Nella consultazione del portale del Circolo Culturale L'Agorà vi quello dedicato al tema del GIALLO, nella cui pagina di riferimento (http://www.circoloculturalelagora.it/Giallo.htm) vengono elencati in ordine di tema e cronologico vari aspetti su tale letteratura. Il tema conduttore della stessa è quello relativo alla narrazione di un misfatto e delle persone coinvolte in esso. Storie fantastiche, a volte anche ricavate da eventi reali, che hanno radici nella narrativa popolare, a far data dal XIX secolo, per poi sfociare nel delta del mondo cinematografico,radiofonico,televisivo ed anche dei fumetti. Come si diceva in apertura, tali vicende vengono anche ricavate da storie legali,quindi, tali aspetti letterari si materializzano nella sfera della cronaca nera, quindi sul luogo del delitto reale. Dopo la parte introduttiva di Gianni Aiello, la parola passa ad Antonino Megali che va ad analizzare questi tre casi al femminile. Tre storie facenti parte di violenti e sanguinari delitti che sconvolsero l'opinione pubblica della Penisola italiana tra l'inizio e la fine del secondo dopoguerra. La parola è passata al relatore dell'incontro, Antonino Megali (socio del sodalizio culturale organizzatore) che nel corso della sua dettagliata analisi ha evidenziato che il crimine, da sempre, esercita un effetto opposto: da un lato indigna, dall'altro attrae ed appassiona. Nel periodo in cui ancora non imperversava la televisione erano i giornali a raccontare origini, modi di un delitto e poi il processo che ne derivava. E a farlo erano i migliori giornalisti; a raccontare i particolari e a descrivere la psicologia degli assassini: ricordiamo Tommaso Besozzi, Camilla Cederna, Giorgio Bocca, Vitaliano Brancati, Alberto Moravia e infine il più grande di tutti, Dino Buzzati. I crimini che ricordiamo stasera sono dovuti a moventi, diciamo così, tradizionali: la follia, la gelosia, la disperazione, la rabbia. Milano 29 novembre 1946. Al numero 40 di via San Gregorio, Caterina Fort, commessa di pasticceria, friulana, approfitta dell’assenza dell’amante, il siciliano Giuseppe Ricciardi, e massacra a colpi di spranga la moglie Franca Pappalardo, i figli Giovanni, sette anni; Giuseppina, cinque; Antonio di soli dieci mesi trovato seduto sul seggiolone. Dopo le sprangate sono soffocati con batuffoli di cotone imbevuti di ammoniaca. Subito arrestata dopo poche ore confessa i delitti. Il movente è di essersi voluta vendicare per l’abbandono dell’amante. Durante gli interrogatori, la Fort fornisce sette versioni differenti del delitto. Dall’inizio viene sospettata anche la presenza di qualche complice, ma per l’accusa ha agito da sola e ha ucciso con le sue mani le moglie dell’amante Giuseppe Ricciardi e i suoi tre figli. La Pappalardo sapeva bene dell’esistenza dell’amante del marito, ma si era rassegnata. Rina Fort invece l’odiava. Dopo il delitto era tornata a casa, cenato e aveva poi dormito fino alle sei del mattino. Si reca poi al lavoro, dove fu arrestata. Nel suo racconto comparve la figura di un complice: un tal Carmelo Zappulla. Restò in carcere venti mesi per poi essere riconosciuto innocente e morire pochi mesi dopo uscito dal carcere. “La belva in gabbia” è il titolo con il quale Dino Buzzati descrive l’inizio del processo in un articolo per il Corriere della Sera. Vale la pena riportarne l’inizio: «Dalla portina, alle 9:30, una donna entra nella gabbia. Ha un paltò nero, un poco infagottato. Una sciarpa di lana giallo chiaro, gettata sulla spalla. Le copre mezza faccia. Tiene la testa china e si nasconde gli occhi con le mani, nere anch’esse per i guanti di filo. Pure i capelli spartiti lateralmente con cura e raccolti sulla nuca, sono neri. Sembra una di quelle penitenti che si vedono inginocchiate nell’angolo più buio della chiesa, alle cinque del mattino,. Invece è Rina Fort, la “belva”». In altri articoli dedicati al processo Buzzati mette in rilievo la sua assoluta indifferenza: “Mai che pianga, o finga di piangere, o supplichi, o protesti o implori di essere creduta, o si agiti o gesticoli. La sua sordità sentimentale è veramente un fenomeno mostruoso. Si direbbe che stia rischiando tre mesi di carcere invece che l’ergastolo”. E all’ergastolo, nel gennaio 1950, viene condannata Rina Fort, sentenza poi confermata in Appello e Cassazione. Nel febbraio del 1975 uscirà di prigione e si trasferirà a Firenze sotto il nome di Caterina Benedet. A qualche giornalista che cercava di intervistarla, dirà: “Voglio morire dimenticata da tutti”. Morirà nel marzo del 1988. L’amante Giuseppe Ricciardi morirà in Sicilia nel 1974, a sessantatré anni, dopo essersi risposato. Benedet era il nome dell’uomo che aveva sposato a ventidue anni. Ma il giorno stesso delle nozze lo sposo diede segni di follia: versò la bottiglia d’aceto sulla torta e nella notte legò la moglie al letto perché non si ribellasse. Certamente non avrà avuto un’infanzia felice. A tre anni le morì la nonna da lei adorata. A dieci vide il padre sfracellarsi su un sentiero di montagna. La sua casa era stata distrutta da un incendio. Passiamo – prosegue il relatore - ora al delitto Bellentani. Cernobbio, Como, 15 settembre 1948. Siamo nel salone delle feste del Grand Hotel Villa d’Este dove si presentava la collezione di moda autunno-inverno 1948-1949 della stilista milanese Biki. Erano presenti pertanto molte giornaliste di moda. Una, Elsa Haertter, poté fare per “Epoca” la cronaca del delitto invece della descrizione degli abiti. Maria Pia Caroselli di Sulmona sposata Bellentani, trentadue anni, proprietaria con il marito Lamberto Bellentani, di una fabbrica di insaccati, spara e uccide l’ex amante Carlo Sacchi, quarantacinquenne industriale tessile. Poi rivolge l’arma contro se stessa e spara nuovamente. Ma la pistola si inceppa e viene disarmata mentre la donna grida: “Non spara più! Non spara più!” e l’industriale Leopoldo Surr le tolse di mano la pistola e un altro la schiaffeggia. La sarta Biki a questo punto sviene. Nella sala vicina l’orchestra continua a suonare e un uomo cantava la canzone “La semaine”, ed era arrivato all’ultima frase: “Et la dimanche, je te vois”. Pia Caroselli era nata nel 1916 a Sulmona, in Abruzzo. Era l’ultima di sei figli di Romeo Caroselli, costruttore edile, e di Nazarena Jannamorelli, contadina e operaia. Tre figli morirono in giovane età, mentre Pia crescerà taciturna, orgogliosa e incapace di sopportare la contrarietà. Era stata educata in una scuola di suore e ogni tanto le veniva il desiderio di entrare in convento, e qualche volta tentò il suicidio. I genitori la costrinsero a interrompere una relazione che aveva iniziato con un avvocato di Sulmona. Scriveva poesie e amava passare il tempo leggendo romanzi. A ventidue anni durante una vacanza a Cortina incontrò il conte Lamberto Bellentani, il quale s’innamorò subito di Pia. I genitori acconsentirono nonostante la differenza di età – il conte era quarantenne – e il matrimonio ebbe luogo il 15 luglio 1938. La cerimonia fu sfarzosa e da Sulmona arrivarono 15 chili di grossi confetti rosa (specialità del luogo) da regalare ai contadini. Il gesto fu giudicato piuttosto buffo e giudicato con sufficienza. Per un paio d’anni i coniugi vissero viaggiando e frequentando ambienti alla moda. Popi dopo la nascita delle due figlie, Pia ormai annoiata, si chiuse in casa per badare a loro. Nel 1940 nel corso di una festa in un Hotel di Venezia, Pia conobbe Carlo Sacchi. Non era un uomo raffinato, ma dotato di forte personalità. A tredici anni aveva lasciato la scuola per andare a lavorare in Germania. Tornato poi in Italia era divenuto ricco con l’industria della seta. Era sposato con un’ex ballerina viennese dalla quale aveva avuto tre figlie. Il loro primo incontro non lasciò traccia in nessuno dei due. Poi Sacchi perse una figlia e cadde in preda allo sconforto. Pia, che intanto era diventata amica della sorella di Carlo, cercò di aiutarlo per farlo uscire dalla depressione. Si scambiavano i versi scritti da loro: romantici quelli di Pia, scritti in vernacolo e anche osceni quelli di lui. Presto spuntò l’amore fra i due, più in lei che trovava in lui le attenzioni che il marito le aveva negato. Gli scriveva lettere d’amore: “Tu hai suscitato in me sensazioni mai conosciute, hai svegliato in me impressioni nuove; hai sconvolto insieme il mio cuore e i miei sensi; mi hai fatto conoscere veramente ciò che si chiama amore”. In realtà dopo breve tempo l’uomo non la sopportava più e aveva trovato un’amante fissa, una certa Sandra Guidi, detta Mimì. Pia non sopportava che la prescelta fosse più grande di lei di dieci anni e meno bella. Disperata un giorno si gettò con una motoretta sotto l’automobile dell’amante. Per caso non morì, e l’uomo sceso dalla macchina, la insultò poiché l’auto sportiva aveva subito qualche ammaccatura. Da quel momento incominciò a metterla in ridicolo chiamandola “terrona” e dicendole di essere solo una stupida romantica. Infine la famosa sera del 15 settembre il delitto nel Grand Hotel di Villa d’Este. Presa la pistola del marito raggiunse Carlo Sacchi e gli disse – come da lei raccontato: “Questa volta è veramente finita” “Che cosa intendi dire?” mi chiese – “Intendo dire che ti posso anche uccidere”. Rispose sorridendo: “I soliti romanzi a fumetti”. E poi: “ I soliti terroni spacconi”. A quel punto partì il colpo. Subito dopo l’arresto la contessa, su consiglio del marito, disse che il colpo era partito per disgrazia e puntando la rivoltella contro l’ex amante aveva voluto soltanto scherzare. Poi, interrogata con una certa fermezza, confessò tutto. Nel 1949, dopo qualche mese di carcere, fu messa in osservazione al manicomio di Aversa. Verrà dichiarata semi-inferma di mente. Dino Buzzati ironizza sul numero di perizie che occupano decine e decine di fascicoli, tra i quali spiccano i sette di 626 pagine, senza contare il sommario e gli allegati. Se invece della Bellentani – si domanda lo scrittore – fosse stata una povera diavola qualunque, una donnaccia dei bassifondi o una montanara analfabeta, i due periti avrebbero ugualmente impiegato sedici mesi di lavoro e scritto 626 pagine ? Tutto viene sviscerato dai periti. Di che famiglia è l’imputata, chi erano i genitori, i nonni, bisavoli, i prozii, i parenti, la sua infanzia, la stentata crescita, le prime malattie, gli studi, i capricci, gli umori, gli estri, la vita di collegio, le malinconie, i tentativi giovanili di suicidio, e via via ogni minimo fatto della vita fino alla famigerata notte. Eppure, sostiene Buzzati, basterebbe leggere certe poesie della Bellentani per capire molto della tragedia. Una è per Sacchi: “Tu sei la vita – Tu sei ogni mio pensiero – Tu sei il sorriso – Di questo mio triste cuor. Io vorrei tanto – Viver con te – Sognar insieme – Stringermi a te”. Ce n’è una dedicata al marito: “ Io voglio che la vita ognor t’eviti – I dolori, e gioia solamente – E pace e felicità ti dia – Per sempre ed unito alla tua Pia”. Nell’arringa del difensore Angelo Luzzani nel processo del 1952 così descrive la sua assistita ai giurati: “La piccola provinciale di Sulmona, onestamente educata, col temperamento di meridionale, sognatrice e dedita all’introspezione per scorgervi i segreti dell’anima, non era fatta per vivere in tanta spregiudicatezza. Sacchi aveva certamente il diritto di troncare la sua relazione con l’imputata. Nulla d’ingiusto vi era nella sua decisione di mettere fine alla tresca. Ingiusto per il modo, poiché egli offese la dignità della donna che per lui aveva peccato. Nei suoi confronti, Pia Caroselli era soltanto la donna cui doveva rispetto. Invece la derise e la oltraggiò”. E in conclusione: “Tutto è in questa vicenda crepuscolare, tutto ondeggia tra la follia e ragione, tra assurda volontà di redenzione da una parte, e assurda provocazione dall’altra, tra previsione normale e fatalità smisurata. Per questa donna sventurata anche i medici hanno parlato di crepuscolo: naturalmente crepuscolo di una notte senza fine. Ma io, in tanta tragedia, oso sperare, attraverso la vostra sentenza, non nel crepuscolo che annuncia una notte fonda, ma in quello del mattino che anticipa il sorgere del sole: perché sono il crepuscolo della sera e il crepuscolo del mattino. Il sole c’è sempre anche quando non si vede! […] Sulla casa di Aversa è scritto: “Finché tutto non è perduto, nulla è perduto”. La vostra sentenza, per questa donna che ha peccato, ma che ha smisuratamente sofferto, sia, non il crepuscolo di una notte senza fine, ma la possibilità del crepuscolo del mattino !”. Pia Bellentani fu condannata a dieci anni di reclusione, di cui tre condonati e a tre in una casa di cura. In appello fu ridotta a 7 anni e 10 mesi. Il 23 dicembre 1955 Pia Bellentani fu graziata dal presidente della Repubblica. Il marito s’era intanto trasferito a Montecarlo e muore poco tempo dopo la sua scarcerazione. Pia muore nel 1980. Leonarda Cianciulli era nata in provincia di Avellino, frutto di una violenza subita dalla madre. Il padre morì quando era piccola e la madre si risposò. Fu isolata dagli altri figli avuti dalla madre e trascorreva le giornate inventando recite con lei sola protagonista e colloquiando con amici immaginari. Soffriva di epilessia e preda di notte di incubi terribili. Tentò il suicidio impiccandosi, ma si ruppe la corda, né le riuscì quando per morire ingoiò pezzi di vetro. Sposò, dopo diverse relazioni, un impiegato dell’Ufficio del registro, Raffaele Pansarsdi. La madre voleva invece che sposasse un cugino e la maledisse il giorno del suo matrimonio. Morì poco dopo ma continuò ad apparire in sogno alla figlia sempre maledicendola e predicendole che tutti i suoi figli sarebbero morti prima di lei. Ebbe diciassette gravidanze, tredici morirono tra aborti o nei primi mesi di vita. Gli ultimi quattro figli superarono i primi anni senza particolari problemi. La Cianciulli era convinta che tutto dipendesse dlla madre. Ogni volta che le appariva in sogno perdeva un figlio. Cominciò a frequentare maghe e fattucchiere per cercare di imparare soluzioni per liberarsi dalla maledizione materna. Nel 1930 il terremoto dell’Irpinia le distrusse la casa e perse tutto. La famiglia andò a Correggio vicino a Reggio Emilia. Qui, come terremotata, venne aiutata da quelli del luogo e poi le arrivarono altri soldi per risarcire i danni causati dal terremoto. Il marito l’aveva abbandonata e lei iniziò un commercio di abiti usati e mettendo a frutto i suoi studi sulla stregoneria, magia e spiritismo leggeva le carte alle clienti o s’inventava delle fatture arrotondando così le sue entrate. Il figlio maggiore era iscritto alla facoltà di Lettere all’Università di Milano; faceva anche l’istitutore al Colleggio nazionale di Correggio; il secondo e il terzo studiavano al ginnasio; l’ultima frequentava l’asilo dalle suore. Scoppiata la guerra in Europa temette per la sorte del figlio, poiché chiamato alle armi avrebbe rischiato la morte. Bisognava impedirlo. E una notte è vittima di un altro sogno: questa volta è la Madonna con un bambino nero in braccio, le predice che per salvare il figlio, avrebbe dovuto sacrificare delle persone. La Cianciulli aveva stretto rapporti di amicizia con altre donne di Correggio: Ermelinda Faustina Setti detta Rabitti, Clementina Soavi e Virginia Cacioppo. La prima scelta fu la Setti che, pur ultrasettantenne, sperava di trovare un uomo con cui vivere, dato che viveva da sola avendo perso qualche anno prima la figlia illegittima avuta in gioventù. Leonarda le promise di farle conoscere un probabile futuro marito e le disse che avrebbe dovuto vendere la casa, mobili, e il pezzetto di terra. La donna fece tutto quanto richiesto poi andò dal parrucchiere e si fece fare i capelli biondi, si truccò e indossò un vestito nuovo. Il 18 dicembre 1935 pronta per la partenza, andò a salutare Leonarda. Lei le consigliò di scrivere una lettera di saluto alle amiche. Dopo la compilazione dello scritto, mentre rileggeva ad alta voce il testo, la Cianciulli si allontanò per qualche secondo e tornò con una scure e con un colpo le spaccò la testa. Portò poi il corpo nel ripostiglio e munita d scure, coltelli e sega, tagliò il corpo in nove pezzi. I più grossi finirono nel pentolone insieme alla soda caustica. Ne ricavò una miscela che scaricò in un pozzo nero. Lasciò poi coagulare il sangue, lo seccò col calore e lo mescolò con farina, zucchero, cioccolato, latte e margarina. I pasticcini ricavati li offrì alle amiche. Dopo qualche giorno mise in vendita tutto quanto era appartenuto alla vittima, dopo averne sottratto le trentamila lire che aveva nella borsa. Le seconda vttima fu Francesca Soavi, di cinquantacinque anni che si occupava di vendere abiti usati e gestiva un asilo privato con una dozzina di bambini. A lei Leonarda promise un posto da insegnante in un collegio piacentino. La donna decise di partire subito facendo una procura a Leonarda per vendere tutto quanto le apparteneva. Quando il 5 settembre 1940 la Soavi andò a salutare Leonarda, subì la stessa sorte della precedente. Le fu tagliata la testa con un colpo di scure, il sangue finì nei pasticcini, il corpo a pezzi nel pentolone. L’ultima fu Virginia Cacioppo, una cinquantanovenne che viveva da sola, ed essendo stata una cantante lirica di un certo successo, aveva la fama di essere benestante. Anche a lei fu promesso un posto come segretaria presso il direttore di un teatro a Firenze. Il suo grasso fu usato questa volta per preparare saponette e candele date poi in regalo alle amiche e alle vicine. La vittima però questa volta non aveva mantenuto il silenzio che Leonarda imponeva a tutte come condizione necessaria per essere aiutate. Aveva informato la cognata sui programmi futuri, per cui la stessa, non ricevendo più notizie, andò a Correggio per denunciare la scomparsa della cognata. Da principio non fu presa sul serio e dopo qualche indagine ufficialmente i carabinieri conclusero che non c’era nulla di vero nelle voci che pur insistentemente circolavano sulla scomparsa delle tre donne. Ma la cognata di Virginia Cacioppo, Signora Ponti, non si arrese. Mandò confidenti in casa Cianciulli, interrogò centinaia di persone nelle città e campagne vicine. Venne a sapere che Leonarda aveva venduto tutto, vestiti, scarpe e l’unico cappotto posseduto dalla cognata. Come era pertanto andata a Firenze? Il questore di Reggio Emilia riprese le indagini e si arrivò quindi all’arresto della Cianciulli. Il processo iniziò a Reggio Emilia nel giugno del 1946. Si pose subito il problema: la Cianciulli, come sosteneva il procuratore generale, aveva ucciso per rubare? O, come sosteneva la difesa, era un’ammalata mentale e pensava veramente di salvare il figlio, uccidendo tre donne? Qualcuno sollevò il problema della complicità del figlio. Secondo il medico legale era escluso che l’assassina avesse fatto tutto da sola. Ma l’imputata sfidò il medico: “Mi ascolti bene, professore. Metta a mia disposizione un cadavere e gli strumenti che mi avete sequestrato e vi dimostrerò che posso farlo in un quarto d’ora”. Per scagionare il figlio descrisse il modo con cui procedeva alla operazione di taglio dei cadaveri e di saponificazione: “Dopo aver fatto a pezzi il cadavere, mettevo la caldaia sul fuoco la sera alle ore 19 e per tutta la notte la lasciavo andare, fino alle 4 del mattino. Il calderone conteneva cinque chili di soda caustica in ebollizione. I pezzi non adatti alla saponificazione, deposti in un bidone a parte, li versavo un po’ nel gabinetto e un po’ nel canale che scorre vicino a casa mia. Finita l’operazione, mi accorsi che nel sapone c’erano dei pezzi più duri. Erano delle ossa che non ero riuscita a saponificare, ma che erano divenute fragilissime, tanto che si dissolvevano a toccarle. Il sangue di solito lo riunivo a marmellata con cioccolato, aromi di anice e vaniglia, oppure garofano e cannella. Qualche volta in queste torte che offrivo alle mie visitatrici, ci mettevo anche un pizzico della polvere ricavata dalle ossa della morta”. Del resto la protezione del figlio fu palese sin dalle prime dichiarazioni fatte al processo. Quando si è alzata dal banco degli accusati e, appoggiandosi con le mani alla sbarra, a pronunciato con voce ferma queste parole: “So di essere una grande colpevole di fronte agli uomini. Mi guardo queste mani e me le vorrei tagliare; mi vorrei strappare gli occhi per non vedere più; ma solo io e Iddio sappiamo perché ho ucciso. Se mi volete condannare, se mi volete passare nel tritacarne, passatemi; se mi volete torturare, torturatemi; se volete cospargermi di benzina e darmi fuoco, bruciatemi. A me non importa nulla. Avrei voluto essere morta prima, e se ho resistito cinque anni in carcere è soltanto per ripetere oggi che mio figlio è innocente. Mio figlio non ha fatto nulla, non ha mai sospettato di nulla”. Dall’ottobre 1941 la Cianciulli era stata trasferita nella sezione criminale di Aversa per essere analizzata dal famoso Filippo Saporito che aveva all’attivo le perizie sul bandito Giuseppe Musolino, e poi sulla contessa Pia Bellentani e Rina Fort. Era stato anche nel 1933 nel carcere di Turi in qualità di ispettore generale del Ministero di Grazia e Giustizia per verificare lo stato fisico e mentale di Antonio Gramsci. In manicomio Leonarda ebbe l’opportunità di scrivere un memoriale a cui diede il titolo “Quaderno di un’anima amareggiata. Criminale o ammalata? Quale?”. Ne scaturisce una narrazione “esuberantemente analitica”, un racconto racchiuso in 25 quaderni che si trasformarono – probabilmente con l’aiuto del personale del manicomio – in 742 fogli dattiloscritti. Seguendo “un’impostazione cronologica a lungo metraggio” la donna narra tutta la sua vita. L’inizio del memoriale è bucolico: “Aprile il mese del dolce nome, pieno di trilli di uccelli, di fremiti, di foglie e di risatine di fanciulli, rifulgeva nel cielo sereno. Tutta fresca […], straripante di linfa e di mille nuovi profumi dei fiori da poco dischiusi, la bella campagna irpina si sveglia dopo l’inverno”. Sono presenti metafore bibliche e riferimenti alla tragedia greca. Nella certezza di poter perdere i figli, Leonarda incomincia a: “ripassare tutti i libri di storia, dove si parlava di guerra e di guerrieri; ma quella che faceva al caso mio era la guerra di Troia; erano i figli di Virgilio e di Omero, l’Iliade, l’Eneide, l’Odissea. Ma anche un po’ la Bibbia. Quest’ultima l’avevo letta nell’adolescenza, ma ricordo bene che l’Eterno Creatore aveva voluto che il figlio di Dio innocente (si sacrificasse) per riscattare il figlio del Mondo dal peccato di Adamo e Eva e versare il Sangue Suo purissimo e morire in Croce”. C’è anche una identificazione con la letteratura “gialla”. Trova infatti nel romanzo americano “Il mistero della 5a strada” la storia di uno scienziato che uccide i suoi simili e riesce a rivestire la loro anima con un nuovo corpo. Nel libro c’era spiegato bene – dice la Cianciulli – come si doveva fare. Salvo poi quando lo psichiatra le domandò chi o cosa le avesse “guastato la testa” Leonarda ribatté senza esitazione “No, signor Direttore, non sono stati i romanzi gialli ad insegnarmi ma sono stati i libri classici, Omero, Virgilio, la guerra di Troia ed anche la Bibbia, e per meglio dire il Nuovo Testamento”.Dopo un’osservazione che durò anni lo psichiatra presentando una perizia di ben 207 pagine dattiloscritte, fissò tre punti fermi. 1) Cianciulli Leonarda, nel momento in cui commise i fatti, che le sono addebitati, era affetta da psicosi isterica, con larga sintomatologia, stabile ed accessuale, appoggiata a gravi anomalie costituzionali degenerative cenestopatiche e sboccate in deliri con contenuto improntato al nucleo della maternità e sorretti da gravi disturbi onirici e sensoriali. 2) La malattia era tale da togliere alla Cianciulli la capacità d’intendere e di volere. 3) La Cianciulli è soggetto socialmente pericoloso. L’avvocato difensore fece proprio il risultato della perizia e temendo una condanna pesante, chiese un ricovero di tre anni in manicomio. L’avvocato del figlio invoca l’assoluzione per mancanza di prove, concludendo, rivolgendosi all’imputato: “Cerca di dimenticare la mamma. La famiglia è nelle tue mani”. Queste parole scatenarono “l’ilarità della folla” oltre alle invettive della madre che i giornali non ritennero il caso di riferire. Dopo due ore di camera di consiglio, arrivò la sentenza. Lei venne riconosciuta seminferma di mente e condannata a trent’anni di reclusione e a tre anni di manicomio, lui assolto per insufficienza di prove. La donna con le braccia alzate grida”Chiedo perdono a Dio, a Correggio, a Reggio, anche ai parenti delle vittime. Ringrazio Dio della giustizia fatta”. Nel 1960 presentò l’istanza di revisione del processo, ma fu rigettata. Leonarda Cianciulli scontò ventiquattro anni di carcere, prima ad Aversa, poi nel manicomio di Pozzuoli. Durante la reclusione aiutò tutte le compagne e ascoltò i problemi di tutte. Ripeteva spesso alle compagne: “Le carte mi dicono che sarò libera nel 1970”. Morì proprio nel 1970 a 78 anni per apoplessia cerebrale. Per uscire un po’ dal clima di horror della vicenda, ricordiamo quanto scrisse il “Corriere Lombardo” quando diede alla Cianciulli quel che era della Cianciulli: “Sembrerà strano, ma adesso le cose di cui si parla [nel processo] … sono le torte, le ciambelle, i biscotti, la crema della signora Cianciulli […] che lei ha distribuito per tutto il paese e che furono apprezzate anche da Farinacci che di passaggio a Correggio ne assaggiò una donatagli da un conoscente e che meritò il plauso alla cuoca”. Un’altra curiosità. Il cinema italiano, con Mauro Bolognini ricavò dalla vicenda un film: “Gran bollito”. Nelle parti di Lea Shelley Winters, e con tre attori travestiti da zitelle destinate alla pentola. Gli attori erano Alberto Lionello, Renato Pozzetto, Max Von Sydow. Il film però fu accolto freddamente dagli spettatori.