Il sistema tributario del Regno borbonico, pur nella sua relativa mitezza, rappresentava l’espressione più chiara della politica finanziaria governativa, volta a ricorrere il meno possibile alle entrate tributarie, spesso per ragioni politiche che economiche. Il ricorso ai sudditi per chiedere tributi poteva aumentare l’interesse del popolo a chiedere conto dell’impiego delle tasse riscosse, cercando quindi di controllare l’attività di governo. gli effetti di questa politica finanziaria furono gravi per il reame meridionale, il cui governo se poco chiedeva ai suoi sudditi, e quel poco richiesto gravava per buona parte sulle classi più umili, pochissimo spendeva per essi, e per giunta male, di conseguenza le condizioni dello stato furono più indebolite invece che per oppressione fiscale, per mancanza di spese utili a promuovere la ricchezza nazionale. Quale fu la politica tributaria del reame? Tre erano i capisaldi che improntavano questa politica
1. contenere la spesa pubblica in modo da poter contenere le entrate;
2. addossare il carico tributario alle classi più umili, meno reattive più docili e contenibili con mezzi paternalistici;
3. dare la precedenza a tributi che potessero essere meno avvertiti nella loro forma non desta meraviglia che la politica tributaria napoletana fosse la piu’ bassa in Europa;
Le fonti di entrata erano basate su tre massime:
1. conservare le antiche imposte meno avvertite ed assuefatte nel popolo;
2. preferire quelle che son pagate da chi meno se ne accorge;
3. escludere le classi di cittadini che sono più rimostranti nella tutela dei propri interessi. per questo motivo succedeva che l’imposta fondiaria fosse la sola imposta diretta che rendeva 1\3 dell’entrate dello Stato. Il tributo fondiario gravava sulla fonte di reddito più importante del Reame rappresentata dall’agricoltura, mentre la ricchezza mobiliare ne era esclusa. A questo stato di cose si aggiungevano i problemi strutturali riferiti alla produzione ed al commercio delle derrate agricole: istruzione tecnica inesistente, credito trascurabile, assoluta mancanza di strade, politica doganale triste a causa dei dazi di esportazione. Le imposte indirette in particolare sugli atti vedevano una grande mitezza, non esistevano imposte di successione, questo si può spiegare interpretando la basi della politica finanziaria borbonica, massima trascuratezza nei servizi pubblici a tutto vantaggio del massimo contenimento del prelievo tributario. Le imposte indirette erano stabilite in: registro e ipoteche, bollo, cancelleria e tribunali, archivi notarili, sanzioni amministrative di ogni genere. Le altre contribuzioni indirette riguardavano: i dazi di consumo, i diritti di privativa (polveri , carte, tabacchi, sale, neve la Città di Napoli). Il sistema doganale rispondeva all’indirizzo politico del Governo, e cioè: frenare l’esportazione, per favorire l’offerta ed i bassi prezzi degli alimenti, agevolazioni protezionistiche a favore degli industriali.
Le entrate della finanza locale erano costituite dalle rendite fondiarie, dai dazi di consumo, dalle addizionali della contribuzione fondiaria, da proventi giurisdizionali, (multe, occupazione di suolo pubblico, patenti). Le spese poste in essere per sopperire ai bisogni amministrativi dello stato, venivano impegnate in un insieme di opere pubbliche, equipaggiamenti per l’esercito e la marina militare, forniture per la pubblica amministrazione, coperte in parte dalla cessione sotto forma di appalto dei tributi a speculatori privati, in un economia ristretta le esigenze amministrative e finanziarie del Governo borbonico costituivano il fulcro degli investimenti di capitali e da esse l’economia trovava le più importanti opportunità commerciali ed imprenditoriali. le attività economiche che ruotavano intorno allo stato ed ai suoi bisogni si conformavano alla stessa struttura ed allo stesso modello che caratterizzava i settori commerciali più indipendenti, le attività più importanti e più più lucrose erano dominate saldamente e gelosamente da piccoli gruppi oligarchici ricchi e potenti, mossi da intenti speculativi e legati ai circoli di corte. Questi imprenditori che traevano profitto dalle necessita’ dello stato, prendevano a loro volta vantaggio dal ristretto margine del profitto agricolo, che si palesava come risorsa dalla quale il governo traeva quasi per intero le proprie risorse tributarie, e ci vivevano, senza apportare nessun contributo produttivo. le spese governative, come i lavori pubblici, rappresentavano l’unica effettiva forma alternativa di impiego di un certo rilievo, insieme al servizio militare, rispetto al lavoro agricolo, stanti le depresse condizioni dell’economia. I costi di costruzione erano molto elevati a causa della natura del terreno e rimanevano le uniche forme di assistenza economica che il governo poteva offrire ai diseredati in tempi tristi. una fonte relativamente permanente di impiego sia per i capitalisti che per i lavoratori rurali in soprannumero, la costruzione di strade veniva affidata a speculatori privati,
Carlo Afan De Rivera, direttore del servizio ponti e strade, criticava questa forma di concessione per il pericolo dei profitti illeciti. Le opportunità di profitti erano superiori ai guadagni ufficiali, di conseguenza molti capitali erano attratti da questo settore, vigeva un monopolio composto da appaltatori professionisti residenti nella capitale o provincie limitrofe. La bonifica delle terre era un altro settore sul quale convergevano molti interessi. Al pari di quanto avveniva per la costruzione e manutenzione delle strade le spese che lo stato sosteneva per realizzare i progetti di bonifica venivano divise tra ministero dell’interno e tesoro dei comuni. la bonifica dei terreni era uno dei maggiori problemi che la società meridionale dovette fronteggiare. Il marchese
Vito Nunziante, un amministratore borbonico, ebbe in cambio della sua opera i 3\4 della terra da lui bonificata in Calabria. Le costruzioni edilizie non offrivano lo stesso profitto che potevano offrire le strade e le informazioni su questo settore sono limitate anche se nel 1839 era stato costituito un consiglio edilizio. Il governo borbonico preferiva per i bisogni amministrativi dello stato utilizzare gli edifici religiosi come i conventi. L’edificio per il quale la dinastia borbonica profuse maggior cura e capitali fu la costruzione della Basilica Reale di San Francesco. Il contratto fu affidato ad un milanese, impresario teatrale del San Carlo, stanziatosi a Napoli durate il decennio francese, l’incarico non andò a buon fine per carenze finanziarie, ci volle un prestito da parte di alcuni commercianti napoletani che acquistarono buoni del tesoro emessi dal Governo a copertura dei fondi, nel 1837 la spesa per questo edificio ammontava a 1.600.000 ducati. i porti adriatici, rappresentavano un ulteriore problema nel panorama delle infrastrutture del Regno, un gruppo di imprenditori baresi si offrì di anticipare con un finanziamento i capitali per ammodernare il porto di Bari ma ricevette una risposta negativa da parte del governo. un'altra forma di ricerca di profitto era rappresentata dagli appalti per le imposte e i dazi, anche gli appartenenti alla nobiltà non disdegnavano di occupare. La dipendenza di tante persone dalle fonti di spesa pubblica rappresentava una contraddizione rispetto all’ondata di cambiamento vissuta durante il decennio francese, era la prova più evidente che lo stato borbonico non era riuscito a realizzare quella razionalizzazione della burocrazia e dell’amministrazione civile, le difficoltà finanziarie, anche se evidenti, non potevano essere il motivo per cedere agli interessi ed ai capitali privati, i principali rami dell’amministrazione finanziaria, ipotecando i suoi proventi, lo stato veniva privato delle risorse necessarie per creare fonti alternative di ricchezza. Uno Stato virtualmente in bancarotta, cedeva ai capitalisti privati le sue responsabilità e le sue risorse amministrative, negando a sé stesso la possibilità di cancellare i propri debiti per quanto la situazione dello stato non faceva che riflettere, i debiti del regno verso quegli stranieri che detenevano i titoli del suo debito pubblico, alla fine la stessa stabilita dello stato borbonico era minata dal fatto che anche le sue risorse interne erano state ipotecate; e proprio coloro che detenevano queste ipoteche emergono come gli effettivi imprenditori dell’arretratezza.