Bisogna mangiare per vivere, non vivere per mangiare (Esse oportet ut vivas, non vivere ut edas). L’espressione è ricavata dalla Rhetorica ad Herennium come esempio di figura retorica, ma in realtà già era conosciuta come un motto di Socrate come testimoniano Diogene Laerzio, Plutarco e anche altri autori latini (per inciso una variante moderna sostituisce il mangiare col lavorare). Dal canto suo il più famoso fra i teorici della gastronomia, Jean-Anthelme Brillat-Savarin, autore della celebre Fisiologia del gusto, era solito dire: “Dimmi quello che mangi e ti dirò chi sei. Perché – aggiungeva – l’animale si nutre e l’uomo mangia, ma solo l’uomo di spirito sa mangiare”. La storia della gastronomia non è meno importante delle altre storie, in quanto s’intreccia con quella dei popoli e delle culture, essendo, per dirla come Thomas S. Eliot, la cucina una delle forme della cultura. Certo, parlando di cibo, si finisce con lo sconfinare in un peccato capitale, la gola, vizio, fra i sette più confessabile. Oltre ad avere un’altra caratteristica: l’unico vizio che aumenta con l’età, mentre tutti gli altri tendono a diminuire. Alla gastronomia, alla gola, peraltro Oscar Wilde attribuiva un vantaggio. Dopo un buon pranzo – diceva – si può perdonare chiunque, persino i nostri parenti. Il tanto vituperato Medioevo aveva messo tutti d’accordo con l’espressione “
Vivere de vento quemquam non posse memento” (Ricordati che nessuno può vivere d’aria). Dopo questa breve digressione vediamo come si nutrivano i nostri antenati e come la storia
dell’alimentazione si è evoluta con il comportamento umano nei confronti del cibo. Incominciamo dalle prime civiltà come l’Egitto, Palestina, Mesopotamia, Persia, Fenicia. Alla base della loro dieta c’erano: orzo, frumento, miglio, avena, che si cucinavano anche sotto forma di zuppe. In Mesopotamia veniva coltivato il riso, proveniente dall’Asia Sud-orientale. In Egitto si coltivavano lenticchie, ceci, lattughe, rape e cavoli. Abbondante la produzione di frutta: datteri, fichi, prugne, melegrane, mele. Dalla Fenicia proveniva il mandorlo della Persia, il pesco e il ciliegio. Babilonia era famosa per i frutti esotici: ananas, pistacchi, more. In Egitto, Fenicia e Palestina vi erano grandi coltivazioni di ulivo da cui si estraeva olio pregiato. In Mesopotamia invece si preferiva l’olio di sesamo o di noce. L’olio prodotto dall’ulivo era per la popolazione oltre che un alimento, un simbolo di abbondanza, ricchezza, pace. Nella Bibbia quando finì il diluvio, una colomba ritorna all’arca di Noè con un ramoscello d’ulivo in bocca. E viene anche citata la storia di Re Davide che 2pur colmo di gioie, di ricchezze e di gloria” considerava l’ulivo così pregiato da incaricare uomini di Israele a vigilare sui propri uliveti. Gli ebrei usavano l’olio come medicamento e veniva spalmato sulle ferite e sul corpo degli ammalati, tanto che nel Vangelo di Marco leggiamo che gli Apostoli “ungendo gli ammalati li risanavano”. Tra i grassi animali si producevano l’olio di pesce e il burro diffuso in Mesopotamia e meno usato presso gli Egiziani che lo preparavano con latte di pecora o di capra. Curioso è il racconto che narra l’invenzione del burro. Un cammelliere, dopo una lunga traversata, si accorse che, per gli scossoni subiti nel viaggio, nel recipiente contenente il latte si era formata semisolida. L’assaggiò e gli piacque. Cominciò quindi a ricavarlo per il suo uso agitando la forma del latte con un bastone. Citato spesso il burro nell’Antico Testamento. Il Signore distribuì agli uomini “burro di vacche e latte di pecore”. Quando Davide e i suoi seguaci avevano fame e sete, ebbero “miele e burro” e Abramo ad alcuni viandanti che erano andati a trovarlo offrì burro e latte. La selvaggina, cinghiale, lepri, cervi, antilopi, erano esclusiva delle classi al potere che possedevano ampie zone riservate alla caccia. In Egitto e nel Medio Oriente erano diffusi gli allevamenti di buoi, vacche, vitelli, capre, pecore e maiali. Quest’ultimi erano allevati per i sacrifici, perché la loro carne non era gradita per motivi igienici e religiosi. Era anche vietata la carne di capra e dei pellicani me gabbiani. Frequenti anche gli allevamenti di piccioni, pernici, oche, anatre. Sulle tavole dei ricchi egiziani non c’è una scena di banchetto in cui non si veda un’oca o un’anatra. Un altro cibo giudicato buono erano le uova sia di struzzo sia di oche, anatre e faraone. Di uova si alimentavano non solo gli Egizi (parliamo sempre dei benestanti) ma anche gli Etruschi che nelle pitture funerarie mostrano commensali con in mano un uovo. Gli antichi Egizi erano anche golosi di pesce. Si pescavano carpe, anguille e sulle rive del mare testuggini marine. Il consumo di pesce era proibito ai sacerdoti e agli Ebrei era vietato cibarsi di maiali, cammelli, lepri. Tra i volatili l’aquila, l’avvoltoio, il nibbio, il corvo, la civetta e tanti altri. Ancora “tutti gli insetti alati che camminano con quattro piedi”. La proibizione era citata nel Levitico “Voi non mangerete alcun animale che striscia sulla terra, sia che si trascini sul ventre, sia che cammini su quattro o più piedi, perché sono abominevoli”. Passiamo ora al pane. I primi panificatori sembra siano stati gli Egiziani che scoprirono anche la lievitazione e il forno con volta a cupola. Lo storico Erodoto segnala l’uso di impastare con i piedi e di pagare col pane invece che con le monete contadini e funzionari pubblici. Tanto consideravano importante il pane che vennero chiamati “mangiatori di pane” e erano soliti riprodurre sulle tombe scene relative alla panificazione. Numerose erano anche le qualità: pane candito con sale, olio o latte; quello al sesamo, alla canfora, ai semi di papavero; alla frutta e ai semi di loto bianco. Gli Ebrei, com’è noto, consumavano solo pane azzimo (non lievitato) e a forma unica. Dopo il cibo, si usano le bevande: vino e birra. Del vino già il codice di Hammurabi, parliamo della civiltà assiro-babilonese, ne parla come medicamento efficace contro l’inappetenza, la stipsi e come eupeptico. In Mesopotamia è sempre presente sulle tavole delle classi agiate. In Egitto era tenuto in grande considerazione come bevanda e come medicamento. Lo storico Erodoto racconta che gli antichi persiani avevano grande fiducia nel vino che affrontavano le questioni di governo dopo avere bevuto parecchio. Il giorno dopo, da sobri, riesaminavano le decisioni prese e le applicavano. Due civiltà si attribuivano la scoperta della birra: la Mesopotamia, l’Egitto. Secondo una leggenda la scoperta sarebbe avvenuta per caso in Egitto. Dopo un’esondazione del Nilo, un contadino vide che l’orzo conservato era rovinato. Volle provare, prima di buttarlo, il risultato, e vide che il prodotto era gustoso e che dava un senso di benessere. Venne poi consacrata a Osiride ed era considerata fortemente nutritiva ed usata con miele, farina di cereali e data anche ai bambini. Gli Ebrei ne bevevano pochissima e aggiungevano del sale. Gli Assiri e i Babilonesi usavano il farro con vari tipi di orzo e piante aromatiche per variare il gusto. In Mesopotamia veniva fatta in casa dalle donne e si beveva ai funerali per celebrare il morto e, offerta alla divinità, assicurava al defunto un viaggio sereno. Passiamo ora al periodo classico iniziando dalla Grecia. Un posto importante nell’alimentazione è occupato dai prodotti ittici. I Greci si resero conto dopo il V secolo della ricchezza che c’era nel loro mare e incominciarono a pescare con mezzi sempre più perfezionati. Quindi usarono canne, fiocine, reti, pescherecci. E oltre a quelli piccoli, cercarono pesci di notevole dimensione: pescecani, pesce martello, tonni. Golosi soprattutto di quest’ultimi che consumavano salati, marinati, arrosto. La qualità migliore era considerata quella del mare di Siracusa. Non mancavano le anguille che il commediografo greco Anassandride chiamerà “la più squisita delle pietanze”, cotte alla brace o in foglia di bietola. E poi le aragoste, i polpi, le seppie, e altri frutti di mare. Pesci consigliati erano anche “la pingue orata di Efeso”; i pettini di Mitilene; la murena dello stretto di Sicilia; il dentice “che devi cercare ben grasso”. Non è consigliato il mormile di spiaggia perché “pesce malvagio”. Tra i frutti di mare i Greci preferivano le ostriche e ne preparavano anche un brodo. Nei banchetti le offrivano come incentivo a bere. Le acciughe erano usate non solo come cibo, ma anche come base di una salsa che arriva, come vedremo, fino ai Romani. Comune era anche il consumo delle carpe, consacrate ad Afrodite, per la loro prolificità. Non è chiara l’origine, ma è certo che i Greci conoscevano i tartufi, dei quali erano particolarmente ghiotti. Gli Ateniesi li apprezzavano talmente che concessero la cittadinanza ad alcuni che avevano offerto loro una ricetta a base di tartufi, petto di fagiano tritato, sale e spezie. Ancora oggi si crede abbiano effetti afrodisiaci, già citati da Platone ne “Il Simposio” dove si consigliano di consumarli cotti sotto la cenere prima dei rapporti amorosi. Teofresto, allievo di Aristotele, più realisticamente, lo definiva “ornamento prezioso della tavola”. Sulle tavole dei Greci c’erano anche i funghi. Si consumavano crudi, arrostiti, bolliti. Era già noto che potevano essere causa di morte. Tra i frutti, il fico era tenuto in grande considerazione. I banchetti iniziavano con fichi di Sparta e terminavano con quelli provenienti dall’Attica. Venivano mangiati anche secchi. Cibi prelibati erano considerati i tordi “erano serviti a stormi negli antipasti con focacce al latte”. A differenza di altri popoli, i Greci mangiavano carne di maiale oltre a sacrificarlo agli dei. Soprattutto il cervello era ricercato nonostante il consumo fosse vietato da Pitagora. Alla dea Atena era attribuita la scoperta dell’ulivo e ad Eracle il merito di averlo diffuso nei Paesi del Mediterraneo. La sua clava era costruita con un tronco di ulivo. I Greci furono grandi coltivatori della pianta e perfezionarono le tecniche di estrazione dell’olio. Veniva usato come medicina per le ulcere e ustioni. C’era anche l’abitudine di versare delle gocce sul viso dei morti per rischiarare “le oscure dimore infernali”. Rischiava l’esilio e la confisca dei beni chi osava tagliare gli olivi dell’Aeropago. Prima delle gare gli atleti si ungevano il corpo con l’olio di oliva. Agi atleti di fama ne veniva regalate anfore piene del prodotto di prima qualità. Abbiamo citato già gli Egizi come scopritori della lievitazione della farina e l’invenzione dei forni a cupola. In Grecia il pane appare intorno all’anno mille a.C. e preparato dalle massaie. Più tardi appare la figura del fornaio. La cottura avveniva in una buca colma di cenere, poi viene inventato il forno con apertura anteriore. A tale livello arrivò l’arte della panificazione che Ateneo elenca settanta specie di pane e Aristofane e Platone citano panettieri divenuti famosi. I Greci conobbero il vino attraverso l’Asia Minore, ma divennero ottimi produttori e preparatori di vino. Avevano imparato a preservare la vite dall’umidità e vendemmiavano a settembre. Dopo aver pigiato l’uva separavano il primo mosto per farlo invecchiare e sistemato in vasi di terracotta per poi metterli sotto terra fino all’imboccatura. Ma veniva anche conservato in otri di pelle di capra o di maiale. Ippocrate considerava i vini bianchi e dolci diuretici, quelli rossi hanno invece proprietà lassative. Da ricordare che era abitudine berlo con acqua. I pasti in un giorno erano tre: al mattino pane inzuppato di vino, a mezzogiorno una piccola colazione e alla sera un pasto ricco con numerose portate. I cibi si prendevano con le mani e per quelli molto caldi si usavano particolari guanti. Al posto dei tovaglioli – sconosciuto – si usava la mollica di pane che poi si gettava ai cani. Di tre tipi erano i partecipanti a un banchetto: quelli regolarmente invitati; amici degli invitati sempre ben accetti; infine i passanti che, in cambio del cibo, raccontavano barzellette per tenere alto il morale. Della cucina romana abbiamo più conoscenze perché ci sono giunte tante opere che ne parlano. Ma anche dai classici possiamo ricavare notizie sull’argomento. Plutarco, Marziale, Cicerone, Virgilio, Seneca e tanti altri non mancano di occuparsi di gastronomia. Due nomi però è obbligatorio citare: Apicio per le ricette e Trimalcione per il menù. Sinonimo quest’ultimo di cena volgare, mentre il primo col suo
De re coquinaria divenne sinonimo di ricettario. Si dice “l’Apicio” come a fine ottocento si dirà “l’Artusi”. Nell’epoca arcaica i pasti principali erano tre:
jentaculum,
prandium,
cena. Questi erano fatti nell’atrio, con la vista sulla strada. Poi con case più ampie il pranzo si consumava in luoghi meno visibili come il
tablinum e il
cenaculum. Quando prevalse la moda di mangiare sdraiati si passò al
triclinium. Locale con letti inclinati disposti a ferro di cavallo intorno a una tavola di cui veniva lasciato libero un lato per l’ingresso dei servitori. I Romani di solito saltavano la colazione mattutina e appena svegli prendevano un bicchiere d’Acqua per disintossicarsi e idratarsi. Altri consumavano in dosi m odeste, pane, formaggio, miele e uova. Verso le undici o mezzogiorno c’era il “prandium” a base di pesce, frutta e vino. Per la prima e seconda colazione non era necessario la tavola apparecchiata, né lavarsi le mani dopo il pasto. Lo dice anche Seneca: “
post quod non sunt lavandae manus”. Il vero pranzo era la cena che durava diverse ore. Ritorniamo ad Apicio. Di lui abbiamo notizie confuse e si conosce solo il sio amore per il cibo. Visse sotto Tiberio del cui figlio Druso fu amico. Erede di un grande patrimonio che sperperò per inventare cibi raffinati. Apicio era un soprannome preso da un famoso ghiottone. Il suo nome era Marco Gavio. E da Seneca sappiamo che si tolse la vita quando si accorse che non poteva mantenere un tenore di vita soddisfacente. Plinio infatti ricorda che per una sola triglia di grosso peso era disposto a pagare 5000 sesterzi. Marziale gli dedica, dopo la morte per avvelenamento, un epigramma (trad. M Scandola). “Avevi sborsato, Apicio, sessanta milioni per il tuo ventre, ma te ne restava ancora una buona decina. Non potendo accettare questa situazione, come fossi ridotto a soffrire la fame e la sete, hai trangugiato come ultima bevanda del veleno. Non sei mai stato tanto ingordo, Apicio”. E un po’ impietosamente Isidoro di Siviglia: “Gli utensili di cucina, furono creati da un tal Apicio, che volle morire circondato da essi dopo un buon pasto: ed a ragione perché chi è schiavo della gola e della voracità uccide la propria anima e il proprio corpo”. Nelle ricette di Apicio i cibi sono curati in ogni particolare e viene descritto il modo con cui guarnirli. Non solo il palato, ma anche l’occhio vuole la sua parte. Il profumo del cibo è assicurato da due ingredienti: il garum e il mosto o vino cotto. Il garum, perfezionato proprio da Apicio, viene ai Romani dai Greci. Questa salsa era preparata in vasche dove si mettevano pesci piccoli, non eviscerati (alici, sardine ed aringhe); a questi si aggiungevano sgombri e ricciole, non puliti. Poi si mettevano le erbe e abbondante sale.Stagionatura due o tre mesi. Il sugo veniva poi raccolto in anfore. La feccia che rimaneva era per gli schiavi. Questo garum era noto come 2salsa di Apicio”. Lo stesso lo dolcificava col miele, lo insaporiva con l’aceto, lo aromatizzava con le erbe. Marziale, in un epigramma cita questa salsa come sinonimo di odore sgradevole. Famoso anche il suo sistema per conservare le ostriche per mandarle fresche all’imperatore Traiano anche quando era lontano (Si Lavavano le ostriche con l’aceto in un vaso cosparso di pece e cosparso d’aceto). Un rapido elenco, ora, sui cibi e sulle bevande più comuni fra i Romani. Solo nel secondo secolo a.C. divenne comune l’uso del pane e comparvero “schiavi panettieri” ai quali era obbligato l’uso dei guanti e maschere per proteggere l’impasto dal sudore e dal “respiro plebeo”. Un’importante innovazione romana fu la sostituzione della macina di pietra mossa da schiavi al mulino, fatto funzionare dall’acqua. All’epoca di Augusto si contavano 329 panetterie gestite da Greci e da fornai della Gallia. Le persone ricche mangiavano pane bianco ottenuto con fior di farina; gli atleti un pane più nutriente; i poveri il pane nero. Il pane poteva essere cotto in forno di mattoni; sotto una campana di terracotta; in un recipiente rovesciato di ferro o di terracotta con braci ardenti all’interno. In occasione di banchetti venivano preparati pani dolci con miele, uva passa e droghe. Si facevano anche preparazioni con formaggio, farina, uovo. Da ricordare anche la
confarreatio, cerimonia nuziale durante la quale gli sposi mangiavano una focaccia di farro, suggellando il loro rapporto. A Roma era tenuto in grande considerazione il vino. Non solo come bevanda, ma anche come afrodisiaco (
Sine Baccho friget venus), ma era proibito alle donne e una legge di Romolo autorizzava di giudicare la moglie che aveva bevuto vino un’adultera. Le donne di casa si potevano baciare per sentire l’alito e un romano ammazzò la moglie che aveva spillato il vino dalla botte. Marziale narra del vino richiesto come ricompensa da una donna: “… Al collo mi abbracciò, e con un bacio / lungo come un amplesso di colomba /Filli mi chiese un’anfora di vino”.Il colore del vino poteva essere bianco, biondo, rosso sangue e nero. Veniva allungato con acqua fredda o calda o unito al miele. I vini più usati erano il falerno, l’albano, il cecubo, il Massico e tanti altri. Rinomati anche i vini greci: di Chio, di Rodi, di Argo. Orazio esalta i nettari di Lesbo e della palude di Mareotide in Egitto. Capitava pure che il padrone di casa offriva vino diverso secondo l’importanza dell’ospite. E Marziale protesta: “A me vinetto di Veio tu mesci e il Massico bevi; meglio fiutare la tua coppa, che bere la mia”. Passiamo ora alla frutta. L’uva si mangiava anche con pane e fichi. I datteri si usavano come frutta o per preparare dolci. Venivano distribuiti nei teatri durante gli intervalli e con essi si preparava vino dolce che Apicio chiama
Conditum Paradoxon, vino meraviglioso. Cibo apprezzato erano anche i fichi, che reputavano favorisse l’ingrassamento. Una varietà pregiata era il sicomoro. L’altra frutta usata erano le mele, le pere (40 le varietà citate da Plinio), nespole albicocche, pesche, more di rovo o di gelso. I frutti con la copertura dura erano i “
nuces”. Comprendevano la noce, la nocciola, la mandorla, il pistacchio, la ghianda. Si mangiavano fresche, arrostite, pestate. La castagna era chiamata “alimento per pastori”, ma si consumava bollita, arrostita o con farina. Apicio la consiglia fatta in purea. Abituale sulle tavole dei ricchi l’uso della carne, ma era concessa anche alla plebe nelle ricorrenze e feste religiose. Rifiutavano, come i Greci. Le carni di animali uccisi da altri animali o morti per incidenti, che venivano chiamate con disprezzo “
morticinae”. Si mangiavano montoni, asini, cinghiali, pecore. La carne di vitello era consigliata agli ammalati. Per Cicerone l’unico animale che non andrebbe ucciso era il bue, perché compagno di fatica dell’uomo. Ma il preferito era il maiale, considerato più digeribile e nutriente di quella del bue. Conoscevano anche i prodotti di salumeria: tritavano la carne con fegato e altri organi; aggiungevano sale e aromi per poi insaccarla nelle budella. Nonostante i divieti si consumavano uccelli di ogni tipo: fagiani, cicogne, tordi, merli, pellicani, fenicotteri. In un pranzo in onore di Nerone – citato da Svetonio – ne vennero serviti migliaia (settemila) di diverso genere. Frequenti anche gli allevamenti delle lumache, considerate cibo salutare. Ma la vera preferenza dei Romani andava al pesce. Tra i più richiesti le anguille e il persico. Pregiata era anche consideratala triglia. Tra i frutti di mare la preferenza era per le ostriche importate dalla Bretagna. Anche allora circolavano leggende che avessero proprietà afrodisiache. Sembra bche il record di mangiatore di ostriche spetti all’imperatore Vitellio che ne arrivava a mangiare in un pasto oltre mille. Tra i legumi si preferivano le fave che si mangiavano anche con il baccello quando era tenero. Oppure cucinate mescolate con altre minestre e poi condite con aceto. Un piatto tipico era la polenta di fave, fatta con la farina (
maccus). Una curiosità: il nome della famiglia dei Fabi, deriva proprio da faba. D’altra parte era così per altre famiglie. I Lintuli dalle lenticchie, i Pisoni dai piselli, i Ciceroni da ceci. Un altro alimento diffuso erano gli asparagi, decantati da Giovenale “i montani asparagi da gustare con uova belle grasse”. Li mangiavano appena scottati in acqua bollente. Cesare li condiva col burro. Augusto per indicare un azione rapida usava l’espressione “
celeris quam asparagi cocuntur” cioè “più rapidamente di quanto gli asparagi impiegano per cuocere. Esisteva inoltre una nave attrezzata per il trasporto che si chiamava asparagus. Anche il carciofo, già noto agli Egizi e ai Greci, era considerato cibo prelibato e cucinato con miele, aceto, cumino. Anche questo era considerato afrodisiaco e aveva anche la capacità di favorire la procreazione. Passiamo ora ai due bulbi: aglio e cipolla. Di cipolle erano ghiotti. Si facevano anche conserve sotto aceto e sotto miele. Veniva usata anche per favorire il sonno e per guarire le ulcere della bocca, il mal di denti, la lombaggine e la dissenteria. I gladiatori se la spalmavano sul corpo per rinforzare i muscoli. Diverso il problema dell’aglio. Pochi cibi hanno ispirato, come l’aglio, sentimenti d’amore-odio. Tra quelli che l’hanno odiato vi è il poeta latino Orazio. Lo paragona alle pozioni venefiche preparate dalle fattucchiere e al sangue di vipera. Ed essendo stato Mecenate il responsabile, avendogli offerto l’aglio che gli ha provocato malesseri, il poeta gli manda anche una maledizione: quella di essere rifiutato da una donna: “Ma se un’altra volta ti verrà l’uzzolo di un veleno simile, Mecenate burlone, voglio proprio imprecartelo: la ragazza ripari il tuo bacio con la mano e vada a sedersi all’altro capo del letto”.
Le sacerdotesse della dea Cibele venerata come Magna Mater proibivano l’ingresso al tempio a coloro che “sapevano d’aglio”. Era invece apprezzato da Nerone che inventò una salsa. Neanche Tacito si dimostra molto entusiasta perché. Appena arrivato a Roma, venne colpito da indigestione per aver mangiato dell’aglio. Bisognerà arrivare al 1800 per riconoscere le proprietà terapeutiche dal grande chimico Pasteur. In fondo dopo questo breve excursus nella cucina romana si vede che la differenza tra il nostro gusto e quello dei Romani non sta tanto nei cibi quanto nei condimenti. Per loro era normale mescolare sapori acuti e dolciastri e l’uso smodato che si faceva delle salse di pesce. Dopo il declino di Roma, iniziarono le invasioni barbariche che cancellarono la gastronomia romana. I barbari conoscevano una sola ricetta: la carne cruda messa fra la sella e il cavallo e così tritata durante i viaggi in modo da essere masticabile. Durante il loro dominio la buona cucina viene cancellata. Solo Teodorico sembra sia stato un buongustaio e un amante della tavola. Bisognerà aspettare Carlo Magno per una rinascita della gastronomia. Ma questo, col Medioevo e i secoli che seguono sarà oggetto di un’altra conversazione.