Nel mese dedicato al sommo Poeta, simbolo della cultura e della lingua italiana, ricordarlo è un modo per unire ancora di più il Paese in questo momento difficile, condividendo pensieri e riflessioni su un autore emblema della nostra tradizione letteraria e autore di opere dal fascino senza tempo. La Sicilia ha sempre stimolato la fantasia e l'ingegno di mitografi, letterati, poeti e filosofi. Nel caso di Dante Alighieri l’isola viene rievocata in una maniera così dettagliata da supporre che il sommo poeta l'abbia visitata. In verità il suo non fu altro che uno studio più che completo delle antiche fonti letterarie. Nel canto VIII del Paradiso, nel cielo di Venere dove risiedono gli spiriti amanti, Dante incontra Carlo Martello d'Angiò, da cui traspare tutta al nostalgia per la sua vita terrena e il rammarico di non essere riuscito a compiere ciò che si era proposto. E così passa in rassegna tutte le terre su cui avrebbe dovuto regnare, citando mari, fiumi, città.
E così leggiamo ai versi 67-75:
“E la bella Trinacria, che caliga /
tra Pachino e Peloro, sopra ‘l golfo /
che riceve da Euro maggior briga, /
non per Tifeo ma per nascente solfo, /
attesi avrebbe li suoi regi ancora, /
nati per me di Carlo e di Ridolfo, /
se mala segnoria, che sempre accora /
i popoli suggetti, non avesse /
mosso Palermo a gridar: ‘Mora, mora!’”.
cioè
E la bella Trinacria che di fumo si vela tra capo Pachino e capo Peloro sopra il golfo che riceve dal vento Euro (lo Scirocco) le maggiori sferzate non a causa di Tifeo, ma per la formazione di Zolfo, avrebbe atteso anch'essa i suoi re legittimi, nati attraverso me da Carlo e da Rodolfo, se il malgovern, che sempre inasprisce i popoli soggetti non avesse mosso Palermo a gridare Muoia Muoia! Qui Dante rifiuta la spiegazione pagana, da lui letta nelle metamorfosi di Ovidio, secondo cui le eruzioni dell'Etna sarebbero causate dall'agitarsi del titano Tifeo, fulminato da Zeus e gettato nelle viscere del vulcano, e la sostituisce con una spiegazione che ai sui tempi era certamente molto più scientifica, se così si può dire. Si tratta di una spiegazione che con ogni probabilità deriva da una lettura della Composizione del mondo di Ristoro d'Arezzo, in sui si parla di come una miniera di zolfo può prendere fuoco scaldandosi al sole se in corrispondenza di una spaccatura del suolo.
Il resto della citazione esprime riflessioni di carattere storico. Ciò di cui viene informato il lettore riguarda le sorti del regno di Sicilia, che sarebbe toccato ai figli di Carlo Martello, in quanto discendenti, per sua parte da Carlo II d'Angiò, e per parte di madre da Rodolfo I d'Asburgo, la cui figlia Clemenza era appunto consorte di Carlo Martello. Invece, nel 1308, Carlo II nominò re di Sicilia il suo terzo figlio Roberto.
Quindi, per bocca di Carlo Martello, Dante esprime una dura condanna dei sovrani avidi di potere e di ricchezze, ma ha in mente soprattutto l'avo di Carlo Martello, il re di Napoli Carlo d'Angiò, che per sostenere le sue numerose imprese militari impose alla popolazioni tasse gravose provocandone la ribellione.
Infine è chiara l'allusione ai Vespri siciliani, quando gli abitanti di Palermo insorsero gridando "Muoiano i Francesi". E così viene ricordata quella che non fu trama di nobili o congiure di palazzo, ma spontanea ribellione del popolo siciliano. Vi è dunque l'esaltazione dei doveri di un monarca e la deplorazione, per bocca di Carlo Martello, dell'avarizia e del malgoverno del fratello Carlo d'Angiò. Dante trae da questo dialogo spunto per riflettere sulle cause di questa decadenza morale di molti regnanti attribuendole alla mancanza di doti necessarie, all'inadeguatezza, ricordando che Dio provvede a distribuire agli uomini attitudini diverse e spesso capita che tali attitudini non coincidano con i compiti che le circostanze impongono agli uomini. Senza divagare ulteriormente, ritorniamo alla Sicilia ed entriamo nei dettagli e non possiamo non ricordare i riferimenti al vulcano Etna, il Mongibello. La prima menzione del Mongibello la troviamo nel canto di Capaneo, per la precisione nel XIV canto dell’Inferno, settimo cerchio, terzo girone, dove stanno i violenti contro Dio. Si parla di Capaneo e Dante, prendendo spunto dal decimo libro della Tebaide di Stazio, ricorda che egli fu uno dei sette re che assediarono Tebe, il quale giunto sulle mura della città osò sfidare Zeus e da questo fu colpito a morte con un fulmine. Stazio lo chiama SUPERUM CONTEMMPTOR, vale a dire "dispregiatore degli déi".
E così dice l'anima di Capaneo:
Qual io fui vivo, tal son morto.
Se Giove stanchi 'l suo fabbro (cioè Vulcano) da cui
crucciato prese la folgore aguta
onde l'ultimo dì percosso fui
o s'elli stanchi li altri, a muta a muta
in Mongibello a la focina negra
chiamando Buon Vulcano, aiuta, aiuta!
Mostrando vana ostentazione di forza e fermezza dice: Quale io fui da vivo, tale sono da morto. Se anche Giove facesse stancare il suo fabbro (che abbiamo detto essere Vulcano, cioè Efesto peri Greci) dal quale adirato contro di me, prese il fulmine acuminato, da cui fui colpito l'ultimo giorno della mia vita o se anche facesse stancare gli altri a turno nella nera fucina del Mongibello invocando, Oh valente Vulcano, aiutami, aiutami! Qui l'Etna viene chiamato con una tautologia onomastica, cioè con l'unione di due parole di lingue diverse che significano la stessa cosa, cioè MONS e GIBIL, un altro esempio è Linguaglossa, località in provincia di Catania. Nelle viscere dell'Etna, secondo la leggenda, era collocata la fucina dei Ciclopi, come anche riportato dall'Eneide nell'ottavo libro. Efesto lavora insieme ai suoi ciclopi e i colpi delle loro incudini e il loro ansimare fa brontolare il monte e ne arrossa la cima. Un accenno al fuoco del vulcano si trova nel canto XIX del Paradiso, dove emergono anche influenze di Ovidio e di Stazio:
“Vedrassi l’avarizia e la viltate /
di quei che guarda l’isola del foco, /
ove Anchise finì la lunga etate”.
Si vedrà l'avarizia e la viltà (intesa come "bassezza di costumi") di colui che governa l'isola del fuoco (qui abbiamo due perifrasi per indicare rispettivamente Federico II d'Aragona - conosciuto anche come Federico III di Sicilia - e la Sicilia) dove Anchise terminò la sua lunga esistenza (in questo verso è evidente una citazione dell'Eneide di Virgilio:
Hic, pelagi tot tempestatibus actis,
heu genitorem, omnis curae casusque levamen,
amitto Anchisen.
Siamo nel canto dell'Aquila - nel cielo di Giove - che simboleggia sia la giustizia divina, sia quella umana. Non basta avere la fede cristiana per ottenere la salvezza, ma occorre seguire nelle proprie azioni i princìpi morali che indica la fede. Tane sono le colpe di Federico II d'Aragona - continua Dante più avanti - che per annotarle tutte nel gran libro della giustizia divina si dovranno scrivere con le abbreviazioni! Di fondamentale importanza è il riferimento che Dante fa ai mitici mostri Scilla e Cariddi, rievocando secoli di miti e leggende di cui si occupa anche il mio recente studio, Esotismo ed Esoterismo del Fretum Siculum, cioè dello Stretto di Messina. Allora, siamo nel VII canto dell’Inferno in cui leggiamo, ai versi 22 e 23:
“Come fa l’onda là sovra Cariddi, /
che si frange con quella in cui s’intoppa”
Come fa l'onda là sopra Cariddi
che si frange con quella in cui si scontra.
Si tratta di una similitudine che accosta il movimento vorticoso dei dannati ai gorghi dello Stretto di Messina. Sono versi che ricordano uno scenario già raccontato da Virgilio, Ovidio e Lucano, in particolare nel terzo libro dell'Eneide dove Virgilio parla dell'implacabile Cariddi che dalle sue profondità abissali tre volte inghiotte vorticosamente i vasti flutti. Le onde le Mare Jonio, cioè del mare greco, scontrandosi nello stretto con quelle del Mar Tirreno, cioè del mare etrusco (non dimentichiamo che gli Etruschi erano anche detti Tirreni), formano pericolosi vortici temuti dagli antichi navigatori. Dande riporta un fenomeno ben noto nell'antichità. In effetti i due mari non differiscono soltanto dal punto di vista antropologico, ma sono distinti fisiograficamente, aventi acque con caratteristiche fisico-chimiche ed oscillatorie diverse. Il mar Tirreno è mediamente più freddo e meno salato del mare Ionio, per cui nello stretto di Messina avviene un incontro di acque non immediatamente mescolabili, provocando un continuo spostamento e lento mescolamento e rimescolamento di acque che favoriscono, tra l’altro, il trasporto nelle zone superficiali di materiali provenienti dagli strati più profondi. L’incontro di masse d’acqua così diverse, unitamente alle caratteristiche geomorfologiche del territorio e all’irregolarità dei fondali, determina turbolenze che però si affievoliscono man mano che ci si avvicina ai margini dello Stretto, ove la velocità delle correnti si riduce notevolmente . I principali gorghi si formano in punti specifici: uno si forma nei pressi della costa calabra, e l’altro a sud di Capo Peloro, collocati proprio dove gli antichi immaginavano la presenza dei mostri mitologici Scilla e Cariddi. Si consideri che il flusso degli enormi volumi d’acqua che transitano nello stretto può raggiungere notevoli velocità fino a superare i settecento50 metri cubi al secondo, e un tale dato se rapportato ai mezzi di navigazione in uso nell'antichità, ci danno la misura della pericolosità dello stretto e perché esso venisse considerato dimora di mostri in grado di ingoiare le imbarcazioni o di farle naufragare nel volgere di breve tempo . Infine, tra le città dell'isola, Siracusa e Agrigento, che furono tra le poleis più importanti della Sicilia greca non potevano non fare la loro comparsa nella Commedia dantesca nell'ambito di una riflessione storica e filosofica. Di Siracusa si ricorda la tirannide di Dionisio, citata nel canto XII dell’Inferno, tra i violenti contro il prossimo.
“Quivi si piangon li spietati danni; /
quivi è Alessandro e Dïonisio fero”
che fe' Cicilia aver dolorosi anni;
Qui si scontano i danni arrecati senza pietà
qui c'è Alessandro ed il feroce Dionisio
che fece trascorrere anni dolorosi alla Sicilia
Non è facile l'identificazione di Alessandro, il quale potrebbe essere il tiranno di Fere in Tessaglia, della cui crudeltà pala Cicerone nel de Officiis, o proprio Alessandro Magno, re dei Macédoni, ma nel medioevo Alessandro Magno non ebbe fama di tiranno feroce e sanguinario. È certo invece il personaggio di Dionisio I, tiranno di Siracusa, che si impose servendosi spregiudicatamente di tutti i mezzi, anche i più crudeli. Ne parla a lungo Cicerone nelle sue Tusculanae disputationes. Agrigento invece è legato alla figura di Empedocle le cui dottrine sono citate nel Canto XII dell'Inferno.
E così leggiamo:
da tutte parti l'alta valle fede
tremò sì, ch'i' pensai che l'universo /
sentisse amor, per lo qual è chi creda /
più volte il mondo in caòsso converso”.
da tutte le parti la profonda orrida voragine
tremò così forte che io pensai che l'universo
fosse scosso dall'amore a causa del quale c'è chi crede
che il mondo sia più volte riportato al caos.
Empedocle di Agrigento fu il primo a ridurre la composizione del mondo nei quattro elementi: acqua, terra, aria, fuoco e sosteneva che essi, in origine, grazie all'amore univerale si trovavano perfettamente mescolati e in equilibrio. Sopraggiungendo l'odio viene turbata l'unità, ma alla fine sarebbe nuovamente prevalso l'amore a riportare il mondo al suo equilibrio primitivo, direi una sorta di APOCATASTASI. Per concludere, come dimenticare il De vulgari eloquentia, scritto in latino in quanto rivolto principalmente ai dotti del tempo per mostrare loro la bellezza della lingua volgare. In quest'opera Dante riflette sugli idiomi parlati nella penisola che, curiosamente, suddivide linguisticamente in senso longitudinale, e non poteva mancare una parte dedicata alla lingua siciliana, annoverata insieme al toscano e al bolognese, tra quelle lingue regionali che possono vantare un'antica tradizione letteraria. Dante innanzitutto riconosce il valore fondativo della Scuola poetica siciliana, purtuttavia non ritiene nessuno dei volgari italiani degni di rappresentare la lingua italiana. Il volgare ideale viene allora definito con un procedimento deduttivo, come una creazione retorica e quasi artificiale che si ritrova nell'uso dei principali scrittori del tempo. Entrando nel dettagli, così Dante si esprime sul siciliano. Diciamo allora che il volgare siciliano, a volerlo prendere come suona in bocca ai nativi dell’isola di estrazione media (ed è evidentemente da loro che bisogna ricavare il giudizio), non merita assolutamente l’onore di essere preferito agli altri, perché non si può pronunciarlo senza una certa lentezza. Se invece lo vogliamo assumere nella forma in cui sgorga dalle labbra dei siciliani più insigni, come si può osservare nelle canzoni citate in precedenza, non differisce in nulla dal volgare più degno di lode. Quindi secondo Dante il siciliano potrebbe anche essere il volgare adatto, MA non deve essere quello parlato dalle persone comuni. Poi conclude: Perciò, se si considera quanto detto sopra, deve risultare pacifico che né il siciliano né l’apulo rappresentano il volgare più bello che c’è in Italia, dato che, come abbiamo mostrato, gli stilisti delle rispettive regioni si sono staccati dalla loro parlata. Quindi ribadisce che il siciliano avrebbe potuto essere forse la lingua giusta per una penisola unificata dal punto di vista linguistico e letterario, MA non poteva perché il cosiddetto siciliano, quello delle poesie della Scuola Poetica Siciliana fiorita alla corte di Federico II, era troppo distante dal parlato della gente comune.