La nuova conversazione relativa al programma "I giorni della civetta", organizzato dal Circolo Culturale “L'Agorà” ha avuto come tema “La solitudine del cronista in terra di 'ndrangheta”.
È stato un tema interessante, quello organizzato dal sodalizio culturale reggino, dove sono state analizzate le varie problematiche alle quali si va incontro quando si opera su un territorio difficile e quando si fa giornalismo d'inchiesta su un terreno dove la linea di demarcazione tra il bene ed il male risulta alquanto aggrovigliata e contorta.
Una differenza molto sottile, quasi labile con la quale il cronista deve confrontarsi, così come Claudio Cordova, direttore de Il Dispaccio, che nella conversazione a cura del Circolo Culturale “L'Agorà” ha presenziato come relatore su tale tema.
Comprendere le dinamiche – afferma Claudio Cordova - che stanno all’interno e che, talvolta, soggiacciono alla ‘ndrangheta non è facile, se non si è calabresi. E’ un fenomeno così connaturato negli abitanti della punta dello stivale che, anche per un siciliano, anche per un campano o per un pugliese, è difficile capire, in pieno, determinati meccanismi mentali, sociali, antropologici, che si riverberano nella vita di tutti i giorni in determinati luoghi, non solo dell’entroterra, ma anche del capoluogo. La ‘ndrangheta è un’organizzazione criminale forte e ricca che, però, si comporta e si regolamenta allo stesso modo di una setta.
E’ attualmente una delle organizzazioni criminali più potenti del mondo e tra le poche a essere presente in ogni continente.
Una forza che le cosche traggono da una svolta avvenuta almeno 50 anni fa. Tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70 la ‘ndrangheta si modernizza. Da associazione criminale agro-pastorale, riesce a entrare (e a diventare presto egemone) nel traffico internazionale di droga. Negli anni ’70, con la creazione della “Santa”, entra in contatto con mondi occulti come quello della massoneria deviata. Sono gli anni in cui le cosche stringono alleanze con l’eversione, in un periodo di grande tensione per l’intero Paese. Nel luglio 1970 esplosero i moti per il capoluogo a Reggio Calabria, i moti dei Boia chi molla. Nella notte tra il 7 e l’8 dicembre 1970 si consumò la fase finale del tentato golpe Borghese. Episodi in cui è ormai acclarato il rapporto di gruppi di ‘ndrangheta con ambienti ed esponenti della destra eversiva”. La ‘ndrangheta, dunque, vuole darsi una svolta: è, in particolare, don Mommo Piromalli, leader carismatico di Gioia Tauro, a tracciare la via che, immediatamente, viene seguita da molti e, in particolare da Paolo De Stefano, boss dell’omonima, potentissima, cosca di Reggio Calabria. La lungimiranza di don Mommo mostra alla ‘ndrangheta quanto possano essere redditizi i sequestri di persona (oltre cinquanta dal 1970 al 1978) e, soprattutto, quanto sia conveniente investire i proventi di questi nell’edilizia: è una vera e propria escalation e, in Aspromonte, segregato, finisce anche Paul Getty III, nipote del celebre magnate americano. Il primo triennio del 1970 è quindi decisivo, perché, con la rivolta di Reggio Calabria, nata, in maniera del tutto naturale, a causa della decisione politica di assegnare il capoluogo della regione a Catanzaro, le cosche riescono a entrare in contatto anche con diversi membri della destra eversiva: secondo molti collaboratori di giustizia, infatti, al fallito golpe, messo in atto da Junio Valerio Borghese, nel dicembre 1970, avrebbero preso parte anche centinaia di affiliati alle cosche.
Proprio in quegli anni, dunque, nasce la “Santa”, proprio in quegli anni la ‘ndrangheta lega il proprio destino alla massoneria: un legame che è proseguito negli anni e che è ben stretto ancora oggi.
La ‘ndrangheta diventa qualcos’altro.
Qualcosa in cui si può entrare in contatto con gli uomini dello Stato, creando i presupposti per quella “zona grigia” in cui si toccano istituzioni, imprenditoria e criminalità organizzata. E attraverso il contatto con i pezzi dello Stato, con le divise, è possibile anche tradire, diventare confidenti, per mettere fuori causa, senza l’utilizzo di armi, i propri nemici. Nasce quindi un nuovo livello organizzativo, in cui i grandi capi riescono a entrare in stanze apparentemente inaccessibili e sedersi a tavoli di comando, grazie alla possibilità di muoversi liberamente tra apparati dello Stato, servizi segreti e gruppi eversivi. Così la ‘ndrangheta sarebbe dunque riuscita a entrare nei gangli vitali della pubblica amministrazione, dell’economia, dello Stato. All’azione militare la ‘ndrangheta preferisce sempre altro: depistaggi, vuoti d’indagine, attacchi di ogni tipo ai magistrati non arrendevoli, aggiustamenti dei processi. Un sistema di rapporti ramificati in cui tutti sono legati, come in una sorta di catena e in cui il fine ultimo è l’impunità. E così, non solo con il mondo delle Istituzioni, ma anche con la borghesia e quella classe di professionisti disposta a colludere con il crimine: oltre ai magistrati, anche medici, ingegneri, avvocati, e molti altri. Significa penetrare negli ambienti in cui si prendevano le decisioni importanti.
Svolgere la professione di giornalista in un territorio ad alta densità mafiosa, come quello calabrese, è difficile. Non solo per i rischi di incolumità che si corrono. Sempre più spesso, ormai, la ‘ndrangheta utilizza altri mezzi per eliminare chi si discosta dal “Sistema”. E non sono solo mezzi “muscolari”, che vanno a colpire fisicamente chi non asseconda le logiche mafiose. Sempre più spesso, infatti, l’arma migliore per colpire è rappresentata da isolamento e delegittimazione. Si tende a fare terra bruciata attorno a chi si oppone al mantenimento dello status quo. In tal senso, il giornalista, se svolge un lavoro di tipo investigativo, portando a galla segreti e intrighi delle cosche, diventa un nemico da neutralizzare, tanto quanto i membri delle forze dell’ordine o i magistrati impegnati in prima linea nella lotta ai clan. Con la differenza che il cronista è molto più facile da attaccare, rappresentando l’anello debole della catena. Il terreno fondamentale sul quale si costituiscono e si rafforzano i rapporti tra ‘ndrangheta ed esponenti dei pubblici poteri e delle professioni private è rappresentato dalle logge massoniche. Il vincolo della solidarietà massonica serve a stabilire rapporti organici e continuativi. Per questo, dunque, entrare in una loggia massonica è una scelta strategica che segna la vera vittoria della ‘ndrangheta. I rapporti che l’elite della ‘ndrangheta riesce a stringere negli anni ’70 saranno la base fondamentale e necessaria su cui si poggerà la forza dell’organizzazione negli anni 2000, in virtù, appunto, di rapporti datati quasi mezzo secolo.
La ‘ndrangheta non ragiona solo in un’ottica di profitto, ma anche di consenso e accreditamento sociale. Il potere, il rispetto, il riconoscimento da parte della gente, lo si ottiene tramite la forza, ma anche facendo leva su fattori-chiave come la religione. Ebbene il mutamento epocale, la “Santa”, riesce a coniugare benissimo, perfettamente diremmo, la logica del profitto, con quella del potere.
Raccontare la masso-‘ndrangheta è quindi un compito arduo, perché è difficile capire di chi potersi fidare, è difficile comprendere, in una realtà come quella reggina, chi sta “da una parte” e chi sta “dall’altra”. Il giornalista deve quindi muoversi con curiosità e senso della ricerca, ma anche con intuito e fiuto, per percorrere la strada giusta e non finire nella tana del lupo. La realtà reggina, infatti, è una realtà in cui raramente esiste il “bianco” e il “nero”: qui, il colore predominante è il grigio. Per cui è complicato capire da chi ci si deve difendere. Le mafie, da sempre, temono l’azione repressiva dello Stato. Ma, da sempre, temono il contributo alla conoscenza fornito dai giornalisti con la schiena dritta: una comunità può crescere solo se correttamente informata e un popolo informato potrà affrancarsi più facilmente dalle logiche mafiose. Per questo il cronista va “fatto fuori”. E non sempre con i mezzi convenzionali. Una nuova tecnica, soprattutto se il giornalista indaga sul mondo dei “colletti bianchi” è quello di colpirlo sotto il profilo economico, attraverso querele e azioni di risarcimento, che diventano una Spada di Damocle sulla testa di chi prova a svolgere la professione su un territorio ricco di insidie.
Così, dunque, in maniera subdola e strisciante, la masso-‘ndrangheta si autotutela, nel tentativo di mantenere lo status quo, di non far di svelare i segreti più inconfessabili che affondano le proprie radici a metà dello scorso secolo e che, però, fanno del “Sistema ‘ndrangheta” la rete di relazioni deviate più pericolosa al mondo. Un “sistema” che può essere scardinato anche grazie all’opera del giornalismo, inteso come “cane da guardia della democrazia”.
22 marzo 2017
la conferenza