V. PALIOTTI,”Totò principe del sorriso”, Fiorentino Editrice 1977;
R. ESCOBAR,Totò”, Il Mulino, 1998;
L. DE CURTIS,”Totò mio padre”, Mondadori, 1990;
F. FALDINI – G. FOFI,”Totò storia di un buffone serissimo”,Oscar Mondadori, 2004;
A. ANILE,”Totò proibito”, Lindau, 2005;
E. BISPURI,”Totò kolossal”,Cremese, 2016.
Si sfoglia un'altra pagina dell'umorismo con un nuovo incontro organizzato dal Circolo Culturale “L'Agorà” di Reggio Calabria e nello specifico si và ad analizzare una delle figure centrali, se non fondamentale di tale area e nello specifico quella del principe della risata, in arte Totò.
La prima parte della conferenza è stata dedicata ai saluti istituzionali da parte delle autorità della Città napoletana, caratterizzate da due lettere che sono state lette da Gianni Aiello, presidente del sodalizio culturale organizzativo.
Ringraziamenti sono giunti da parte del Sindaco di Napoli Luigi de Magistris che plaude alla rilevante iniziativa che celebra “
un artista immenso e poliedrico, napoletano, ma universale di cui ricorre il cinquantesimo anniversario della scomparsa” e dell'Assessore alla Cultura Nino Daniele che […]
ringrazia nell'apprendere che il grande attore comico sia ricordato come a Napoli anche in altre città. A Napoli quest'anno abbiamo voluto dedicare a Totò il "Maggio dei Monumenti", invitando gli operatori culturali della città a farsi inventori e protagonisti della kermesse. Ed attendiamo Totò per maggio, quasi con ansia, come se dovesse ritornare veramente, in carne ed ossa, fratello nostro disperso, dopo una lunga assenza, per incontrarlo, per dialogare con lui familiarmente, perché Totò parla la nostra lingua, compie i nostri gesti, commette gli stessi errori che commettiamo noi. Totò è napoletano, Un pezzo vivo della storia e della vita stessa di questa città. E tuttavia, anzi proprio in quanto personaggio indiscutibilmente napoletano, riesce a farsi maschera universale, e così attuale, a cinquant'anni dalla morte da essere a volte inquietante. Fu ribelle ad ogni convenzione, sovvertitore delle gerarchie, sabotatore dei luoghi comuni, scardinatore di certezze pone il suo corpo, in ogni situazione, come pietra d'inciampo alle logiche del buon senso comune e fa del linguaggio una macchina magica, che spezza il cerchio delle verità chiuse per farci intravedere orizzonti di inaudite libertà. Totò è per noi un maestro di libertà, per questo la forza, e con essa la popolarità, del personaggio non è diminuita nei cinquant'anni dalla sua morte, si è anzi accresciuta ben oltre i confini di Napoli. A Napoli lo ricorderemo con numerosissime iniziative che si susseguiranno per tutto il mese ed alcune bellissime mostre, con documenti sulla sua attività e con le opere di numerosi artisti che ne reinterpretano l'immagine.
Con i miei saluti, i complimenti per la vostra iniziativa ed i più sentiti auguri per le vostre attività, consentitemi dunque di rivolgervi un invito a visitare Napoli, a maggio, nel segno di Totò [...]
La parola è passata al relatore Antonino Megali (socio del Circolo Cultarale “L'Agorà”) che ha relazionato sul tema “Totò a cinquant’anni dalla morte” effettuando un excursus sull'uomo e sull'artista.
Cinquant’anni fa il 15 aprile 1967 - esordisce Antonino Megali - moriva Antonio Griffo Focas Flavio Angelo Ducas Comneno Porfirogenito Gagliardi de Curtis di Bisanzio, altezza imperiale, conte palatino, cavaliere del Sacro Romano Impero, esarca di Ravenna, duca di Macedonia e d’Illiria, principe di Costantinopoli, di Cilicia, di Tessaglia, di Ponto, di Moldavia, di Dardania, del Peloponneso, conte di Cipro e d’Epiro, conte e duca di Drivasto e di Durazzo in arte Totò. E pensare che quando nacque in via Santa Maria Antesaecula il 15 febbraio 1898 nel rione Stella chiamato poi Sanità, venne registrato alla anagrafe come Antonio Vincenzo Stefano Clemente cognome della madre, essendo sconosciuta l’identità del padre. La madre Anna Clemente detta Nannina, era minorenne quando scoprì la sua gravidanza frutto di una relazione illegittima con Giuseppe de Curtis. Il nonno, il marchese Luigi de Curtis aveva proibito al figlio il matrimonio con una popolana. Nonostante il divieto il padre naturale, di professione sarto ambulante, cercò di aiutare la madre in tutti i modi. Il piccolo venne poi allevato dalla nonna materna, da una zia materna e da due zitelle nobili decadute, dette le contessine. Fu accanto a Totò lo zio Federico fratello della madre; poi toccò al figlio Edoardo, che lo assistette durante la cecità e fino alla morte. A scuola non fu uno scolaro modello tanto che quando ebbe ultimata la quarta elementare, anziché essere promosso in quinta, venne mandato in terza. La prese con buon umore e affermando :” Sono un retrocesso e scusatemi per la rima”. Dopo aver preso la licenza elementare con tanti stenti, fu iscritto al ginnasio in un collegio per figli dei poveri. Qui si verificò un avvenimento che ebbe conseguenze nella sua vita. Un giorno un precettore che faceva per scherzo a boxe con gli alunni lo colpì al naso. Totò ebbe un’emorragia, e la parte sinistra del naso si atrofizzò, provocando quel dislivello tra i due lati del volto che caratterizzò la sua machera. Ma visto il suo disinteresse per lo studio, fu mandato a fare l’apprendista imbianchino. Si sentiva però umiliato nel fare questo suo lavoro, tanto che rifiutava le mance che gli venivano offerte. Intanto era scoppiata la Prima Guerra Mondiale e fece la domanda per arruolarsi come volontario. La richiesta fu accolta e fu mandato al Reggimento di stanza a Pisa. Visto però la realtà della guerra, cominciò a fare il lavativo. Iniziò a simulare vertigini mal di testa, mal di stomaco e dolori fortissimi. Dopo il ricovero fu inviato con un battaglione di fanteria ai confini con la Francia tra soldati di colore, temuti da Totò per i loro gusti sessuali. Allora prima di arrivare in sede, simulò un altro attacco epilettico. Trasportato in ospedale e poi dimesso venne rimandato a Livorno. Qui nacque il famoso tormentone Siamo uomini o caporali? Un caporale descritto come “gonfio quanto una vescica di strutto, imbrillantinato e pettoruto”, lo terrorizzava e lo puniva imponendogli anche la pulizia dei gabinetti, la pelatura delle patate, il tutto accompagnato da offese e angherie. La battuta servì come vendetta e il comico poi spiegò che il termine caporale è offensivo non perché significa “un ignobile e stupido prepotente” , ma anche perché i caporali non essendo muniti di ramazza, non scopano mai e sono cretini. Finita la guerra incominciò a recitare in piccoli teatri facendo l’imitazione dell’attore napoletano Gustavo De Marco le cui specialità erano gli scioglilingua, salterelli, contorsione degli arti e movimenti del collo. La famosa canzone Vipera, trasformata in Vicolo, vedeva l’imitazione di Francesca Bertini. Vestito da donna con piume e Paillettes, si atteggiava a donna fatale. Faceva la seduttrice finché la vipera diventava” na gallina spelacchiata” poi si attaccava ad una tenda facendola cadere. Un’altra versione trasformava Vipera in Biscia. L’altra parodia era quella di Cristoforo Colombo, nella quale Totò trascinava con lo spago una barchetta di cartone e diceva:” Quel Cristoforo Colombo mi è proprio simpatico. Era un grand ‘uomo eppure non fu capito. Pe procurarsi tre caravelle fetenti faticò come un mulo e nessuno mi toglie dalla testa che per ottenerle sia stato costretto a scoparsi la regina di Spagna. Che s’ha da fa pe’ scoprì l’America”.Il comico cominciò a rendersi conto che quelle imitazioni incominciavano a stancare e allora decise di andare a Roma. Era un giovane elegante, pettinato alla Rodolfo Valentino, i capelli imbrillantinati con le basette a punta e aveva una vera e propria passione per le donne alle quali non dispiaceva nonostante fosse alto solo 1 metro 66 centimetri, il mento allungato e la mascella deragliata. Conobbe una contorsionista calabrese e fu un colpo di fulmine. Dopo un’ora era già in una camera d’albergo. Qui la ragazza disse di dover dare a mangiare a Bimbo. Totò pensò di avere a che fare con una ragazza madre, ma quando la donna tirò fuori un pitone da un cesto fu terrorizzato e per la prima volta “andò in bianco”. Naturalmente fu preso in giro per settimane da tutti quelli che seppero dell’episodio. Un’altra sera sorpreso per la strada in intimità con una ballerina torinese fu condotto al commissariato. Intanto nel 1928 Totò fu riconosciuto da padre naturale e prese il nome di Antonio de Curtis. Poi si fece adottare anche da un altro nobile napoletano, Gagliardi Focas, in cambio di un vitalizio. Quindi ora di padri ne aveva due. È di questo periodo la tragica storia d’amore con Liliana, al secolo Eugenia, Castagnola che aveva girato tutta l’Europa lavorando nei caffè- concerto.
In Francia aveva provocato la morte di un uomo che se la contendeva in un duello con un altro. A Montecatini un suo amante geloso le sparò due proiettili, prima di suicidarsi. Arrivata a Napoli s’innamorò di Totò. Il comico ricambiò subito colpito dalla sua bellezza, nonostante fosse di alcuni anni più piccolo. La passione durò per qualche tempo costellata da scenate di gelosia reciproche. Finché Totò capì che rappresentava un ostacolo sia per quanto riguardava la sua carriera di artista, sia perché gli impediva altre conquiste femminili alle quali ci teneva molto. Dopo averle rinfacciato tutti gli uomini che aveva avuto la lasciò. Liliana ingerì un intero flacone di sonnifero e morì. Totò volle che fosse tumulata nella tomba dei de Curtis e chiamerà Liliana la figlia che nascerà un anno dopo. Mentre recitava a Firenze conobbe infatti una ragazza di sedici anni che si chiamava Diana Bandini Rogliani Lucchesini ed era di illustre casata fiorentina.Le chiese subito di sposarlo .Le nozze si svolsero col solo rito civile ed andarono ad abitare in un alberghetto dove iniziarono i primi litigi. In una camera partorì la figlia Liliana per poi due anni dopo regolarizzare l’unione in chiesa. Dopo una serie di scenate ottennero il divorzio in Ungheria nel 1939 e poi un anno dopo fu confermato dalla Corte d’Appello di Perugia. I due continuarono a vedersi anche per la presenza di Liliana e c’era stato anche un accordo per cui Diana non poteva risposarsi prima del matrimonio della figlia. Nel 1950 scoppiò un altro violento litigio. Diana avendo saputo che Totò si era innamorato si Silvana Pampanini, gli comunicò che se si fosse sposato con l’attrice anche lei si sarebbe sposata con un uomo che la stava aspettando. In questo contesto compose la famosa canzone Malafemmena, che per lungo tempo si pensò fosse stata scritta per la Pampanini, la quale invece lo liquidò subito (anch’io ti voglio bene, gli disse, come fossi mio padre). La canzone fu indirizzata all’ex moglie con dedica personale :” Dedicata a te Diana la mia Mizzuzzina”, il nomignolo con cui la chiamava. Le parole erano nate in un ristorante di Formia, scritti su un pacchetto di Turmac, le sigarette preferite. Ne fumava 60-70 al giorno e ad esse non rinunciò mai come non si privò mai di almeno 15 tazzine di caffè al giorno, neanche quando perse l’occhio sinistro nel 1940 o quando diventò quasi ceco nel 1957.Il triste periodo attraversato dopo la rottura con l’ex moglie finì quando incontrò il più grande amore della sua vita :Franca Faldini. L’attore si era innamorato della ragazza, che aveva 33 anni meno di lui, nel 1952 vedendo una sua foto sul settimanale Oggi . Poi nacque la relazione che durò 15 anni fino alla morte di Totò. Dopo qualche anno Franca diede alla luce un figlio, Massenzio morto dopo poche ore la nascita e lei stessa si salvò per miracolo. Il bimbo fu sepolto a Napoli nella cappella dei de Curtis. In un’ intervista del 1963 a Oriana Fallaci, Totò è consapevole ormai della sua fine:” La morte è una cosa naturale e averne paura è da fessi. Io, la prima cosa che ho fatto quando ho guadagnato un poco di soldi, è stato comprarmi una cappella a Napoli per andarci ad abitare da morto. C’è già la tomba e sopra c’è incisa la data di nascita e il nome. Il giorno della morte è in bianco. No, non m’importa morire. M’importa, ecco, invecchiare.” Morì il 15 aprile 1967 a Roma e non a Napoli come avrebbe voluto. Il parroco entrato in casa chiese a Franca Faldini di uscire, trattandosi di pubblici concubini. Benedisse la salma e poi se ne andò. La mattina del 17 aprile grazie all’intervento del dentista del Papa, che ottenne una dispensa per i pubblici peccatori, nella chiesa di Sant’Eugenio alle Belle Arti, ci fu un breve funerale con la benedizione della bara posta in terra con sopra la bombetta. A Napoli in secondo funerale vide la partecipazione di tutta la città. Tre persone si sentirono male perché avevano vista la controfigura di Totò, Dino Valdi, e avevano creduto che fosse Totò. Dopo tre mesi con una bara vuota, nella chiesa situata a pochi metri della casa in cui Totò era nato, il terzo funerale voluto dalla camorra. Naturalmente è impossibile citare le sue canzoni, le sue poesie e i suoi sketch pubblicitari, le sue riviste o prendere in rassegna i suoi più di cento film, a cominciare da Fermo con le mani del 1937 ,agli ultimi episodi dei film girati da Pasolini . A proposito del quale bisogna dire che data la nota omofobia del comico il suo primo incontro con Totò non fu molto cordiale. Narra Franca Faldini che fu lo scrittore a recarsi a casa da lui vestito in giacca e cravatta. Solo che si presentò con Ninetto Davoli vestito in jeans sudici e stinti. La conversazione fatta di osservazioni banali era interrotta spesso da un mutismo imbarazzato. Quando se ne andarono il comico prese la pompa con l’insetticida e incominciò a spruzzarlo sul divano nei posti occupati dai due. La riserva era soprattutto su Davoli:”Vestito da muratore, chissà ‘stu guaglione quanti microbi se puorta ‘n cuollo. Porca miseria, i jeans zozzi mi fanno schifo. Mica dico che uno debba mettersi in frac ma almeno, se proprio l’esterofilia gli impone di portarli, che siano di bucato”. Successivamente i due stabilirono un rapporto di reciproca stima, anche perché lo scrittore affascinò il comico per la sua capacità di essere colto senza salire in cattedra. Preferiamo pertanto soffermarci sulle sue debolezze, le sue fobie, le sue battute, le sue manie. Amava esibire i suoi titoli nobiliari. Finanche il suo pappagallo era stato addestrato a chiamarlo Eccellenza e al dito mignolo portava un anello d’oro massiccio sul quale aveva inciso in uno stemma di famiglia un’araba fenice che guarda il sole sotto le colonne d’Ercole, la mezza luna e tre stelle. Sporgeva querela contro chiunque avanzasse dubi sulla sua origine aristocratica. Non avendo avuto figli maschi, fece in modo che il primogenito della figlia Liliana potesse aggiungere al suo cognome quello di de Curtis per poi fargli avere il titolo di conte di Ferrazzano. Ma sapendo anche ridere di questa sua mania, chiamò barone il suo cane lupo e visconte il suo barboncino. E poi diceva:”A pensarci bene il mio vero titolo nobiliare è Totò. Con l’altezza imperiale non ci ho fatto nemmeno un uovo al tegamino; mentre con Totò ci mangio dall’età di vent’anni “. La gelosia di Totò era al limite della follia. Portava sua moglie nei teatri dove recitava e la chiudeva in un camerino, poi metteva un foglietto nello stipite, per essere sicuro che non sarebbe uscita mentre recitava. Era solito anche cospargere una sottile patina di borotalco sul pavimento vicino la parte interna della porta di casa per controllare che non fosse entrato nessuno. Quando le permetteva di stare fuori le imponeva di stare seduta su uno sgabello, di modo che potesse controllarla dal palcoscenico. Prenotava tre posti in treno per evitare che qualcuno si sedesse vicino. Quando Diana gli comunicò di aspettare un bambino, era sicuro che l’avesse tradito ritenendosi infecondo per una malattia venerea contratta da giovane. Da buon napoletano era superstizioso. Non sopportava il tredici e il diciassette a tal punto da rinunciare ai viaggi se i posti portavano quei numeri. Detestava il viola e non prendeva decisioni il martedì e il venerdì. Scappava quando vedeva un gatto nero. Aveva paura degli jettatori, verso i quali, bisognava dimostrare , per neutralizzarli, la massima cortesia. La regola è comunque ridurre al minimo i contatti: A volte anche una stretta di mano può essere pericolosa. Frequentava maghi e chiromanti per farsi leggere la mano. Fu costretto a mettere da parte il suo spirito superstizioso quando nel 1944, durante un rastrellamento tedesco, si rifugiò dentro una tomba vuota al cimitero del Verano.Lo raggiunse poi Edoardo e passarono in quella tomba l’intera notte abbracciati l’uno all’altro. In politica si definiva “monarchico, anarchico, centrista, socialista e idealmente cristiano”. Però era nota la sua simpatia per il monarchico Achille Lauro. In ogni caso evitava di parlarne ritenendo che un attore popolare non dovesse far conoscere le sue idee politiche. Nei film mise in ridicolo personaggi appartenenti a tutti i partiti. Ricordiamo l’onorevole Trombetta di Totò a colori e il popolare de Fossi di Destinazione Piovarolo e il socialista Gorini. Ne Gli onorevoli mentre interpreta il ruolo dell’esponente monarchico Antonio la Trippa, prende in giro i rappresentanti di tutto l’arco politico. Riguardo il linguaggio Totò riesce con la sua bravura a rifare il verso a modi di dire poi entrati nel linguaggio comune. Usa spesso il nonsense ( è la somma che fa il totale), ( meglio un ambo oggi che una gallina domani); ricorre ad assurdi giochi di parole (parli come badi) (bazzecole, quisquiglie, fanfuglie, pinzellacchere) (lei dica duca, io dico dica); inverte le parole (ogni limita ha una pazienza ), ( oddio, desto o son sogno); unisce parole di significato diverso (guarda Omar, quanto è bello ), (Moet Chandon in Mo’ esce Antonio) fino a definire la pernacchia, più che uno sberleffo come molti credono, un suono, una nota musicale, una modulazione di frequenza. Passiamo ora a un argomento poco noto: Totò e la censura. Anzi fu proprio uno dei film del comico Totò e Carolina, ad essere uno dei più censurati nella storia del cinema. Al film migliore che ho interpretato diceva, hanno fatto ottantadue tagli: Hanno persino voluto la soppressione del nome del mio personaggio che si presentava dicendo Caccavallo, agente dell’Urbe. Risultava offensivo della morale del buon costume della pubblica decenza, nonché del decoro e del prestigio dei funzionari e degli agenti della forza pubblica. Dal film viene eliminata un’inquadratura in cui alcuni cantano bandiera rossa che diventa prima Inno dei lavoratori, poi una canzone partigiana Di qua e di là del Piave; i boy scout dell’Azione Cattolica, che cantavano Noi vogliam Dio e Biancofiore vengono silenziati; la frase “Sono abituata a mangiare quello che avanza ai padroni” di Carolina viene trasformata in un generico “Mangiavo quello che mi davano”; cade la battuta in cui Caccavallo dice alla ragazza di aver pensato pure lui al suicidio, ma di non averlo commesso perché ha una figlia da mantenere:” Il suicidio è roba da ricchi, il suicidio è un lusso, e noi questo lusso non celo possiamo permettere, hai capito? Siamo gente povera”.Nel film I tre ladri fu eliminata la scena in cui appare la protagonista sdraiata sul letto in sottoveste che agita le gambe in quanto offensiva del pudore, della morale e della pubblica decenza; quella in cui i gendarmi raccolgono le banconote lanciate nella sala del tribunale, in quanto offensiva del decoro e del prestigio delle pubbliche autorità. La voce fuori campo che introduceva il film dicendo: questa storia parla di ladri, di una donna infedele e di un errore giudiziario, viene cambiata in questa è la storia di un furto colossale, si tre simpatici furfanti e di una donna non esageratamente fedele. In Totò all’inferno ci sono battute da eliminare. Mentre un dannato chiede pietà protestandosi innocente, un diavolo urla ad un altro:” Ѐ un onorevole, dallo in pasto agli elettori”. Un'altra è di Totò :”Io gli agenti non li ho mai potuto vedere”. In siamo uomini o caporali? Vengono segnalate alcune battute da modificare. Tra le altre :”Ma come la sonerei volentieri questa Sonia; la segretaria che dice a Totò “sei un puro ma devi diventare anche un duro” e Totò “Farò del mio meglio”. Sorvegliare la scena dove una bella signora, nuda spalle e seni, sta distesa in attesa della massaggiatrice. In Totò e i re di Roma ai commissari che invitano a dire il nome di un pachiderma e per aiutarlo con gesti alludono alla proboscide di un elefante, Totò rispondeva :De Gasperi. La battuta venne modificata con il nome Bartali. In La legge è legge: Figurati che conosco il cognato del cugino di un portiere di un cardinale viene modificata in figurati che conosco il cognato del cugino di un portiere di un sacrestano. In Risate di gioia la battuta di Anna Magnani “Sono una manica di stronzi” viene sostituita con “Sono una manica di fessi”. In Totò , Peppino e la dolce vita viene tagliata la scena dove il comico dice :” Qui, guardati intorno, sono tutti proci. Peppino risponde me ne sono accorto. Riprende Totò :” Oggi essere Procio è un titolo d’onore. Io, per esempio, se fossi in te, dato che hai anche il fisico, modestamente, fatti Procio!”. L’elenco potrebbe continuare ancora per molto. Ѐ incredibile invece come in una scena di Totòtarzan, quando l’attrice Adriana Serra mostra il seno nudo nessuno interviene. Forse l’immagine avrà distratto pure i censori. Totò comparì anche in televisione la sua prima apparizione fu nel musichiere di Mario Riva. Durante la trasmissione però si fece scappare un Viva Lauro che non piacque ai dirigenti televisivi in quanto Lauro era monarchico e vi erano elezioni imminenti. Pertanto non venne più chiamato per anni. Tornò solo nel 1966 a Studio Uno recitò accanto a Mina. La serata restò tra i ricordi più belli della storia della televisione. Il comico fu celebrato anche con i fumetti che davano spazio alle sue più famose battute. E caricature vennero create da famosi disegnatori: Aurelio Galleppini, Hugo Pratt, Andrea Pazienza. Venne celebrato anche sulle cartoline postale e sui calendarietti profumati distribuiti dai barbieri negli anni cinquanta. Come spesso succede fu rivalutato dalla critica dopo la morte. In vita i suoi film-totòate come venivano chiamate erano, spesso, a ragione, stroncate. Anche se scrittori come Giuseppe Marotta, Mario Soldati e Ennio Flaiano, pur con delle riserve sulla produzione cinematografica, apprezzarono l’arte del comico. Fellini con riferimento ai “miracoli” che faceva nel cinema, ne proponeva paradossalmente la santificazione. In realtà per Totò fa ridere il pubblico era una missione e nel suo umorismo evitava i messaggi. “Sono controproducenti, perché inducono l’agente a pensare per capirli. E mentre pensano… non ridono più”. Secondo Goffredo Fofi c’era in lui il gusto del gesto incoerente, la rapidità delle soluzioni e delle rotture, la spregiudicatezza dell’invenzione. In fondo confermando quanto già aveva sostenuto Pasolini:”Egli è sempre inventore, è sempre un creatore, sempre un artista in qualsiasi film si trovi”.
6 aprile 2017
la manifestazione