Opere di Ennio Flaiano a cura di Anna Longon,  Adelphi
L. SERGIACOMO (a cura di), “La critica e Flaiano”, Ediars, Pescara, 1992
L. SERGIACOMO, “Invito alla lettura di Ennio Flaiano”, Mursia, Milano, 1996
B. RASIA, “Ennio il piccolo Flaiano: l'infanzia di un satiro”, Gangemi, Roma, 2002
F. NATALINI, “Ennio Flaiano: una vita nel cinema”, Artemide, Roma, 2005 
G. D'ANGELO, “Flaiano e D'Annunzio: l'Antitaliano e l'Arcitaliano”, Solfanelli, Chieti, 2010
D. DE CAROLIS, “Flaiano e la pubblica amministrazione”, REA, L'Aquila, 2010
G. IOANNISCI, “Lo spettatore immobile: Ennio Flaiano e l'illusione del cinema”, Bietti, Milano, 2010
G. LINGUAGLOSSA, “Dalla lirica al discorso poetico. Storia della poesia italiana (1945-2010)”, Roma, EdiLet, 2011
G. RUOZZI, “Ennio Flainao una verità personale” , Carocci editore 2012
S. PETRIGNANI, “Addio a Roma” , Neri Pozza ,2012
G. RUSSO, “Con Flaiano e Fellini a Via Veneto” , Rubbettino, 2017
Il Circolo Culturale “L'Agorà” di Reggio Calabria, con il patrocinio morale  dell'Amministrazione Provinciale di Pescara, ha organizzato un incontro sul tema “I grandi umoristi: Ennio Flaiano”, al quale ha partecipato in qualità di relatore Antonino Megali, socio del sodalizio culturale organizzatore. Una premessa: è difficile classificare Flaiano e a farlo classificare autore satirico è l’ironia, il disincanto, il sarcasmo corrosivo e il ricordare e ripetere da parte di tutti noi ossessivamente aforismi e battute – esplicita nella parte iniziale il relatore - . Sebbene abbia scritto un romanzo non viene chiamato romanziere, non è considerato drammaturgo, non è definito giornalista ed è stato tutte queste cose e altre ancora. Egli stesso si autodefinì in diversi modi. Oscillava da “scrittore minore satirico dell’Italia del benessere” a solo “cronista” alla domanda se fosse scrittore o giornalista e quando in un’intervista gli chiesero ancora una volta a quale genere letterario volesse essere incluso, rispose “Io scrivo per non essere incluso; anche perché la satira ha lo svantaggio di essere superata dalla realtà”. Tranne poi quando Giuseppe Prezzolini lo definì “uno degli scrittori più spiritoso d’Italia” con riferimento solo ai suoi articoli di giornale, Flaiano la prenderà male e gli scriverà “Mi definisce spiritoso: e questo è come dire a uno che non sa scrivere e che vuol divertire a tutti i costi”. E di rimando Prezzolini: “L’epiteto di spiritoso, per uno come me, non ha quel significato che lui gli dà. Per me vuol dire critico, ribelle, demolitore ecc…”. Lo stesso Prezzolini nella sua “Storia della letteratura” lo definì “sgominatore di retoriche nazionali e comunitarie, salutifero distruttore di miti contemporanei, potentissimo nel far cadere a terra quello che appariva monumentale”. Il nostro autore sentiva di avere più affinità col passato, che non col presente. Quando un giornalista inglese, convinto che fosse uno scrittore latino tradusse il suo nome in Ennius Flaianus, commentò divertito: “È probabile che io sia un antico romano dimenticato dalla storia, a scrivere cose che altri hanno scritto molto meglio di me: Catullo, Marziale, Giovenale”.  Flaiano nasce a Pescara il 5 marzo 1910 a Pescara, nella stessa via di Gabriele D’Annunzio da Cetteo, commercialista e da Francesca Di Michele. È l’ultimo di nove figli da un padre che ne ha sei con la moglie, due con la donna di servizio, e, infine, di nuovo con la moglie, Ennio. Il padre non si curò mai del figlio e sulla madre il nostro scrittore rivelò di averla conosciuta poco e tardi. A cinque anni incomincia a essere trasferito da una città all’altra, Camerino, Senigallia, ritorno a Pescara, trasferimenti così sintetizzati: “a sette anni sapevo già fare un telegramma”. Dal collegio di Senigallia, dove iniziò la scuola elementare gli restò questo ricordo: “È la prima sensazione di angoscia. L’arrivo, la luce delle camerate , l’attesa nello studio, l’indifferenza dei compagni. Faccio la pipì a letto”. Frequenta le scuole medie a Brescia e in questo periodo inizia la sua passione per la lettura. I suoi autori preferiti sono Poe, Flaubert, Salgari, Verne, Baudelaire. Nel 1922 parte per Roma e il viaggio lo fa in compagnia di fascisti che partecipano alla marcia su Roma. Fra questi c’è Mino Maccari, che diventerà scrittore, pittore, disegnatore, ideatore di riviste. Con Maccari più tardi nascerà un’amicizia che durerà tutta la vita. Quel tempo e la passione dell’amico Maccari saranno ricordati in una poesia: “Mino, ricordi la marcia su Roma ? / Io avevo dodici anni, tu ventuno / Io in collegio tornavo e tu a Roma / guidavi la squadraccia dei Trentuno. / Mino ricordi ? Alle porte di Roma / ci salutammo. Avevi il gagliardetto / il teschio bianco, il pugnale tra i denti. / Io m’ero tolto entusiasta il berretto / ricordi ? Tu eri perfetto nella divisa di bel capitano. / Io salutavo agitando il berretto. Tu andavi a Roma, io andavo a Milano”. A Roma, in un Collegio Nazionale, il Clementino, frequenta, con scarso interesse, il corso di Ragioneria. Al termine delle scuole superiori viene bocciato e passa al Liceo Artistico. Conseguito il diploma, si iscrive ad Architettura, che poi abbandonerà. Frequenta ambienti artistici, teatrali, letterali. Fra i suoi amici il pittore Orfeo Tamburi. Gli anni trenta sono di formazione. Incontra Pannunzio e incomincia a scrivere su giornali recensendo film, spettacoli e libri. Nel 1935 parte per la guerra d’Etiopia con il grado di sottotenente. La delusione è palese. Di questa guerra in un Diario mette in evidenza i lati retorici della vita di guerra e i lati ridicoli. Aveva appuntato in un taccuino: “Un soldato scende dal camion, si guarda attorno e mormora – Porca miseria ! –”. Egli sognava un’Africa convenzionale, con alti palmizi, banane, donne che danzano, pugnali ricurvi, un miscuglio di Turchia, India, Marocco, quella terra ideale dei film Paramount denominata oriente … La realtà è ben diversa. In una lettera a Orfeo Tamburi descrive le sofferenze dei soldati: “Non c’è una parola che possa descrivere la nostra sofferenza. Si vive con l’acqua contata, sotto un sole che non perdona, sui monti, che sembrano delle fortezze naturali, con il pericolo continuo di una fucilata alle spalle che ci levi di mezzo stupidamente. Se non si avesse della fede, molta fede e molta volontà, ci sarebbe da desiderarla, questa fucilata”. Tornato in Italia è dopo qualche anno colpito da esaurimento nervoso e ritorna a Pescara. Muore intanto la madre e ritorna a Roma, dove frequenta intellettuali come Cardarelli, Longanesi, Maccari, Soldati, Brancati e Moravia. In questo periodo aumentano le collaborazioni a giornali con articoli di critica cinematografica, teatrale e di storia dell’arte. Nel 1940 sposa Rosetta Rota, sorella di Nino che diventerà un musicista famoso. Ha due lauree, Matematica e Fisica, e ha frequentato fisici come Enrico Fermi e Emilio Segrè. Dal matrimonio nacque una bambina, Luisa, detta Lelé, che dopo pochi mesi è colpita da una grave encefalopatia con crisi epilettiche. Da allora Rosetta si dedica completamente alla figlia, trascurando tutto il resto, anche il marito, che a sua volta per questa disgrazia non si diede mai pace. Nel dopoguerra, 1946, scrive la prima opera teatrale, “La guerra spiegata ai poveri”, rappresentata in teatro romano. Poi il primo romanzo, “Tempo di uccidere”. Così Flaiano racconta la nascita di quest’opera voluta da Longanesi che aveva conosciuto molti anni prima in una birreria e che dopo quattro chiacchiere gli aveva detto: “Si metta a scrivere e non perda tempo”: “Nel duro inverno del ’46 passeggiavamo cortesemente, una sera di dicembre, quando si fermò e mi disse: «Mi scrive un romanzo per i primi di marzo ?». Io scoppiai a ridere, ma lui diceva sul serio … Quando ebbi detto (per dire qualcosa) come vedevo un romanzo, una storia assolutamente fantastica che non la immaginavo in Italia, ma in Africa, disse: «Se comincia subito le do un anticipo». Così cominciai a scrivere e i primi di marzo gli mandai un manoscritto, che stampò”. Quel manoscritto divenne “Tempo di uccidere”, legato alle sue esperienze nella guerra d’Etiopia. Esce a fine aprile 1947 e in una lettera di maggio così Longanesi scrive all’autore: “Ansaldo ha letto il suo libro e lo ha trovato bellissimo. Io sono dello stesso parere e farò il possibile per farlo leggere e recensire dai nostri amici-cretini-critici. Lei andrà dai librai per fare delle vetrine, stringerà la mano ai commessi come Napoleone faceva con le sentinelle. Non abbia timidezza: si faccia fotografare in certo modo e faccia pubblicare i ritratti. Cerchi di parlare alla radio. Bisogna battere Moravia. Mi raccomando”. E gli dice anche di frequentare il salotto della Bellonci. Il romanzo è estraneo al neorealismo in voga in quegli anni ed è ambientato durante la guerra d’Etiopia del ’36, è decisamente contro il colonialismo e ritrae l’Africa, definita “lo sgabuzzino delle porcherie” senza retorica e folclorismi. I soldati italiani sono antieroi annoiati, senza scrupoli, protagonisti di una guerra, dalla quale non vedono l’ora di fuggire. Il romanzo a luglio si aggiudica la prima edizione del Premio Strega, duecentomila lire di premio, battendo Moravia, Pratolini, Pavese e Anna Banti. Flaiano commenta: “La votazione è durata un mese, l’assegno durerà quindici giorni”.  Lo slogan di Maccari per farlo vincere era stato: “Chi soffrì nel ventennio voti per Ennio, nel caso inverso ogni italiano voterà per Flaiano”. E i contrari: “Pensiero orrendo e insano votare per Flaiano”. Nel 1950 l’incontro con Federico Fellini per il quale sceneggiò il film “Luci del varietà”. A cui seguirono poi tutti i capolavori, da “I Vitelloni” a “La strada”, da “Le notti di Cabiria” a “Otto e mezzo”. Era definito per antonomasia “lo sceneggiatore di Fellini”. Tra i due non vi fu un rapporto facile. Fellini rimaneva male quando gli chiedevano se Flaiano avesse sprecato, dedicandosi al cinema, il suo talento letterario. Il regista in diverse interviste non faceva altro che sottovalutare l’apporto dello scrittore, limitandolo alle sole battute. Arriva anche a non pronunciare il suo nome. Quando Fellini parlò, a proposito del film “Il Bidone”, parlò del “mio film”. Flaiano protestò: “La sceneggiatura è stata fatta anche da me e Pinelli … Ci siamo fraternamente preoccupati perché tu non abbandonassi l’idea del film. Tutto dimenticato ? … Ti dico che aver agito così non ci riguarderebbe se non ci rattristasse”. Col tempo i rapporti peggiorarono anche perché, come racconterà Rosetta Flaiano: “Quando veniva da noi non riusciva neppure a guardare Luisa, lui con gli altri giravano la faccia dall’altra parte, come infastiditi”. E una volta aveva pronunciato una frase infelice: “Ma perché non la rinchiudono”. “Ennio ed io fummo feriti”. L’episodio è determinante nel deteriorarsi del rapporto tra i due per arrivare alla rottura definitiva quando nel 1964 il film 8 ½ venne candidato a cinque premi Oscar (vincendone poi due). Partirono tutti per Los Angeles, ma sull’aereo tutti viaggiarono in prima classe tranne Flaiano che viaggiava in classe turistica. Perde le staffe quando Fellini va da lui per offrirgli noccioline e aperitivi della prima classe. A New York scende e riprende l’aereo per l’Italia. Poi così scriverà al regista: “Ciao, caro Fellini, le amicizie frivole finiscono per una frivolezza. Tuttavia, come si dice in questi casi ? Arrivederci e buona fortuna”. E Fellini di rimando: “Non ho mai avuto dubbi sulla frivolezza della tua amicizia ma che vuoi farci, sei proprio fatto così e anche la lettera che mi hai scritto è frivola. Comunque, per me andava bene lo stesso. Finisce la collaborazione? Mi spiace. Mi sembrava che in fondo ti divertivi a lavorare con noi e non ti facevo poi fare brutta figura come spesso ti capitava con altri registi. Ennio caro, ti saluto e buona fortuna anche a te, frivolamente “. Ma anche per Montanelli Fellini “si nutrì molto del suo talento e non sempre glielo riconobbe”. E anche Tullio Pinelli, altro sceneggiatore, dirà che “Fellini ci prosciugava. Era una spugna. Captava da tutti quello che gli interessava”. Sempre per Montanelli, Flaiano era uno sceneggiatore “a suo modo. Non prese mai in mano una macchina da ripresa, non scrisse mai una sceneggiatura completa, lavoro che richiedeva metodo, pazienza, continuità. Ma qualunque sceneggiatura gli venisse sottoposta, anche la più banale, Flaiano la ravvivava con tre o quattro «trovate» assolutamente geniali”. Nel decennale della “Dolce Vita” Flaiano riconobbe che quello era stato il punto più alto del suo lavoro. Infatti dopo aver rivisto il film, così scrisse a Fellini, col quale c’era stata una ripresa del rapporto di amicizia: “Ti confesso che c’ero andato col lugubre presentimento di trovare tutto abbastanza offeso dal tempo, e che all’ultimo momento stavo per filarmela (…). Invece sono caduto nel film come se non l’avessi mai visto prima. Affascinante, pieno di una realtà che ancora adesso si sta decifrando, un film poi che lascia storditi per l’abbondanza e la precisione dei motivi, dei personaggi e delle storie che si intrecciano come in un grande telaio e ognuna completa l’altra. Insomma, un romanzo, non un racconto. Credo che resti la tua opera più viva in questo senso, proprio per la carica di pietà e di ansia per un mondo che sta uscendo dai binari e affretta il momento della disperazione”. Oggi il termine “paparazzo”, per indicare il fotografo è di uso comune, ma l’ha creato proprio il nostro scrittore che così racconta la nascita di questo appellativo: “Ora dovremo mettere a questo fotografo un nome esemplare, perché il nome giusto aiuta molto e indica che il personaggio “vivrà”. Queste affinità semantiche tra i personaggi e i loro nomi facevano la disperazione di Flaubert, che ci mise due anni a trovare il nome di Madame Bovary, Emma. Per questo fotografo non sappiamo che inventare finché aprendo per caso quell’aureo libretto di George Gissing che si intitola “Sulle rive dello Jonio” troviamo un nome prestigioso: “Paparazzo”. Il fotografo si chiamerà Paparazzo. Non saprà mai di portare l’onorato nome di un albergatore della Calabria, del quale Gissing parla con riconoscenza e ammirazione. Ma i nomi hanno un loro destino”. Flaiano sentiva profondamente ed era consapevole della varietà dei suoi interessi e l’impegno dedicato al cinema, sia come recensore di film che soggettista era quello che riteneva più lontano dai suoi interessi. Eppure al cinema dedicò tempo ed energie, anche perché era il lavoro più redditizio, dal momento che come sceneggiatore e soggettista mise la firma a ben ottantacinque testi cinematografici dal 1942 al 1971. Diceva che fare lo sceneggiatore non era una professione ma “uno stato transitorio” che serve ad approdare a essere regista e produttore. Il cinema, per lo scrittore, non è arte, perché non regge il passare del tempo che rende incomprensibili le immagini rispetto alla realtà. “Il film migliore sfida appena la generazione seguente a quella che l’ha prodotto, poi diventa «documento».”. In una intervista fatta pochi mesi prima della morte, sconsigliava agli scrittori di fare cinema: “Quando ci si rimette davanti alla pagina, dopo un poi’ che si è lavorato come sceneggiatore, bisogna ridimensionarsi di dentro con enorme fatica”. L’amore per il teatro l’accompagnò invece tutta la vita. Tra i suoi lavori anche una rilettura dell’Amleto di Shakespeare, “Amleto ‘43”, dove il protagonista si presenta come un nano stanco, annoiato, con tendenze omosessuali. Il suo famoso monologo viene così rivisto: “Spesso mi domando se val meglio soffrire / O far soffrire il prossimo / Questo è il problema”. Secondo lo scrittore il teatro deve ritornare alle sue origini, ritornare ai “fondali di carta, alle porte che non si chiudono, al suggeritore sotto la cupola, alle luci della ribalta, alla sonagliera della carrozza in arrivo”. Proprio nel teatro lo scrittore ebbe la più grande delusione e il più grande insuccesso. Fu, quando nel 1960, al Teatro Lirico di Milano, dalla Compagnia di Vittorio Gassman fu messo in scena “Un marziano a Roma”, il suo lavoro più impegnativo, dovuto anche al non benevolo pubblico milanese. Come scrisse l’autore: “era inutile recitare davanti a un pubblico di visoni”. Narra di un extraterrestre, Kunt, atterrato a Villa Borghese e portato in trionfo, intervistato, ricevuto dalle più alte cariche dello Stato, fotografato accanto a Moravia e Carlo Levi e poi, col passare dei giorni, viene ignorato, considerato come un uomo qualunque. E quando l’alieno va al ristorante, all’improvviso si sente chiamare: “Ah, Marzià” si gira e giù una fragorosa pernacchia. Umiliato, scappa e torna su Marte. Il dispiacere per l’insuccesso dell’opera accompagnò l’autore per molto tempo, tanto che l’amico Maccari gli disse: “L’insuccesso ti ha dato alla testa”. Dodici anni dopo torna al teatro con “La conversazione continuamente interrotta” rappresentata al Festival di Spoleto nel 1972. Il tema di fondo è la crisi della letteratura e dell’arte. I protagonisti sono “il Poeta”, “lo Scrittore”, “il Regista”, rappresentanti gli intellettuali contemporanei. L’autore descrive l’ambiente che frequenta e i tre appaiono persone modeste, assolutamente mediocri. Flaiano sostiene in fondo che non esiste separazione tra reale e immaginario, tra la vita e la letteratura. Banalità e noia tengono insieme la realtà e la rappresentazione che si fa di essa. È inutile fare teatro, arte, e letteratura, perché non influiscono sulla vita quotidiana, opinione così sintetizzata dallo Scrittore: “Si, ma a che serve il teatro? Mio nonno entrò in un teatro cinque volte in tutta la sua vita, mio padre diciamo cinquanta, io ogni settimana da anni. Eppure abbiamo commesso tutti e tre gli stessi errori”. Di quel periodo, ma rimasta inedita, è “La spirale tentatively”, una confessione e un bilancio della propria vita, sul dolore e sulla morte. La figlia aveva rischiato di morire per poi miracolosamente salvarsi proprio quando il padre aveva offerto la propria in cambio di quella della figlia. Quali furono i suoi rapporti con la politica ? Scrisse su giornali fascisti e antifascisti, visse gli anni del dopoguerra senza aderire alla Resistenza. Fu sempre in polemica con la destra e la sinistra, con i movimenti creati da un solo individuo, e da quelli centristi dei gruppi cattolici. Il rimprovero costante era quello di non aver mai avuto il culto della libertà. “Ho una sola opinione – scrive ne Diario Notturno – anzi passione storica, ed è questa: ho sempre parteggiato per i Cartaginesi”. Costanti nella vita dello scrittore furono lo scetticismo, l’indifferenza, il distacco dalla vita. Nonostante questo è stato capace, come è tipico di ogni autore satirico, di mettere in evidenza la vera natura dell’essere umano. È sempre impietoso nel descrivere i suoi connazionali. Leggiamo due brani, il primo giovanile, il secondo risalente a molti anni dopo: “I secoli hanno lavorato per produrre questo individuo di stanche ambizioni, furbo e volubile, moralista e buon conoscitore del codice, amante dell’ordine e indisciplinato, gendarme e ladro secondo i casi. Nazionalista convinto, vi dice come si doveva vincere l’ultima guerra e a chi si potrebbe dichiarare la prossima. Evade il fisco ma nei cortei patriottici è quello che fiancheggia la bandiera e intima ai passanti: «Giù il cappello»!”. Ed ora il secondo brano: “Italia, Paese di porci e di mascalzoni. Il Paese delle mistificazioni alimentari, della fede utilitaria (l’attesa del miracolo a tutti i livelli) della mancanza di senso civico (le città distrutte, la speculazione edilizia portata al limite), della protesta teppistica, un Paese di ladri e di bagnini (che aspettano l’estate), un Paese che vive per le lotterie e il gioco del calcio, per le canzoni e le ferie pagate. Un Paese che conserva tutti i suoi escrementi”. E ancora poco prima di morire: “Appartengo alla minoranza silenziosa. Sono di quei pochi che non hanno più nulla da dire e aspettano. Che cosa ? Che tutto si chiarisca ? È improbabile. L’Età mi ha portato la certezza che niente si può chiarire: in questo Paese che amo non esiste semplicemente la verità”. Flaiano non mancò mai di mettere in evidenza il falso mito dei paesi socialisti e comunisti che condannano i popoli a soffrire sotto “un giogo che hanno accettato pieni di speranza”. Non li risparmiò né con gli aforismi: “Lei è comunista, io aristocratico, dunque tutti e due odiamo il popolo; la differenza è che lei riesce a farlo lavorare”, oppure sapendo che Renato Guttuso si faceva servire da camerieri in livrea: “Comunista io ? Mi dispiace, non lo posso permettere”. Decisamente attaccò il Partito Comunista Italiano quando fu indifferente davanti all’invasione ungherese del 1956 e ridicolizzò Togliatti quando definì “teppisti controrivoluzionari” gli ungheresi insorti. E ancore sul vantaggio di dirsi comunisti: “Vogliono la rivoluzione ma fanno barricate con i mobili degli altri”. Nel 1970 è colpito da infarto e si separa anche fisicamente dalla moglie per andare a vivere in residence. Ma confesserà di non aver mai voluto accanto la moglie così tanto come quando erano lontani. Da qui il consiglio alle persone sposate di vivere separatamente. Dopo l’infarto aveva confidato a un amico: “Arrivati alla mia età ci si accorge che è stato un bello scherzo nascere qui; ma ormai è fatta e la sola cosa che desidero è di non morirci. Penso spesso di trasportarmi altrove, in un paese stupido, ma onesto: è che ho timore che sia troppo tardi”. La stessa insoddisfazione che aveva manifestato molti anni prima, nel 1957: “Tutto diventa materia di esibizionismo e di rotocalco. Tutto viene preso sul serio in questo benedetto Paese, eccetto le cose serie. E tutto finisce per addolorarmi, come se ci fossi dentro fino al collo e non potessi più uscirne …”. Una volta guardando il numero di un autobus, il 92, Flaiano annotò: “Chissà se ci arriverò al ’92. Però che noia”. Morirà vent’anni prima, nel 1972, colpito da un secondo infarto. Dopo la morte del marito, Rosetta si trasferì in Svizzera per curare la figlia che morì poco dopo. Lei visse poi ricoverata in una casa per anziani per morire, ultranovantenne, nel 2003. Come si è visto l’opera dello scrittore è quanto mai varia nei contenuti e nelle forme, pur manifestando sempre un’assoluta sfiducia nella possibilità che la letteratura possa influire sul modo di pensare degli uomini, anche se spesso nelle opere del nostro notiamo che queste premesse non vengono rispettate e si fa coinvolgere nelle polemiche senza manifestare cedimenti e compromessi. Costante anche l’attenzione per quello che scrive e le sue osservazioni su come bisogna usare la lingua con meticolosità. Due esempi. Il primo rivolto a se stesso: “Regola generale: quando scrivi un articolo, un racconto, un pezzo qualsiasi lascia correre almeno due giorni prima di spedirlo. Ricordati che niente ti avvilisce di più e ti toglie il gusto di scrivere come veder stampata una cosa inesatta, che con un minimo di pazienza, senza fretta, avresti potuto rendere migliore o almeno leggibile. Ricordati, ma tu lo sai bene, che un racconto cattivo annulla dieci racconti buoni …”. Il secondo sul linguaggio: “La lingua italiana non è adatta alla protesta, alla rivolta, alla discussione dei valori e delle responsabilità, è una lingua buona per fare domande in carta da bollo, ricordi d’infanzia, inchieste sul sesso degli angeli e buona, questo sì, per leccare. Lecca, lecca, buona lingua italiana, infaticabile fa il tuo lavoro per il partito e per i buoni sentimenti …”. È questo mescolare serio e faceto che provoca un’insoddisfazione continua nell’autore e il suo conseguente scetticismo sulla natura dell’uomo. Il suo esempio è un personaggio di Melville. Bartleby lo scrivano, il cui motto, ripetuto fino all’esasperazione è “preferirei di no”. Un errore, forse, ma che è una scelta di libertà e di superiorità nel suo distacco dal mondo esterno”. Uno scrittore complesso, per concludere, Ennio Flaiano, ironico, disincantato. Ma, come l’ha definito la curatrice delle sue opere, Anna Longoni, è un moralista nel senso più alto: è di quei moralisti che sanno cosa è il bene e cosa è il male, e che il male va combattuto, pur nella fragilità della condizione umana.
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21 febbraio 2020
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