C
ontinua il percorso, a cura del Circolo Culturale “L'Agorà” , sul tema "I giorni della civetta", filo conduttore di una serie di incontri che ha per protagonisti diverse figure che si sono battute per il trionfo della legalità. Il nuovo appuntamento, ha riguardato la figura del noto uomo di legge e difensore della legalità Joè Petrosino, è stato ospitato presso la prestigiosa sede del Convitto Nazionale “Tommaso Campanella” di Reggio Calabria.
La conversazione culturale è stata un momento di riflessione su quell'uomo “giusto che valeva la pena di conoscere”, così come ebbe a dire ai suoi funerali Theodore Roosvelt che in quel triste momento manifestò il suo dolore per la perdita dell'amico Joe.
“Big Joe”, così come affettuosamente erano conosciuto negli ambiti lavorativi della NYPD, dove, dopo un lungo periodo di gavetta, ebbe arruolarsi il 19 ottobre del 1883 nel corpo della polizia newyorkese e contraddistinto con il numero di ruolo 285. Alto senso di avvedutezza, e abile nel travestirsi, rapido nell'azione: queste alcune delle caratteristiche del detective italo-americano che fu autore di memorabili imprese indirizzate all'arresto di numerosi malavitosi gravitanti nell'orbita della Mano Nera, organizzazione criminale antesignana della Mafia, comprendendo anche la necessità della presenza indispensabile di agenti italiani per tali indagini complesse e da questo la creazione della Italian Legion.
A trent’anni, promosso detective, passò al servizio investigativo; nel 1895 è il Presidente Roosvelt in persona a nominarlo Sergente e nel 1905, con la promozione a Tenente, gli viene affidato il comando dell’Italian Legion.
Joè Petrosino ben presto comprese il filo che scorreva lungo l'asse New York – Palermo e per tali motivazioni giunse nell'isola a seguito di una operazione che dove essere top-secret ma che ben presto non assunse tali connotati a seguito di alcuni articoli apparsi sia sul New York Herald che, successivamente su alcune testate giornalistiche italiane.
Erano le 20,45 di venerdì 12 marzo 1909, quando nei pressi di piazza Marina a Palermo viene raggiunto da quattro pallottole: una al collo, due alle spalle e un quarto mortale alla testa decretavano la morte di Giuseppe Petrosino nato a Padula (Salerno) il 30 agosto del 1860.
Il console statunitense a Palermo nel suo telegramma indirizzato alle autorità governative ebbe ad informarLe con la seguente nota: “
Petrosino ucciso a revolverate nel centro della città questa sera. Gli assassini sconosciuti. Muore un martire”.
Dopo i funerali tenutosi a Palermo, un secondo funerale si svolse a New York al quale furono presenti circa 250.000 persone, il numero dei partecipanti, secondo le statistiche fu inferiore solo a quello del presidente della Casa Bianca
Abraham Lincoln (15 aprile 1865).
Queste alcune delle cifre che hanno fatto parte della conversazione culturale, svoltasi presso la prestigiosa sede istituzionale del Convitto Nazionale “Tommaso Campanella” di Reggio Calabria, alquanto partecipata sia dal corpo docenti che quello dei discenti del noto istituto culturale della Città dello Stretto.
Ad introdurre i lavori è stata la vicepreside del Convitto, Marisa Bartolomeo che ha espresso parole di elogio per l'iniziativa, poi è stata la volta di Giovanni Aiello, presidente del sodalizio organizzatore che ha fatto visionare ai presenti alcuni documenti che testimoniano la presenza della Mano Nera a Reggio Calabria.
È stata la volta del graditissimo ospite Giovanni Melito che ha presentato il volume “Joe Petrosino l’incorruttibile”, a cura dello stesso pronipote del noto investigatore italo-americano che nel corso della conversazione culturale ha presentato la pubblicazione dal titolo “Joe Petrosino l'incorruttibile”.
“Non avevo mai pensato di scrivere qualcosa su zio Joe, - esordisce così l'illustre ospite del Circolo Culturale “L'Agorà” - soprattutto perché tanti, prima e meglio di me, lo avevano fatto. Nell’ultimo ventennio, però, ho ricevuto tante sollecitazioni a tal riguardo specialmente da varie personalità e gente comune che venivano a far visita alla Casa-Museo e da questo stato di cose è nato questo libro. Esso vuol rappresentare una “testimonianza”, basata sui racconti che, nelle sere d’inverno, vicino al camino, mio nonno Michele faceva di suo fratello Giuseppe”.
Il “Grande Joe” – come veniva definito negli States – era nato a Padula, in provincia di Salerno, il 30 agosto 1860 e nel 1873 il viaggio verso gli Stati Uniti e con esso il cammino della speranza di quella grande onda migratoria a cavallo tra la fine dell'800 ed il periodo del nuovo secolo.
Giovani Melito evidenzia nel suo racconto che i propri antenati erano benestanti, il nonno Prospero era sarto ma le esigenze di pensare al futuro dei figli lo indussero a quel viaggio anche in conseguenza di una lettera giunta da un amico di famiglia, Pietro Jorio di Avellino che raccontava di quanto avveniva nel nuovo Continente: “Carissimo Giuseppe, vengo con questa mia a farti sapere che io sono felicemente arrivato quaggiù, che lavoro molto e guadagno due pezze al giorno.
Nel lavoro ove sono potresti venire anche tu, i Bossi sono contenti di avere operai italiani. Ti aspetto dunque presto. Tuo affezionato Pietro.”
Si arriva ad Ellis Island, il maggiore punto di approdo di tutti gli immigranti che giungevano negli USA e da quel punto di raccolta, caratterizzato da lunghi giorni di attesa prima di essere sottoposti ad accurati controlli medici e burocratici che, in caso favorevole ne permettevano di ricevere quel visto con il quale si otteneva la cittadinanza statunitense e con la quale si aveva la possibilità di realizzare il mitico sogno americano.
Il padre di Joe riprese a lavorare come sarto, mestiere che gli aveva dato sempre da vivere; mentre il piccolo Joe, grazie alle sue conoscenze scolastiche – aveva frequentato la sesta elementare e sapeva suonare il violino – imparò subito l’inglese e svolse diversi lavori per dare il suo contributo economico alla famiglia Petrosino.
Dalle attività più umili, a quella di lustrascarpe,strillone di giornali ed alla successa apertura di un chiosco per la loro vendita, a quello di informatore della polizia: in quel periodo dilagava l'organizzazione criminale della Mano Nera composta da italo-americano (la maggior parte provenivano dal Mezzogiorno d'Italia e per non farsi comprendere dagli agenti parlavano il dialetto) e queste situazioni furono favorevoli a Joe Petrosino che oltre a parlare la lingua inglese, comprendeva l'uso dei dialetti meridionali.
Nel 1903 risolse il caso forse più importante della sua carriera, il “delitto del barile”, così chiamato per il fatto che il cadavere di Benedetto Madonia (un malavitoso membro di una banda di falsari) venne ritrovato dentro un barile fatto a pezzi il 14 aprile.
Il supporto che Joe Petrosino (matricola 285) riuscì a fornire alla NYPD fu di fondamentale importanza ed utilità visto che molti disegni criminosi nei confronti di diverse personalità della grande mela furono sventati, tra i quali quelle inerenti al Capo della Polizia durante una cerimonia a Broadway, del tenore Enrico Caruso (durante una tournée a New York, fu ricattato sotto minaccia di morte) e tali risultati ottenuti sul campo vennero conorati da diverse attestazioni di merito, tra le quali quelle di un alto funzionario della polizia newyorkese Theodore Roosevelt che nel 1895 lo promosse a sergente, poi detective e infine tenente.
L’apice della carriera arrivò quando istituì la struttura denominata
Italian Branch, un gruppo di poliziotti italiani che aveva il compito di contrastare fortemente le azioni deliquenziali della Mano Nera, ma anche di creare la prima squadra di artificieri denominata
Bomb Squad.
Joe Petrosino aveva ben compreso che per sgominare tale organizzazione criminale bisognava operare direttamente in Sicilia: doveva essere una missione segreta ma qualcosa non andò in quella direzione visto che alcune dichiarazioni di
Theodore Alfred Bingham, Commissario del New York City Police Department (NYPD), vennero pubblicate sul quotidiano
New York Herald.
Nonostante la fuga di quelle notizie di carattere stettamente riservate il super poliziotto volle continuare per portare a termine tale operazione in terra sicula, ma la sua condanna a morte era stata sentenziata da
Vito Cascio Ferro che commissionò a due killer professionisti.
C'è da evidenziare che i contatti tra lo Stato italiano e la malavita organizzata fungevano attraverso la figura dell'onorevole
Raffaele Palizzolo, che nel 1901 subì una condanna a trent'anni di reclusione che gli venne inflitta per l'assassinio di
Emanuele Notarbartolo, sindaco di Palermo e direttore generale del Banco di Sicilia, ucciso da alcuni sicari, sul treno Palemo-Messina, con ventisette coltellate.
Ma tale condanna gli venne condonata dalla Corte d’Assise.
Nel breve di periodo di soggiorno palermitano Joe Petrosino, attraverso accurate indagini riesce a trovare preziose informazioni sui legami tra la mafia italo-americana e quella siciliana, anche se tali „contatti” vennero insabbiati.
Joe Petrosino
viene ucciso alle 20.45 di un venerdì del 12 marzo 1909 da due sicari in piazza Marina da quattro colpi di revolverate: uno lo raggiunse al collo, due alle spalle, l’ultimo alla testa, i mandatari, secondo l’inchiesta, erano Paolo Palazzotto e Vito Cascio Ferro.
Quello di Joe Petrosino fu il secondo delitto eccellente che avvenne in Sicilia e tali accadimenti criminali erano collegati tra di loro e scorrevano in parallelo lungo il binario Palermo-New York: da una parte Vito Cascio Ferro con i relativi contatti con l'area grigia della politica del periodo e dall'altra quel
Giuseppe Fontana, ritenuto il killer di Notarbartolo e il mandante dell’omicidio Petrosino.
Durissime furono le reazioni, tra le quali quelle del il console statunitense di stanza a Palermo che in un telegramma scrisse al governo Usa: “
Petrosino ucciso a revolverate nel centro della città questa sera. Gli assassini sconosciuti. Muore un martire”, mentre i quotidiani statunitensi accusarono le autorità italiane di collusione con le organizzazioni malavitose.
Tra i tanti articoli apparsi sulla stampa newyorkese si citano quello del
New York Tribune (14 marzo) dal titolo „
dective Petrosino black hand victime”, mentre sul
The evening world (15 marzo) venne pubblicata l'ultima lettera inviata ai familiari e scritta dalla camera dell'albergo in cui risiedeva l'Hotel di Francia e tale missiva era datata 28 febbraio 1909.
Dopo il funerale che si svolse a Palermo il 12 aprile 1909, la città di New York gli rese omaggio con la partecipazione, secondo le stime ufficiali di oltre 260.000 persone
.
Il 22 luglio 1911 il
tribunale di Palermo proscioglie dall’accusa di omicidio di Joe Petrosino […]
Palazzotto Paolo, Ernesto Militano, Salvatore Seminara, Camillo Perico, Francesco Perico, Pasquale Enea, Giovanni Ruisi, Carlo Costantino, Giuseppe Bonfardeci, Giuseppe Fatta, Giovanni Dazzò, Giovanni Finazzo, Gaspare Tedeschi, Vito Cascio Ferro e Antonino Passananti, imputati di omicidio volontario qualificato mercé armi da fuoco, commesso in Palermo la sera del 12 marzo 1909 in persona di Giuseppe Petrosino, luogotenente della polizia di New York […].
Nel 2014, nel contesto dell'operazione denominata „Apocalisse” promossa dalla Dia di Palermo: durante una intercettazione telefonica il boss Domenico Palazzotto dice all’interlocutore: “Lo zio di mio padre si chiamava Paolo Palazzotto, ha fatto l’omicidio del primo poliziotto ucciso a Palermo. Lo ha ammazzato lui Joe Petrosino, per conto di Cascio Ferro”, confermando così quello che un secolo prima gli investigatori avevano scritto.