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1945: Quelli che camminavano sulla coda della tigre di Akira  Kurosawa;
      1950: Rashomon di Akira  Kurosawa;
      1954: I sette samurai di Akira Kurosawa;
      1957: Il trono di sangue di Akira Kurosaw;a
      1958: La fortezza nascosta di Akira  Kurosawa;
      1959: Le scimitarre dei mongoli di Oshio Sugie,  sceneggiatura di  A. K.;
      1961: La sfida del samurai  di  Akira Kurosawa;
      1962: Sanjûrô   di Akira Kurosawa;
      1980: Kagemusha - L'ombra del guerriero  di Akira Kurosawa;
    1985: Ran di Akira Kurosawa.

La geografia amministrativa attuale del  Giappone è strutturata su 47 giurisdizioni che prendono l'acronimo di  Prefetture che vennero istituzionalizzate nel mese di luglio del 1871, quando il Paese era governato dall'Imperatore Meiji, a  seguito dell'abolizione della precedente struttura amministrativa nipponica  conosciuta come “han” che suddivideva il territorio nipponico in oltre  300 province.
    Gli Han erano i vasti possedimenti dei signori  feudali del Giappone, di essi si hanno notizie sin dal Periodo Edo (1603-1871) ed erano amministrati dal Daimyō (feudatario) che  a sua volta dipendevano dallo Shōgun  (comandate dell'esercito) al quale giurava fedeltà.
    Queste sono alcune delle figure istituzionali  facenti parte della storia medievale dell'arcipelago giapponese che fu  caratterizzata da diverse lotte fra i grandi signori feudali che a loro volta  disponevano di un proprio esercito privato costituito da classe di guerrieri  elitaria, quella dei Samurai.
    Tale casta seguiva un codice etico indirizzato  alla disciplina, all'onore ed alla fedeltà, una sorta di normativa  comportamentale che veniva adottata dai samurai e conosciuta come Bushidō (la  via del guerriero) le cui origini risalgono al 660 a.C. e successivamente  trova posto nella letteratura militare giapponese come quella del Kōyō Gunkan  (1616) a cura di Obata Kagenori e di seguito quella dello Hagakaure di  Tsunetomo Yamamoto. 
    Quanto descritto in apertura rappresenta alcuni  dei momenti di notevole importanza della cultura giapponese: il mondo dei  samurai, la  filosofia, la storia  feudale, il cinema di una delle icone cinematografiche più significative del XX  secolo, quindi la descrizione visiva del maestro Akira Kurosawa che diventa  storia.
  “Akira Kurosawa ed  il mondo dei Samurai” è la sintesi di quelle visioni narrative che il  maestro nipponico ci ha tramandato attraverso le letture visive dei suoi  romanzi intrisi di storia e di tradizioni.
  Tale sfera storica  rientra nel periodo del “feudalesimo giapponese” struttura politica e  socioeconomica che si snoda tra la seconda parte del XII fino alla seconda del  XIX secolo, quando con la fine della guerra civile di Boshin (1868-1869) si da  inizio alla occidentalizzazione del Paese.
  Ha aperto i lavori  Gianni Aiello, presidente del Circolo Culturale “L'Agorà” che ha ringraziato i  presenti all'incontro e tutti coloro che hanno dato la possibilità di ospitare  la manifestazione “Akira Kurosawa ed il mondo dei samurai” all'interno del  Centro Sportivo “La Pagoda” e non per ordine d'importanza l'Ambasciata del  Giappone che ha ritenuto opportuno concedere l'Alto Patrocinio a tale incontro,  che, come da intenti del sodalizio organizzatore vuol rappresentare l'inizio di un percorso indirizzati a gettare le  basi per un “ponte culturale” tra i due territori.
    «Oggi  in questa sede – afferma Gianni Aiello – sono presenti alcune di quelle  tradizioni che il maestro Akira Kurosawa ci ha tramandato attraverso le storie  cinematografiche, che mi permetto di definire, come dei dipinti in movimento,  caratterizzati da diversi elementi: filosofia, letteratura, storia, religione.
    Con la scelta di “Akira Kurosawa ed  il mondo dei Samurai”  si è voluto  collocare alcuni momenti di notevole importanza della cultura giapponese: il  mondo dei samurai, la  filosofia, la  storia feudale, il cinema di una delle icone cinematografiche più significative  del XX secolo. 
    Quindi la descrizione visiva del  maestro Akira  Kurosawa che diventa  storia».
    Dunque tante visioni narrative che  Kurosawa  sintetizza nel suo pensiero  come l'insieme di  “molte altre arti; così come ha  caratteristiche proprie della letteratura, ugualmente ha connotati propri del  teatro, un aspetto filosofico e attributi improntati alla pittura, alla  scultura, alla musica”.
  L'ultima  parte dell'intervento di Gianni Aiello è stata dedicata a due elementi relativi  al tema in argomento quali quelli relativi all'aspetto:
Il primo  fattore riguarda il sakura – il ciliegio: icona adottata da tutte le arti  marziali.
    Esso  venne utilizzato per la prima volta proprio dai samurai: esso rappresenta la  bellezza e l'incertezza della vita.
    Il  ciliegio durante il periodo della fioritura assume dei colori, emana dei  profumi, quindi uno spettacolo nel quale il samurai vedeva proiettate le  proprie capacità di combattimento.
    Mentre  l'incertezza si riferisce quando un peggioramento delle condizioni atmosferiche  possa rovinare l'architettura floreale che la natura ha regalato, così come un  samurai può essere ucciso durante la battaglia.
    Il  samurai quindi abituato a  pensare alla  morte nello scontro non come un fatto negativo ma come l'unica maniera  onorevole di andarsene, rifletté nel fiore di ciliegio questa filosofia. 
    Un antico  verso  recita nella sua traduzione:  "tra i fiori il ciliegio, tra gli uomini il guerriero" - (Come  il fiore del ciliegio è il migliore tra i fiori, così, il guerriero è il  migliore tra gli uomini). Il sakura era venerato;
A riguardo  l'ultimo aspetto c'è da ricordare la vasta letteratura dell'accademico  britannico prof. Stephen Richard Turnbull, tra cui tre manifesti bibliografici  in lingua italiana di cui i primi editi per Fratelli Melita “La battaglia dei  samurai” e “I guerrieri samurai” ed il recente “Osaka 1615. L'ultima battaglia  dei samurai” per la Editrice Goriziana.
    Gianni  Aiello conclude facendo cenno ad alcune battaglie, tra le quali:
Ed infine  alla  guerra civile di BOSHIN - guerra dell'anno del drago –  (1868-1869).
    Essa si  combatté tra i difensori della causa dello shogunato Tokugawa e le forze fedeli  all'imperatore Meiji che ebbero la meglio, e tale vittoria portò alla fase  dell'occidentalizzazione del Giappone. 
    Dopo  l'intervento di Gianni Aiello, l'attenzione è stata rivolta al tema “Il mondo  di Akira Kurosawa” a cura di Tonino De Pace, presidente del Circolo del cinema  “Zavattini” che ha trattato l'aspetto cinematografico relativo al periodo dei  samurai.
    Akira  Kurosawa, sicuramente il più famoso e titolato regista giapponese, ha  realizzato 31 film, ha vissuto 88 anni e ha interpretato l’anima profonda del  Giappone senza trascurare la sua attrazione per l’occidente della cui cultura è  stato profondo conoscitore. Il cinema di Kurosawa ha attinto a piene mani  quindi dalla tradizione nipponica, lavorando sui grandi temi che si svolgevano,  spesso, su grandi scenari e sempre e comunque su quel grande palcoscenico  che è la vita, essendo il cinema del grande  autore strettamente legato ai temi determinanti dell’esistenza. Il suo era un  cinema di emozioni profonde, di dubbi, di lacerazioni dell’anima, coltivato  dentro la grande storia del suo Paese o disperso tra le pianure arse della  steppa siberiana, oppure giocato dentro una baraccopoli.  In ogni caso e qualunque fosse il suo  personaggio ricco o povero, signore o plebeo, il suo cinema era umanissimo,  tanto da spingere alcuni storici del cinema a definirlo come il maggiore  esponente di quel “realismo umanistico” che pone al centro dell’azione e della  narrazione l’uomo dentro il suo ambiente naturale. Ispirato dalla tragedia e  dall’impianto shakesperiano, Kurosawa ha ricercato dentro questa struttura così  complessa, la verità e l’essenza umana. 
    Sono queste  le ragioni che spingono a considerare Akira Kurosawa come un interprete  irripetibile della vicenda cinematografica. I suoi personaggi completamente  inseriti in un ambiente orientale, per cultura e comportamenti, sono il  risultato della combinazione tra questi due elementi, ma possiedono innegabili  derivazioni anche dalla tradizione culturale occidentale come ad esempio  Macbeth o il Kagemusha dal limpido sapore pirandelliano. Il loro scenario  d’azione è però, almeno nei film in cui emerge la figura del samurai, quello  dei fondali medioevali della storia giapponese, la dove le lotte tra i clan  erano cruente e dove la razionalità vince sempre sulla forza fisica. Il cinema  di Kurosawa era fatto di questi ingredienti, di questa pasta, di questa forza  che diventava universale e come tale diveniva linguaggio comune e condiviso. Il  suo cinema è diventato ora storia, ma si tratta di storia per l’appunto  condivisa tra tutti i pubblici di tutto il mondo e il suo cinema è talmente  vicino alla complessità della vicenda umana che è solo sufficiente conoscerlo  appena per innamorarsene per sempre.
    La sua  ascendenza era nobile e apparteneva ad una stirpe di samurai. I samurai erano  guerrieri al servizio di un signore o comunque erano da questi protetti e  costituivano una sorta di esercito privato che scendeva in battaglia per  difendere i diritti del proprio dominus. Era l’epoca del Giappone  feudale e il samurai rappresentava comunque una casta di aristocratici, della  nobiltà guerriera e di illuminati detenendo la conoscenza e la sapienza. La  perdita della fiducia da parte del signore o la sua morte riduceva il samurai  alla qualifica di Ronin. Il significato è quello di un uomo libero da vincoli,  ma il senso è dispregiativo, tanto che proprio i Ronin si resero protagonisti  di saccheggi e di atti barbarici inqualificabili. Quando al volgere della modernità,  intorno al tardo XIX secolo, venne abolita la casta dei samurai si creò  l’esercito giapponese secondo le comuni regole internazionali.
    Nel cinema di Kurosawa, per discendenza, ma più  credibilmente per propria cultura i samurai sono spesso protagonisti delle  storie, rimarcando non soltanto il tratto razionale proprio della tradizione  zen che praticavano, ma le doti di coraggio, altruismo e dedizione che è stato  proprio di quella casta di guerrieri. Si perché i samurai erano dei guerrieri,  non ci sono mezze misure per delineare i tratti e la figura del samurai, così  come appare contornata dalla messa in scena kurosawana, è perfettamente  aderente a questa tradizione. 
  I sette  samurai (1954),  ma prima Gli uomini che mettono il piede sulla coda di tigre (1945), Rashomon (1945), Il trono di sangue (1957), La fortezza nascosta (1958), Le scimitarre dei mongoli (1959), Yoimbo – La sfida del samurai (1961), Sanjûrô (1962), Kagemusha – L’ombra del guerriero (1980), Ran (1985),  sono i film diretti dal grande maestro giapponese che entrano nel vivo della  storia del suo paese, ripetendone i toni e ambientando all’interno di dinamiche  belliche i temi universali dell’esistenza umana. Dentro queste storie viaggiano  anche i temi a lui cari del samurai portatore di coraggio ed esempio di nobiltà  di sentimenti.
    Ma il cinema di Kurosawa è anche maschera del reale, nel  doppio senso di film che mette in scena una storia in cui il travisamento delle  identità è l’oggetto della narrazione e di un cinema che veste i panni di un lontano  medioevo nipponico per raccontare una storia di una fuga e invece è solo la  maschera per parlare di senso di devozione, senso di appartenenza, nobiltà di  sentimenti e senso estremo del dovere. È il caso del breve e denso Gli  uomini che mettono il piede sulla coda di tigre. Un film in cui è esemplare  la capacità sintetica della scrittura di Kurosawa che dispone i suoi personaggi  come su un palcoscenico esaltando le doti di arguzia e devozione del samurai  nei confronti del suo signore in un gioco di trappole e sotterfugi.
    Un cinema, quello di Akira Kurosawa che ponendo al centro le  vicende umane della giustizia, dell’uguaglianza e della lotta alla  sopraffazione, temi dunque universali, radicando questi argomenti dentro le  storie di un Giappone mitico e lontano e quindi senza tempo, ha offerto  l’occasione agli autori che hanno proseguito dentro questo stesso solco, di  replicare, adattando le storie agli scenari dell’immaginario cinematografico. È  proprio dentro questo sviluppo drammaturgico che le storie di Kurosawa  diventano in qualche misura eterne. Ritroviamo i suoi personaggi, soprattutto  nel cinema western, luogo dell’immaginario per eccellenza, scenario mitico del  cinema e cinema essenziale esso stesso. È così che film come I sette samurai o Yojmbo-La sfida del samurai sono diventati I magnifici sette di  John Sturges del 1960 e Per un pugno di dollari di Sergio Leone del  1964. Il cinema di Kurosawa lavora per archetipi, personaggi totali che danno  corpo e voce ad un sentimento. Il samurai rappresenta sempre la rettitudine e  l’onestà, la violenza caso mai, ma sempre in difesa dei deboli. In questo senso  vanno lette le storie di I sette samurai e del successivo Yojmbo-La sfida del  samurai. In questi due film i samurai sembrano perdere quell’aura di nobiltà  guerriera che costituisce il loro retaggio culturale. 
    Il primo film è il grande capolavoro riconosciuto del  regista giapponese. Film che ha sofferto di mutilazioni varie, fino ad  arrivare, completo nella versione di oltre tre ore, quella che aveva in mente  l’autore, solo nel 1980. è la  storia di un manipolo di samurai che vengono assoldati dai contadini di un  villaggio per difenderli dalla preannunciata aggressione di un banda di  predoni. Il primo samurai ritiene necessario avere altri sei uomini d’armi e  così dopo una lunga ricerca il piccolo, ma agguerrito esercito, è pronto a dare  battaglia e soprattutto ad addestrare i paurosi contadini. Tra i samurai c’è  anche Kikuchiyo interpretato da Toshiro Mifune, che finge di essere un  guerriero, ma in effetti è solo un coraggioso contadino che all’inizio sembra  timido e servizievole, ma quando acquista sicurezza diventa spaccone e spavaldo  ed esibisce una certificazione rubata dalla quale risulterebbe la sua natura  nobile. Ma è un personaggio in fondo ingenuo, generoso che comprende il punto  di vista dei contadini, perché proviene da quelle famiglie. La sorpresa per  questo ennesimo travestimento nelle storie che Kurosawa ha dedicato ai samurai,  per la cultura giapponese diventava un fatto eccezionale e ardito. La  tradizione nipponica, infatti, ha grande rispetto per la stirpe dei samurai e  quindi lasciare che un personaggio del popolo possa interpretarlo costituisce  una infrazione delle regole. Il personaggio, però, ha un’utilità nell’economia  narrativa di Kurosawa ed è quella di far diventare Kikuchiyo un tramite tra le  due classi. 
    La grande orchestrazione registica in questo film è quella  dell’epica scena della battaglia finale. Qui il valoroso drappello di samurai  sarà decimato, ma risulterà nonostante la sottile ingratitudine dei contadini  che costituirà una ennesima dimostrazione della meschinità dell’animo  umano.  
    È proprio la nobiltà d’animo, ma non soltanto quella, che  contraddistingue i samurai che anche nel portamento traducono e manifestano  l’audacia che li accompagna. La loro imponenza, il loro ardito e fiero  incedere, ne fanno figure classiche di antichi guerrieri, basterebbe ricordare,  a questo proposito, le ultime immagini di La sfida del samurai con  Toshiro Mifune, attore feticcio per il maestro giapponese, che, schiena dritta,  dopo avere sistemato le questioni nel villaggio dove era capitato, riparte per  una nuova avventura. La vocazione del samurai, così come ci viene raccontata  dall’arte di Kurosawa è quella di un paladino della giustizia, quella figura  simbolica, donchisciottesca, nel modo in cui si accinge a mettere in atto una  sfida che sembra impresa impossibile per chi coltiva le doti di rara e  comprovata onestà. 
    Disponibile ad aiutare il prossimo con atti di generosità  non richiesti, ma spontanei, come avviene in La sfida del samurai quando il  protagonista aiuta economicamente la famiglia vittima dei soprusi di una delle  bande rivali che spadroneggiava nel villaggio.
    Il samurai diventa l’ideale dell’eterna lotta del bene  contro il male, del debole contro il forte, del diseredato contro il padrone.  Ma tutto accade a suon di fendenti, di katana, la spada ricurva e affilatissima  del samurai con la quale Toshiro Mifune sempre in La sfida del samurai amputa,  con i suoi colpi, braccia e gambe, uccide e scioglie i nodi fittissimi e impone  la sua idea di uguaglianza e di convivenza. In questa prospettiva si riafferma  la natura guerriera dei samurai che resta una costante del cinema del regista  giapponese e ingrediente ineludibile di una cultura tanto gentile e compunta,  quanto propensa ad atti di estrema violenza verso se e verso gli altri da  risultare, a volte, eccessiva e disturbante. Ma in Kurosawa tutto questo non  c’è e la guerra, la violenza sono soltanto il mezzo per ristabilire l’ordine  delle cose e non lo scopo dell’esistenza.     
    Il film forse più immediatamente  riconducibile al nome di Kurosawa e che ha permesso l’universale riconoscimento  autoriale per Kurosawa e che insieme a I sette samurai è considerato come il  suo capolavoro è Rashomon del 1945. 
    Il film, dal deciso sapore  pirandelliano, così come molti anni dopo lo sarebbe stato Kagemusha – L’ombra  del guerriero, è la storia di un omicidio che avviene nel bosco e che sembra  non avere testimoni, ma invece molti sono quelli che hanno visto i fatti, ma le  versioni sono differenti e ognuno di essi ha visto il verificarsi degli  avvenimenti in modo differente. Tutto ciò rende più difficile l’accertamento  della verità. 
    Nel film il samurai è la vittima  e la moglie è vittima della violenza carnale. Rashomon è il trionfo  della menzogna paludata da verità, è l’esaltazione di una stratificazione  narrativa che si duplica o si triplica per conferire a quella ricercata verità  un’oggettività che non potrà mai essere raggiunta. In questo senso Kurosawa compie,  senza poterlo sapere, ma con la consapevolezza dell’artista narratore,  un’operazione si direbbe oggi ipertestuale quando i racconti dei suoi  “testimoni” introducono eventi e fatti già raccontati da altri. È questo il  cuore di un film complesso eppure basato su fondamenta così semplici come  quello di una deposizione testimoniale di un fatto di cui si è stati diretti  osservatori. 
    Il dramma storico, largamente  frequentato da Kurosawa, ha dunque costituito una delle principali strutture  portanti dell’intera produzione del regista giapponese. Oltre ai film già  citati e quasi tutti appartenenti a questo genere, altri compongono la  filmografia di Kurosawa legata alle vicende dei samurai.  Il trono di sangue del 1957, La  fortezza nascosta del 1958, Le scimitarre dei mongoli  di un anno successivo, Sanjûrô  del 1962, Kagemusha – L’ombra del guerriero  del 1980 e Ran del 1985,  costituiscono altrettanti pezzi rilevanti della pregevole opera del regista. 
  Il trono di sangue è una  ennesima riduzione del Macbeth scespiriano. I cui temi universali  sembrano non trovare limiti in una reiterazione della sua messa in scena al  cinema o al teatro. Kurosawa ha utilizzato gli stili del teatro del No per  costruire una tragedia che reinventa Shakespeare per trovare un posto nella  tradizione culturale del paese nipponico. Kurosawa per questo film ebbe a dire: Ho dimenticato Shakespeare e ho girato il film come se fosse una storia del  mio Paese.
    La straordinaria capacità di  Kurosawa di raccontare il male e il film di cui si è appena detto ne è un  esempio lampante, aveva portato un produttore che aveva pensato alla  realizzazione della Divina Commedia, di affidare proprio al maestro  giapponese l’episodio dell’Inferno. Non vi è dubbio che la sua genialità ha  sempre saputo mettere in scena una sorta di ambiente infernale e spesso i suoi  film sono popolati da inquietanti figure che ricordano gli inferi. Si porta  l’accento su questo tema perché un altro film di matrice scespiriana diventa,  nel suo sviluppo un una caduta dentro il gorgo infernale. Ran il cui  titolo, intraducibile, assomiglia alle parole caos, rivolta, tumulto, è un film  del del 1985 ed è ispirato al Re Lear del grande autore inglese, ma  Kurosawa attinge a quella storia per raccontare la sfrenata ambizione dei figli  del re che porteranno il loro padre alla follia dentro uno scenario prima  luminoso e poi gradatamente incupito e minaccioso. Sarà proprio il re, ormai  deciso a rifugiarsi nel castello, ad ascoltare le parole di chi gli grida:  “Affrettati pure, il cielo è lontano ma l’inferno è vicino.” 
    Anche in Kagemusha – l’ombra  del guerriero Kurosawa lavora dentro le trame oscure di un medioevo ricco  di tradimenti e segreti patti tra i clan dominanti. È la storia di un povero  ladro che dovrà impersonare un condottiero alla guida di un esercito di 25.000  samurai. Il film, che si avvale di un pittorico uso del colore, così come il  successivo Ran si distingue per la fluidità delle scene di massa e se  anche manca la presenza dell’attore feticcio di Kurosawa, il fido Mifune, il  film resta una prova decisiva per la carriera di Kurosawa che per non averlo  potuto realizzare negli anni precedenti tentò il suicidio. Grazie ai dollari  americani di Coppola e Lucas il film nel 1980 vide la luce.
    In questi film, anche se non  direttamente, attraverso un personaggio che impersoni il guerriero, Kurosawa  racconta il medio evo giapponese, mettendo in rilievo i forti sentimenti umani  dentro un percorso che non prescinde dai principi che i samurai professavano  con i loro comportamenti.
    Completano l’opera sul medioevo,  con i suggestivi legami con l’epopea d’oro della cultura dei samurai La  fortezza nascosta del 1958, Le scimitarre dei mongoli  del 1959 e Sanjûrô  del 1962.
    Il primo è una storia molto  simile a quella di Gli uomini che mettono il piede sulla coda di tigre.  Anche qui il samurai, interpretato da Toshiro Mifune, deve portare in salvo la  giovanissima principessa e il suo tesoro. Riuscirà nell’impresa adoperando le  armi dell’astuzia e del buon senso aiutato da due popolani che lo guidano.
    Una storia fratricida è invece Le  scimitarre dei mongoli. Il fratello ambizioso e cattivo accusa l’altro di  avere rubato il tesoro. La fuga di quest’ultimo che lo trasformerà in un Robin  Hood orientale e la storia finirà con la vendetta e la giustizia nei confronti  di chi l’ha costretto alla fuga. Anche in questo film l’attore feticcio Toshiro  Mifune accompagna il lavoro di Kurosawa.
    Il samurai Sanjûrô riuscirà  a risolvere con l’arguzia le faide che serpeggiano dentro i clan feudali.  Ancora una volta la fedeltà e la violenza per fini di giustizia farà trionfare  i sentimenti dei buoni su quelli dei cattivi. Il film è l’esplicito sequel di La  sfida del samurai.
    Un cinema  ricco di spunti narrativi e di riflessioni etiche, un cinema solido,  culturalmente elevato eppure dal pieno sapore popolare proprio in relazione  alla piena e semplice comprensibilità delle sue storie. Un cinema come pochi  hanno saputo realizzare e come solo Akira Kurosawa ci ha saputo mostrare.
    È stata la volta di Riccardo  Partinico (maestro di karate 6° dan) che ha trattato il tema “Dal Bushido agli  sport di combattimento”. Sono stati esaminati i passaggi storici a riguardo  tale tema e nelle specifico da quelli prettamente militari a quelli  squisitamente sportivi. La conoscenza della filosofia del Bushidō rappresenta la chiave di  lettura della storia e della cultura classica del Giappone ma anche il  passaporto utile ad una migliore comprensione di quello attuale. “La via del  guerriero” è una combinazione di etica comportamentale paragonabile al codice  di condotta in vigore nella sfera geografica del vecchio continente europeo  durante l'epopea cavalleresca. 
  Il  contenuto del “dō” utilizzato dal ceto elitario dei samurai ha radici antiche,  alcuni studiosi lo fanno risalire al 660 a.C., e tale codice si trasmise oralmente  tra le generazioni dei samurai le cui regole vennero in seguito raccolte da  Yamamoto Tsunetomo e successivamente pubblicate da Tsuramoto Tashiro nel saggio  “Hagakure”.
  Nella  sfera del bushidō sono contenuti i principi  fondamentali dell'ethos deontologico dei guerrieri del sol levante che hanno  avuto un ruolo importante nella società giapponese medievale e tali norme hanno  cementato la struttura caratteriale della società giapponese.
  Gli  indirizzi di questo codice filosofico li ritroviamo nelle arti marziali, come  ad esempio la lealtà durante il combattimento, rispetto per l'atleta avversario  ma anche deferenza nei confronti del maestro. 
  Ed  a tal proposito, risulta fare cenno a quanto viene riportato nel manifesto  letterario dell“Hagakure” e cioè che «... quando la spada si spezza, si  usano le mani ...»: tale considerazione ci indirizza alle tecniche delle arti  marziali.
  L'arte  dell'Aikidō fune da spartiacque con tale osservazione in quanto viene praticato  sia con le armi bianche tradizionali sia a mani nude, mentre a riguardo la  prima parte della definizione in argomento   relative all'uso della spada quali il Kendō,il Kenjutsu, lo  Iaidō, lo Iaijutsu, il Jodō, invece “...  quando la spada si spezza, si usano le mani ...” troviamo il Jujitsu,il Karate, il Judo,  il Taekwondo: queste alcune delle attività sportive  praticate senza l'uso delle armi.
  A riguardo  l'uso delle armi adoperate dai samurai c'è da evidenziare che il loro  armamentario era alquanto variegato che si differenziava a secondo del periodo  storico ed anche della classe sociale al quale essi appartenevano. 
  Tra le  tante armi usate si ricordano:
Nella parte conclusiva della sua esposizione Riccardo Partinico ha  ricordato ai presenti l'attualità di essere samurai ed il loro codice d'onore,  il Bushido “è rimasto sempre vivo fino ai giorni nostri, dignitosamente e'  adottato soprattutto da chi pratica sport di combattimento: karate, Judo e  Aikido. Noi, dirigenti sportivi ed insegnanti tecnici di queste discipline  siamo tutti Samurai. Infatti, siamo al servizio dei giovani, delle famiglie e  della società civile. Aiutiamo i giovani ad affrontare la vita e contribuiamo  con le famiglie e le istituzioni scolastiche allo sviluppo della personalità ed  alla formazione dei ragazzi che saranno i futuri cittadini. Questo, appena  narrato, e' un esempio di cosa significa essere un Samurai”. 
    Gerardo  Gemelli, presidente regionale FIJLKAM  ha  trattato il tema relativo al progetto “Karate Calabria nel mondo” nato il 1°  maggio 2004 ed avente come scopo di avvicinare i popoli attraverso lo sport ma  anche di diffonderne i principi ed i valori insieme a quelli della cultura  calabrese. 
    Si tratta  in buona sostanza di un  Movimento  Sportivo Calabrese, costituito dagli Atleti di alto profilo agonistico del  C.T.R. (Centro Tecnico Regionale) e dai dirigenti regionali della FIJLKAM -  Settore Karate. 
    Gerardo  Gemelli  ha illustrato i presenti un  breve escursus relativo alle manifestazioni alle quali il movimento “Karate  Calabria nel mondo” ha partecipato citando ad esempio Los Angeles, Ankara, ma  anche incontri istituzionali con personalità di alto livello come il dott.  Winston Spadafora, attuale Magistrato Della Suprema Corte di Giustizia di  Panama e già  Ministro dell’Interno e della Giustizia e non per ordine  d'importanza con il dottor Jens Daehner, dell’Associate Curator of Antiquities,  il dottor Peter Evans assistant to the Senior Curator of Antiquities Department of  Antiquities, diversi esperti del J. Paul Getty Museum di Los Angeles.
    In  conclusione il presidente regionale della FIJLKAM Gerardo Gemelli si è complimentato  con il Circolo Culturale “L'Agorà” per la buona riuscita della manifestazione,  confermando nel contempo, la sua disponibilità ad altre iniziative future.
    La seconda  parte della manifestazione sulla cultura giapponese è stata caratterizzata da alcune  dimostrazioni di arti marziali, tra le quali quella di kendo proprio per  onorare il famoso regista Akira Kurosawa, che ne era un appassionato.
    Il  pubblico presente ha potuto assistere, come da programma, alle esibizioni di kendo a cura di  Angelo Surfaro (maestro di arti marziali, cintura nera 5 dan) e Mario Battaglia  (atleta).
    Successivamente  a quelle di karate con  una di kata a  cura di Marika Familari (atleta) ed una di kumite con Alessandra Benedetto  (pluricampionessa italiana) e Roberta Romanazzi
    (atleta).













