F. FELLINI, “Fare un film”, Einaudi, Torino, 1974
F. FELLINI, “Raccontini e disegni per il 420” , Nerbini, Firenze, 1994
M. VERDONE, “Federico Fellini”, Il Castoro, Milano, 1995
R. PROVENZANO, “Invito al cinema di Fellini”, Mursia, Milano, 1995
T. KEZICH, “Federico” , Rizzoli, Milano, 1996
F. FELLINI, “Dizionario intimo”, Piemme, Casale Monferrato, 2019
Luci del varietà, co-regia di Alberto Lattuada (1950)
Lo sceicco bianco (1952)
I vitelloni (1953)
L'amore in città (1953) - episodio Agenzia matrimoniale
La strada (1954)
Il bidone (1955)
Le notti di Cabiria (1957)
La dolce vita (1960)
Boccaccio '70 (1962) - episodio Le tentazioni del dottor Antonio
8½ (1963)
Giulietta degli spiriti (1965)
Tre passi nel delirio (1968) - episodio Toby Dammit
Fellini Satyricon (1969)
Block-notes di un regista (1969) - televisione
I clowns (1970)
Roma (1972)
Amarcord (1973)
Il Casanova di Federico Fellini (1976)
Prova d'orchestra (1979)
La città delle donne (1980)
E la nave va (1983)
Ginger e Fred (1985)
Intervista (1987)
La voce della Luna (1990)
Il Circolo Culturale “L'Agorà”, in collaborazione con l'Archivio di Stato di Reggio Calabria, ha organizzato una giornata di studi sul tema “Federico Fellini nel centenario della nascita”. La conversazione si è svolta presso la sala conferenze del prestigioso istituto che ha registrato l'intervento della funzionaria Fortunata Chindemi che ha portato i saluti della Direttrice Maria Fortunata Minasi. Ha fatto seguito l'introduzione di Gianni Aiello, presidente del Circolo Culturale “L'Agorà” che, successivamente ha dato spazio al relatore Antonino Megali, socio del sodalizio organizzatore. “Fellini non è soltanto un grande regista, - esordisce Antonino Megali - il più grande del nostro tempo, ne sono sicuro: è soprattutto un creatore, grande vero, fors’anche inconsapevole, talvolta un po’ sconcertante, che ha attinto dal subconsciente il materiale per tutte le sue opere. Per questo lo ammiro profondamente, un po’ geloso, forse, d’una potenza che sento di non possedere. Per me Fellini “è” il cinema”. Così Georges Simenon. Non è semplice districarsi nel racconto della vita del grande regista tante sono le leggende e le bugie che la costellano. Eppure egli stesso così la semplificava:”Non mi pare di aver avuto un’esistenza raccontabile. Sono nato, son venuto a Roma, mi sono sposato e sono entrato a Cinecittà. Non c’è altro”. Invece per i suoi biografi già della sua nascita vengono date due versioni. Secondo un giornale egli è nato in una vettura ferroviaria di prima classe mentre il treno correva tra Viserba e Riccione, precisamente anzi a Rimini. Sarebbe nato in viaggio. È stato facile scoprire la bugia perché proprio quel giorno treni non ne circolavano per uno sciopero dei ferrovieri. La madre lo partorì in un appartamento alle spalle del Grand Hotel assistita da un medico per sopravvenuta difficoltà durante il parto. Ma neanche sull’orario vi è concordanza. Federico dirà di essere nato a mezzanotte e un quarto nell’ultimo giorno del Capricorno, l’atto di nascita lo registra alle undici e trenta del mattino. L’orario giusto è dato alle ventuno e trenta del 20 gennaio. Il padre è Urbano, rappresentante di commercio, la madre Ida Barbiani, figlia di Riccardo di origine riminese e commerciante all’ingrosso e di Maddalena Leali romana. Nel corso degli anni nasceranno poi un fratello, Riccardo e una sorella, Maddalena. Proprio nell’anno dell’inizio della dittatura fascista, il 1925, inizia le scuole elementari. Secondo una sua dichiarazione, nel 1928 scappa di casa e passa un breve periodo in un circo. Circostanza anche questa smentita dalla madre. Invece tutti concordano sulla assoluta tranquillità di Federico bambino. Giocava con il teatrino perché da grande avrebbe voluto fare il burattinaio e passava intere giornate per inventare disegni. Poi diventa lettore accanito del “Corriere dei Piccoli”, di numerosi fumetti e dei romanzi di Emilio Salgari. Caso unico, ignora cosa sia il calcio e mai ha dato una pedata a una palla. Nel 1935 viene mandato a Forlì per la scota d’onore a Vittorio Emanuele III che inaugura la mostra di Melozzo degli Ambrogi. Qui Federico si diverte imitando le smorfie del sovrano. L’anno dopo partecipa ad un campeggio di avanguardisti dove realizza alcune caricature. Le vignette vengono pubblicate nel giornale “La Diana”. Sono le sue prime opere pubblicate. Si fa conoscere come illustratore, tanto che con un amico, Bonini, apre una “bottega del ritratto” chiamata FEBO (dalle iniziali dei due). Nel 1938 ottiene la maturità e incomincia a scrivere inviando ai giornali vignette e disegni. Qualcosa appare sulla “Domenica del Corriere” nella rubrica “Cartoline dal pubblico” dove ogni cartolina accettata viene ricompensata con venti lire. In una di queste un domatore parla con la moglie acrobata. Titolo: Gelosone. Battuta: “Il marito: E quando fai il salto della morte non c’è bisogno che tu stringa tanto forte le mani di Giorgio. Hai capito?”. In questi anni l’innamoramento di Federico verso una ragazza, Bianca Soriani. La madre gli vieta di frequentarla e la leggenda vuole che per la disperazione cada svenuto. Sarà poi la ragazza ad abbandonare Rimini per trasferirsi a Milano e tutto finisce. Il salto di qualità è la sua collaborazione con il “420” fondato nel 1914 da Nerbini e prende il nome da un potente cannone tedesco. Ha delle rubriche fisse: Bazar della battuta, Quello che cascò da piccino, Parola d’onore e Le Micronovelle. Le vignette sono firmate Fellas. Esempio: Dal salumiere – Come si fa ad aprire questo vasetto? – C’è la spiegazione dentro. Certo l’umorismo di questi anni è quasi sempre modesto e raramente strappa qualche risata. Nel 1939 parte per Roma dove dovrebbe iscriversi alla Facoltà di giurisprudenza. Inizia invece la sua carriera di giornalista collaborando a settimanali come “Cine illustrato”, “Rugantino”, “Cinemagazzino” e il “Marc’Aurelio” dove inventa rubriche e personaggi. Fra queste “Ma tu mi stai a sentire ?” che inizia sempre con le stesse parole: “Io parlo a te, fidanzatina rotonda …” per poi ripetere nel finale: “Io parlo a te, fidanzatina rotonda, ma tu mi stai a sentire ?”. Conosciuto Fabrizi, entra nel mondo del teatro e del varietà. Collabora alle sceneggiature di “Non me lo dire!” e “Il pirata sono io”, con Macario e la regia di Mattoli e a tante altre, sempre senza essere citato. Conosce intanto Giulietta Masina nel 1943 che alla radio interpreta Pallina, personaggio inventato da Federico, (l’altro è Cico) e si sposano dopo un breve fidanzamento. Nel 1945 Giulietta dà alla luce un bambino – dopo un aborto per caduta dalle scale – battezzato Pierfederico, che dopo un mese muore colpito da encefalite letargica. Intanto insieme ad alcuni amici apre una serie di negozi dove si fanno caricature, ritratti e fotografie per soldati americani. Dopo sceneggiature e collaborazioni finalmente il debutto come regista nel 1952, dopo la rinuncia di Antonioni, con “Lo sceicco bianco”. Ebbe scarso successo e bollato dalla rivista “Bianco e nero” come “un film talmente scadente per grossolanità di gusto … da rendere legittimo il dubbio se tale prova di Fellini regista debba considerarsi senza appello”. Naturalmente non possiamo passare in rassegna tutti i films del regista e pertanto ci limiteremo a citare quelli più famosi. Come “I Vitelloni”. Accolto da lunghi applausi al Festival di Venezia, vince il Leone d’Argento e viene distribuito anche all’estero. Ennio Flaiano co-sceneggiatore del film definisce “I Vitelloni” un viaggio nel tempo amaro e assurdo della giovinezza. Il neologismo diventerà da allora patrimonio del linguaggio comune. Il vitellone – secondo Fellini – è un perdigiorno, già stagionato, che ha qualcuno che bene o male lo mantiene. Può essere il padre, la madre, la sorella, la zia. Una famiglia dove mangia, dorme, si è vestiti e riesce anche a scroccare un po’ di soldi per le sigarette e il cinematografo. Gli interpreti sono Franco Interlenghi, Alberto Sordi, Franco Fabrizi, Leopoldo Trieste. Proprio la parola che dà il titolo rischia di decretare l’insuccesso del film. Qualcuno propone di cambiare il nome in “I vagabondi !”. Ma dopo il successo, Fellini è contattato per dare un seguito al film. Un produttore gli offre un assegno in bianco per dirigere “Le vitelline”. Tra le scene da ricordare quella del veglione, con le ubriacature, e i tentativi di crearsi rapporti sentimentali. Poi la passeggiata sulla spiaggia d’inverno e in genere la noia di un tipo di vita sono descritti con ironia, ma anche con malinconia e affetto. Con questo film nasce il successo di Alberto Sordi, nonostante la richiesta della distribuzione di non far comparire il nome sui manifesti. È famosa la scena in cui i vitelloni, tornando in auto da una gita, incontrano alcuni operai che stanno riparando la strada e Alberto non resiste al desiderio di deriderli. “Lavoratori …” e giù una pernacchia. Poi la macchina si blocca e in preda al panico scappa inseguito dagli operai. Protagonisti de “La strada” sono due girovaghi. Zampanò (Anthony Quinn) e Gelsomina (Giulietta Masina). Donna-bambina viene venduta a Zampanò e gli farà da partner nelle esibizioni di piazza. Incontra un altro saltimbanco, il Matto, che le procura momenti piacevoli. Ma Zampanò finisce con l’uccidere il Matto e abbandonare Gelsomina ai margini di una strada. Un giorno verrà a sapere che è morta e scoppierà in un pianto disperato, sulla spiaggia, nel silenzio della notte … Molti hanno interpretato il film come una metafora del matrimonio di quei tempi. Il maschio violento e la donna sottomessa. E lo stesso Fellini dichiarò: “La maggior parte dei matrimoni è così”. E qualcuno la considerò come la storia del matrimonio dello stesso Federico. Ma la Masina rifiutava di identificarsi con Gelsomina e stupì tutti quando disse che in realtà Gelsomina era Federico. Ma non solo. Anche Zampanò e il Matto. È presente, nei tre personaggi Federico fanciullo, quello dedito al vagabondaggio (Zampanò) e il Matto è il Fellini clown che dichiara. “Vorrei sempre far ridere”. Poi il film “rivoluzione” che rappresentò lo spartiacque nella evoluzione artistica di Fellini e di tutto il cinema italiano: “La dolce vita”. Interpreti. Marcello Mastroianni, Valeria Ciangottini, Anouk Aimée, Gio Staiano, Nadia Gray e Anita Ekberg. La prima volta che vidi Anita su Life, raccontò fellini, mi venne il singhiozzo. E i fotografi dicevano: “Non è una donna, ma almeno una e mezzo”. Come nacque l’idea del film’ Ce lo racconta, nel suo Diario, Ennio Flaiano: “Sto lavorando, con Fellini e Tullio Pinelli, a rispolverare una nostra vecchia idea per un film, quella del giovane provinciale che viene a Roma per fare il giornalista. Fellini vuole adeguarla ai tempi che corrono, dare un ritratto di questa “società del caffè” che folleggia tra l’erotismo, l’alienazione, la noia e l’improvviso benessere. È una società che, passatolo spavento della guerra fredda e forse proprio per reazione, prospera un po’ dappertutto. Ma qui a Roma, per una mescolanza di sacro e profano, di vecchio e di nuovo, per l’arrivo massiccio di stranieri, per il cinema, presenta caratteri più aggressivi, subtropicali … Gli scandali vi scoppiano con la violenza dei temporali d’estate, la gente vive all’aperto, si ammassa, si studia, invade le trattorie, i cinema, le strade, lascia le sue automobili in quelle stesse piazze che una volta ci incantavano per il loro nitore architettonico e che adesso sembrano garages. Uno dei nostri luoghi dovrà essere forzatamente Via Veneto, che diventa sempre più festaiola …”. Si, Via Veneto, divenuta dopo la Prima guerra mondiale Via Vittorio Veneto, con i suoi famosi locali, il Doney, il Rosati e il Café de Paris, era il posto frequentato da attori, letterati, dive conosciute e divette oltre che da miliardari. Quel mondo quando Fellini lo porta sullo schermo è già sulla via del tramonto. Dopo qualche anno vedendo i nuovi frequentatori della via, Ennio Faliano sembra abbia detto. “Questi credono di essere noi”. Il film con il prologo che vede un Cristo che vola su Roma e al fine che vede la pesca di un pesce-mostro si svolge intorno al personaggio del giornalista Marcello Rubini, protagonista dei vari episodi, tra i quali la notte con l’amica americana, il rapporto con Steiner amico intellettuale, la visita del padre, l’orgia, il tutto vissuto a metà tra il gusto e il disgusto dell’ambiente che lo accoglie. Da ricordare la scena più nota che diventerà il manifesto di un’epoca. Il bagno nella fontana di Trevi. Si vede la Ekberg con un abito nero e lungo camminare per la Fontana e chiamare il suo partner che aveva dovuto indossare per il freddo stivaloni sotto gli abiti da sera e bere whisky per scaldarsi. Alla prima romana del film ci fu qualche applauso e qualche fischio ma a Milano, cinema Capital, è tutta un’altra storia. Lo spettacolo è considerato troppo lungo, immorale e di difficile interpretazione. Durante la proiezione si sentono grida di protesta (schifo, basta, vergogna). Alla fine Fellini riceve uno sputo da uno spettatore. Altri gridano a Mastroianni: vigliacco, vagabondo, comunista. A fare indiretta pubblicità al film concorrono un’interrogazione parlamentare con cui si stigmatizza “l’offesa palese alla virtù e alla probità della popolazione romana” e la “banale canzonatura dell’alta missione di Roma quale centro del cattolicesimo e di antiche civiltà”. Il Centro Cattolico Cinematografico da “sconsigliabile” lo declassa fra gli esclusi per tutti, e l’Osservatore Romano parla di “schifosa vita” e intitolando un editoriale “Basta!” Indro Montanelli è controcorrente. Dopo aver visto il film scrisse: Non siamo più nel cinematografo, qui siamo nel grande affresco. Fellini secondo me non vi tocca vette meno alte di quelle che Goya toccò in pittura, come potenza di requisitoria contro la sua e la nostra società”. Saltando altri films, alcuni decisamente mediocri, possiamo direttamente a Amarcord del 1973. In dialetto romagnolo significa “mi ricordo”, è una miscela di quadri satirici, di caricature, di ritorni al mondo variegato dell’infanzia. Si ritorna agli anni trenta (1933-1935). Un gruppo di studenti si trovano ogni sera. Titta, il protagonista, si aggira per le strade e incontra diversi personaggi: un ambulante mitomane, un fisarmonicista cieco, una tabaccaia dai grossi seni. Poi c’è una parata fascista, il passaggio del transatlantico Rex. Ci sono anche scene sgradevoli. Il papà di Titta è costretto dai fascisti a bere olio di ricino a sua madre muore. C’è la visita allo zio matto che dopo qualche ora tranquilla sale su un albero, reclamando “la donna” e soltanto con l’intervento di una suora nana viene fatto scendere. Titta tenta di sedurre la bella Gradisca, la provocante parrucchiera che sogna di poter sposare uno come Gary Cooper per poi sposare un uomo normale, carabiniere. È il film felliniano al cento per cento, sia per il contenuto che per la forma. Il passato viene ricordato non più come giustificazione dei complessi della vita adulta, ma per il piacere di raccontare e rivivere fatti ed eventi tragici e umoristici. Fellini spiega così il successo straordinario di questo film: “…quando uno parla delle cose della vita in maniera sincera, senza pretendere di voler ammonire nessuno, e senza sbandierare pesantemente filosofie, senza mandare messaggi, quando uno ne parla con umiltà e soprattutto con un senso proporzionato delle cose, credo che faccia sempre un discorso che tutti possono capire, tutti possono far proprio”. L’ultimo film porta la data del 1989, “La voce della luna”, interpretato da Roberto Benigni e Paolo Villaggio, ricavato dal Poema dei lunatici di Ermanno Cavazzoni. Ancora una volta l’ispirazione viene dal disordine e dalla irrazionalità che caratterizzano il tempo presente. Si dimostra meno tollerante verso la volgarità e la chiassosità della società, nella quale il sesso nei rapporti tra uomo e donna ha sostituito l’affetto fra uomo e donna e le sagre paesane sono diventate solo uno spreco di cibo. Non mancano considerazioni sulla vecchiaia e sulla morte tanto che per qualcuno è questo “il suo film più sconsolato”. Contro l’invadenza, la volgarità e la grossolanità della televisione bisogna difendersi con la fantasia e l’amore. Questi i messaggi che il film manda senza grandi speranze e impregnati di pessimismo. La possibile salvezza dell’individuo è nel “ricordo” perché ricordare conta più di vivere”. Fellini non amava la televisione. Nel 1968 realizza “Block notes di un regista”, uno speciale per un’emittente americana. Dopo qualche anno accetta la proposta della televisione italiana e francese e realizza “I clowns” e poi nel 1979 il film “Prova d’orchestra”. Ha anche realizzato uno spot pubblicitario del Bitter Campari che si risolveva in una metafora della TV ancora una volta vista come un misto di noia e di attrazione, di disattenzione e di angoscia. Più felice fu la carriera di autore radiofonico. Firmò, durante la guerra, una serie di “fantasie” dal Notturno ai Fuori programma, al Terziglio dove creò un racconto con protagonista una fanciulla analfabeta che spediva fogli bianchi al fidanzato lontano, poi le scenette di Cico e Pallina. In una di esse i due invitavano un mendicante a passare il Natale a casa loro, per poi essere costretti a vegliare il sonno “rumoroso” dell’estraneo. Nel ruolo di Pallina c’era Giulietta Masina. Altri suoi lavori radiofonici furono le riviste “Andiamo al luna park” e “Di notte le cose parlano” e “Scusate, è bello lo spettacolo ?”. A questo punto ci sembra giusto, prima di citare i temi ricorrenti nei suoi films, ricordare Giulietta Masina, moglie e interprete di tanti lavori del regista. Dopo averla vista protagonista de “La Strada” nelle vesti di clown, i giornali americani scrissero di lei che era il Chaplin femmina. Nata nel 1921, sogna di fare prima la cantante, poi la pianista per poi finire a teatro. Debutta al cinema con Lattuada e con Comencini. Non partecipa a “I Vitelloni”, ma con “La strada” ottiene un successo mondiale. A Hollywood, ricevuta con tutti gli onori, chiede un autografo a Clark Gable, il quale le risponde “veramente sono io che devo chiederlo a te”. Quando andò per ritirare l’ultimo Oscar, Federico lo dedicò a lei con un affettuoso rimprovero: “ti raccomando, non piangere”. Lavorò poco con altri registi. Per la televisione interpretò Eleonora in un lavoro di Tullio Pinelli e poi con Bolchi “Camilla”, tratto da un romanzo di Fausta Cialente. Con Franco Citti la serie di “Sogni e bisogni” e il film per la TV “La signora della neve”, in cui indossava i panni di una leggiadra fata dai tratti angelici. Per la radio tenne una rubrica di corrispondenza con gli ascoltatori: “La posta di Giulietta Masina”. La morte sopravvenne, causa un cancro, nel 1994, pochi mesi dopo il marito. Torniamo a Federico per esaminare i temi ricorrenti dei suoi lavori, ricordando il suo motto: “Non faccio un film per dibattere tesi o sostenere teorie. Faccio un film alla stessa maniera in cui vivo un sogno”. Infatti confessò: “Sono per il cinema-falsità, non per quello verità. La menzogna è sempre più interessante della verità. La menzogna è l’anima dello spettacolo e io amo lo spettacolo … Non è necessario che le cose che si mostrano siano autentiche. In generale è meglio che non lo siano. Ciò che deve essere autentica è l’emozione”. Fellini si definisce naturalmente religioso, perché il mondo, la vita, gli sembrano avvolti di mistero. In molti episodi e personaggi creati da sceneggiatore assegna alla religione una funzione positiva perché spinge a sopportare dolore e sofferenze, ma è vista anche come un’illusione. Lo svela quando Cabiria va al santuario per chiedere di cambiare vita e non ottiene nessun miracolo. Qui la fa apparire una superstizione, criticando nello stesso tempo il vizio di tanti italiani che chiedono miracoli, talvolta immeritati. Ad ingannare inoltre è la Chiesa, i cui rappresentanti hanno fatto vendite di indulgenze e usato spesso riti e avvenimenti come strumento di truffe. Una critica esplicita è poi rivolta verso l’atteggiamento della Chiesa verso la donna e il sesso, da cui deriva la sua idea dell’universo femminile. Al tempo della sua adolescenza la donna era considerata madre e moglie o donna e prostituta. Col passare degli anni il ruolo viene modificato e Fellini intuisce questi cambiamenti trasferendoli nei suoi films. Finisce col paragonarla a una pietra preziosa con tante facce tutte attraenti ma di difficile comprensione. I ricordi sono una costante nei suoi films così come gli episodi autobiografici. Ma il recupero del passato non è nostalgia, ma un volerlo confrontare con il presente con lo scopo di comprenderlo meglio. Estraneo rimase sempre alla politica. “Politica e sport mi lasciano completamente disinteressato, inerte, non partecipe”, ha dichiarato. Lo attribuisce questo atteggiamento alla educazione ricevuta durante il fascismo. Gli sembra una limitazione proporre di affrontare i problemi della vita in termini politici, perché questo rischia di cancellare, di nascondere e di alterare l’individuo e la sua storia privata. Il modo con cui vengono presentati i problemi della società, gli sembrano pensati per rendere ottusi, inerti, per isolare in un’esclusione irrimediabile. Resta comunque contrario a qualunque atto rivolto a limitare le libertà individuali. In un’intervista così esprime questa sua idea: “Ciò che mi sta a cuore è la libertà dell’uomo, la liberazione dell’individuo dalla ragnatela di convenzioni morali e sociali nelle quali crede, o meglio nelle quali pensa di credere e in realtà lo serrano, lo limitano e lo rendono ristretto, più piccolo, talvolta addirittura peggio di quello che è”. Un ultimo interesse, poco noto, di Fellini è la curiosità per il mondo magico e soprannaturale. Ne parla in varie interviste. “Io credo a tutto e non ci sono limiti alla mia capacità di meravigliarmi” e ha tendenza di “smarrirsi di fronte ad alcuni aspetti magici della realtà” e considera il cinema “un’arte particolarmente adatta a perforare la comune realtà e a evocarne un’altra, metafisica e ultrasensibile”. È citata una sua visita a un mago contadino sardo, zio Nardu, capace di trasformarsi in cavallo; è poi cliente fisso di una guaritrice marchigiana: Pasqualina Pezzola. Ma il suo preferito è Gustavo Adolfo Rol, esperto di storia napoleonica e laureato in legge. Di lui si dice che legge nei libri chiusi, trasferisce gli oggetti da una stanza all’altra senza toccarli e percepisce discorsi che si svolgono a centinaia di chilometri. Fellini – per dirla come Marcello Veneziani – non rendeva verosimile una storia immaginaria ma rendeva inverosimile la realtà tramite il prisma della fantasia. Nell’agosto 1993 viene colpito da ictus ischemico, a ottobre, il 17, entra in coma irreversibile dopo essere stato a colazione con Giulietta e il 31 muore al Policlinico Umberto I di Roma. Abbiamo iniziato con Georges Simenon, concludiamo con Milan Kundera: “Fellini, uno dei pochi che hanno fatto del cinema una parte dell’arte moderna; il solo la cui immensa opera può essere messa sullo stesso piano di quella di Picasso e di Stravinski … I film di Fellini sono il punto più alto dell’arte moderna”.
31 gennaio 2020