poi in chiara discussione ciò che una "certa storiografia" vuol fare credere.
Oggi si analizzano altri documenti, le indagini balistiche che confermano che il luogo della fucilazione di Gioacchino Murat non è quello ritenuto tale.
La parola è passata poi a Riccardo Partinico che ha esordito dicendo: «Sono stato Ufficiale dell’Esercito Italiano, Istruttore e Direttore di Tiro con armi da fuoco, Socio Fondatore del Poligono di Tiro “Città dello Stretto”, da oltre trent’anni  frequento i poligoni di Tiro e sparo con fucili e pistole. Ho accettato volentieri l’invito del Presidente del "L’Agorà", Gianni Aiello, a recarmi a Pizzo Calabro per “visionare” il luogo della “fucilazione” di Gioacchino Murat ed esprimere un parere tecnico.  Posso certamente affermare che quanto riportato sui documenti affissi nel castello di Pizzo Calabro non può essere vero per i motivi che di seguito andrò ad esporre nel corso del mio intervento.»
Il Castello Aragonese di Pizzo Calabro è famoso perché la Storia racconta che proprio lì, il 13 ottobre 1815, venne fucilato Gioacchino Murat, dopo un processo sommario.
Oggi, il luogo della fucilazione è rappresentato a tre “soldati” schierati accanto alla cella dove fu detenuto Gioacchino Murat, da “Gioacchino Murat”, posto di fronte ad essi ad una distanza di 5 metri e da  una pergamena, sulla quale sono descritti gli ultimi momenti di vita del ex Re di Napoli.
Il relatore pone all'attenzione del pubblico quanto viene riportato in un foglio affisso proprio all'interno del castello napitino dove vi è scritto: “da circa due ore il processo a Gioacchino Murat si era concluso con la sentenza a morte, tramite fucilazione. Notificata al detenuto, il cognato di Napoleone l’accolse con coraggio. Volle farsi bello e chiese come ultimo desiderio di comandare lui stesso il plotone. Ecco, come testimoni del fatto, riportano quel tragico momento: “...Arrivato al luogo della fucilazione, ch’era a pochi passi dalla cella, Murat chiese agli ufficiali borbonici dove si
doveva mettere. Gli fu indicato quasi di addossarsi ad un muro. Era, in quell’attimo estremo, ben vestito come se dovesse partecipare ad una parata, i capelli neri e ben pettinati, la sua figura possente (era alto 1,86) dominava tutto il piccolo vaglio del castello di Pizzo. La tranquillità dei modi e del parlare atterrirono i suoi carnefici tanto che anche gli altri carcerati del castello (anche i comuni delinquenti) rimasero tutti impressionati di quel coraggio. Murat rifiutò sedia e benda e si pose altero innanzi al plotone dicendo: “Amici miei sapete che sono io a comandare il fuoco; il cortile è assai stretto poiché voi possiate mirare giusto. Solo cercate di mirare al petto e salvare il viso. Alla parola “FUOCO” solo tre pallottole partirono ma non lo colpirono. 
“Grazie amici, disse, ma dovrò morire per mano vostra quindi ricominciamo e niente grazia, ve ne prego. Ridiede il comando: “Puntate FUOCO”, questa volta Murat cadde fulminato. Una pallottola gli sfigurò il bel volto mentre due lo colpirono al cuore. Nella notte, quasi furtivamente, fu sepolto nella terza fossa comune della chiesa di San Giorgio di Pizzo."
Riccardo Partinico passa ad analizzare i fatti riportati dalla storia secondo i quali Gioacchino Murat si trova con le spalle appoggiate ad una parete di pietra ed il plotone d’esecuzione, composto di tre soldati armati di fucili ad avancarica, è posto a metri cinque di distanza, accanto all’ingresso della cella del condannato a morte. Il plotone, comandato dallo stesso condannato, spara la prima volta mancando, volontariamente, il bersaglio e, poi, su ordine dello stesso Murat, spara  altri tre colpi colpendolo in testa e al cuore. Mentre le conclusioni tecniche e logiche portano alle conclusioni che le armi utilizzate dai soldati all’inizio del 1800 sono fucili ad avancarica a canna liscia che utilizzano polvere nera per lanciare un unico proiettile ad una velocità di 350 metri al secondo. Questo significa che sparando un colpo di fucile alla distanza di 5 metri su di una parete di roccia l proiettile rimbalza su chi ha sparato.
All’interno del castello di Pizzo, nell’area indicata come luogo di esecuzione, la situazione è ancora più pericolosa.
Infatti, oltre alla parete di roccia, posta a 5 metri, esiste un’altra parete di roccia sulla sinistra del “plotone” ed un muretto di pietre di fronte.
In definitiva, soltanto un pazzo si azzarderebbe a sparare un colpo di fucile in quel luogo.
Le regole generali di un esercito militare sono comuni in tutto il mondo: ordine, disciplina, professionalità, legalità.
Anche i Borboni di Federico IV erano un esercito organizzato.
Un plotone d’esecuzione militare deve “garantire” al condannato la probabilità di una morte rapida, per questo deve essere numeroso.
Generalmente un Plotone è costituito di 12 fucilieri ed un graduato.
Un ufficiale deve assistere alle operazioni di tiro. Accanto alla cella dove è stato rinchiuso Murat, non possono allinearsi più di tre uomini.
I luoghi prescelti per le esercitazioni con armi da fuoco devono possedere i requisiti minimi di sicurezza.
Per questo i poligoni mobili sono approntati nelle cave di sabbia..
Nessun militare può ricevere ordini da soggetti diversi dal proprio superiore.
Gioacchino Murat,  quindi, non poteva dirigere il plotone d’esecuzione.
Si può concludere affermando senza dubbio che quanto riportato dalla Storia è smentito categoricamente dalla logica.
Adesso altri sono gli interrogativi  legati alle ultime ore del Re che riguardano soprattutto la sorte delle sue spoglie che non furono mai rinvenute.
Ma queste domande saranno oggetto di ulteriori ricerche da parte del sodalizio reggino.

ShinyStat
8 maggio 2008