Ritorna in riva allo Stretto la nuova programmazione dei "Pomeriggi Culturali".
La serie di appuntamenti organizzati dal Circolo Culturale "L'Agorà" in collaborazione con la Biblioteca Comunale “Pietro De Nava” di Reggio Calabria ed i laboratori di ricerca del sodalizio reggino, dal gruppo di ricerca Mnemos, dal centro studi “Gioacchino e Napoleone” e Centro Studi italo-ungherese “Árpàd”.
Si tratta in buona sostanza di una serie appuntamenti a cadenza mensile e dai variegati aspetti.
Il primo incontro tenutosi presso la sala conferenze "Diego Vitrioli" della Biblioteca Comunale "Pietro De Nava" di Reggio Calabria si è basato sul tema del carnevale e delle sue articolazioni antropologiche.
Il tema del primo incontro dei "Pomeriggi Culturali" ha avuto come titolo "Carnascialia: il carnevale in Calabria" ed in buona sostanza l'argomento in questione è stato estrapolato dalla tesi di laurea dello stesso relatore Orlando Sorgonà.
Nelle breve note introduttive il Presidente del Circolo Culturale "L'Agorà" ha evidenziato ai presenti alcune delle caratteristiche del carnevale in relazione agli aspetti musicali come ad esempio la samba e ciò che caratterizza tale evento in Sud America, vedi Rio de Janero.
Ma anche quelli relativi agli aspetti prettamente teatrali come quello di Venezia ma anche quelli che prendono spunti da situazioni storiche, quello di Mohács, nella parte meridionale del Danubio.
Esso, continua Gianni Aiello, prende spunto dalla omonima battaglia che si svolse il 29 agosto 1526, i cui risultati sancirono la sconfitta dell'esercito magiaro nei confronti di quello turco.
Da quelle conseguenze storiografiche trae origine questa festa popolare che rappresenta l'appuntamento più spettacolare e seguito sul territorio ungherese, tanto da creare un forte flusso turistico proprio nella città meridionale magiara.
Narra la leggenda che a seguito della battaglia del 29 agosto 1526 gli abitanti di Mohács, per sfuggire ai soprusi dei Turchi, si rifugiarono nelle paludi circostanti.
Successivamente, sempre secondo la leggenda, uscirono dai loro nascondigli ed indossando maschere dai tratti somatici alquanto sinistri ed emettendo strani suoni da strumenti musicali misero in fuga i Turchi.
C'è da evidenziare che le prime notizie in merito a tali festeggiamenti popolari risalgono alla fine del XVIII secolo.
Essi hanno origine serba visto che tale popolazione ebbe il merito di introdurre questa usanza proveniente dall'area balcanica.
Dopo essersi brevemente soffermato sulle caratteristiche e sulle origini del carnevale di Mohács, Gianni Aiello da altri brevi cenni storici sugli altri eventi carniascialeschi, come quello di Venezia del quale si ha memoria sin dal 1094, come testimoniato da un documento redatto da Vitale Falier, Doge della Serenissima.
Ma c'è da evidenziare che il carnevale ha radici lontane sia temporali, geografiche ma anche sotto gli aspetti relativi al significato proprio del termine.
Il suo etimo secondo alcuni studi va accostato al termine “Carnalia” la cui radice è collocata alle feste latine dedicate a Saturno che si svolgevano nei mesi di marzo e dicembre , mentre altre celebrazioni nell’antica Roma erano riservate a Bacco, ulteriori festeggiamenti erano riservati a a Cerere e Proserpina e si svolgevano durante la notte.
Dopo tali riferimenti di carattere generale la parola passa ad Orlando Sorgonà che ha esordito parlando delle motivazioni e delle tradizioni di tale festa che non conosce confini.
Una constatazione che sotto varie forme è stata espressa, da coloro che si sono accostati allo studio del Carnevale, è che esso rappresenta, più che qualsiasi altra forma tradizionale, una struttura aperta ed elastica, suscettibile di inglobare, di volta in volta, elementi di provenienza diversa.
E’ risaputo, d’altro canto, che il Carnevale rappresenta la più grande, e talvolta l’unica festa, tradizionale, non direttamente gestita dalla struttura ufficiale della Chiesa: è la festa in assoluto, e non meraviglia perciò che essa si trasformi in uno spazio festivo in cui possono confluire comportamenti cerimoniali d’ogni genere e dalle provenienze più disparate, calendariali e non, integrandosi in vari modi. Per converso, elementi tipicamente carnevaleschi sono stati, per così dire, ceduti a complessi cerimoniali propri di altri momenti del ciclo annuale.
Il Carnevale è una di quelle ricorrenze che la macchina del progresso sembra aver inesorabilmente macinato nelle sue spire, restituendolo in una versione contraffatta, e forse necessariamente modificata in Calabria.
Il Carnevale più autentico affonda le radici nel mondo contadino o pastorale italico, in una società che esprimeva nelle feste e nelle altre manifestazioni le realtà e i miti di uomini che vivevano in mezzo a una natura aspra in condizioni di povertà e di rischi di varia natura.
Il Carnevale pastorale ha soprattutto ascendenze bacco-dionisiache [1] perché l’elemento orgiastico rispondeva alla temporanea liberazione alla dura e solitaria vita tra i boschi, dalla quale traeva i simboli (flauti, zampogne, vino) e di cui rappresentava azioni assegnate alla divinità.
Un residuo di antichi rituali, di origine magnogreca, si conservava ancora fino all’inizio del ‘900 nei paesi del Cosentino, dove negli ultimi giorni di Carnevale, che succedono appunto, quasi sempre nel mese di febbraio, si trascorreva parecchio tempo in reciproci banchetti con l’uso delle maschere e delle danze, commemorando pure i loro morti [2] .
Ad Altomonte per tale ricorrenza si dava larga copia di elemosine ai poveri [3].
A Lago, per l’occasione della funzione religiosa dei morti (la chiesa greca, celebra la commemorazione dei morti il sabato della settuagesima, penultima settimana di Carnevale), si erigeva nella chiesa un catafalco sul quale la gente pietosa portava e depositava in suffragio dei trapassati, uova, frutta, focacce e cose simili [4] .
Nei villaggi albanesi, soprattutto in quelli dove si praticava il rito greco, si distribuivano ai poveri pane e grano bollito [5] .
A Cosenza si preparavano focacce e insalate di rito, dette dei morti; ma quest’usanza da Carnevale fu anticipata alla commemorazione solenne del 2 novembre [6].
Anche i Greci celebravano la commemorazione dei morti nel mese di febbraio, il mese delle purificazioni e delle espiazioni, durante le feste delle Antesterie [7], facendo sulle tombe offerte di cibi e vini [8] .
Si credeva che in quei giorni i trapassati uscissero dalle loro dimore, ansiosi di quelle vivande, e che nel Tartaro fossero sospesi i castighi dei colpevoli [9] .
Compiuto il rito funebre ci si dava all’allegria che il giorno seguente sfociava in danze, canti, visite e banchetti fra parenti e amici, per rafforzare gli affetti e godere della vita innanzi allo spettacolo della morte.
Tra i fanciulli che prendevano parte alla festa ve ne erano pure alcuni che andavano travestiti da baccanti, satiri, ninfe ed altri personaggi mitici del seguito di Bacco [10].
E' interessante notare come anche in altre tradizioni di civiltà lontane le feste periodiche di inizio ciclo sono connesse col ritorno dei defunti.
La festa Milamala, delle Isole Trobriand, vede il ritorno dei morti, affamati e minacciosi.
Viene sospeso il lavoro, e le sole attività consentite sono la danza, l’orgia alimentare e l’orgia sessuale.
E’ un epoca di licenza e di terrore indotto dai sogni e dalle visioni di morti affamati: la festa termina con l’espulsione dei morti affamati, ricacciati alla loro dimora lontana al grido di “Andatevene, o spiriti! Lasciateci soli!”. [11]
Nella festa Miaus dei Baining della Nuova Britannia ritornano dai boschi i Kavat, mascherati e coperti di foglie, a spaventare e perseguire gli uomini. I Kavat sono creature malefiche della foresta, “che nessuno può guardare senza perdere il senno e senza smarrirsi nel bosco”. [12]
Nella festa Tabu della Nuova Guinea ritornano i morti e gli spiriti tabu, che “si parano innanzi al viandante ostacolando il cammino e urlando.
Producono morte e malattie. Narra il mito che gli spiriti tabu fecero prigionieri gli uomini e prescrissero loro di eseguire la festa omonima” [13] .
Le usanze magnogreche e latine si contaminarono ben presto, in Calabria, con quelle bizantine.
Esiste infatti in tutte le tradizioni liturgiche delle chiese orientali, siano esse di matrice alessandrina che di matrice antiochena, un periodo di digiuno, collocato prima dell’inizio della grande quaresima, in ricordo della predicazione del profeta Giona e della conversione degli abitanti di Ninive [14] .
Nella chiesa Siro-occidentale, comunità religiosa di fede monofisista, esso ha luogo il lunedì, il martedì e il mercoledì precedenti la nona domenica prima di Pasqua (l’antica settuagesima dei latini) e viene chiamato Rogazione dei niniviti o digiuno dell’indizione [15].
Si tratta, in pratica, di un breve periodo penitenziale e di un giorno festivo seguente, considerati come anticipazione e preannuncio del digiuno quaresimale e delle feste pasquali, dato il significato cristologico che da tutte le chiese orientali viene attribuito alla vicenda del profeta Giona.
Questo concetto di anticipazione delle feste pasquali, in epoca imprecisata, ma in ogni caso molto tarda, passò in ambiente bizantino.
A Costantinopoli, però, non vennero importati gli usi penitenziali, che presso le altre chiese orientali precedevano la Pasqua.
Anzi durante questo periodo non si digiunava e non si faceva astinenza in nessun giorno, a somiglianza delle settimane seguenti Pasqua e Pentecoste [16]; si organizzavano invece delle feste che nella cultura dei villaggi, data l’origine popolare di quelle usanze assunsero tutte le connotazioni del Carnevale della tradizione occidentale.
Questi usi entrarono anche nel calendario della chiesa greca dell’Italia meridionale (si ricordi che la Calabria apparteneva al patriarcato di Costantinopoli).
Assenza di astinenza e di digiuno, baccanali, licenziosità, conviti collettivi, maschere, canti e balli, ai quali prendevano parte tutti i membri della comunità locale, preti e monaci compresi, divennero le componenti del rituale che caratterizzava la settimana precedente il progressivo inizio delle penitenze quaresimali e sono attestate almeno dal secolo XV in poi.
Sappiamo, anzi, che in quei giorni l’archimandrita del monastero di San Giovanni Theristi di Stilo (RC), per altro noto per i suoi costumi poco morigerati, «in carnisbrivio tingebat sibi faciem et postea ibat per casale faciendo: “Bu bu bu” » [17] .
La festa di Carnevale in Calabria, ha quindi origine da diverse tradizioni che si vennero incorporando nel profondo tessuto etnico locale.
I rituali dell’incoronazione, del processo, del testamento, della morte, del bruciamento di Carnevale - che variavano da zona a zona, da paese a paese - riconducono ad antichi riti agro-pastorali di inizio anno, di rinascita della natura, di passaggio da una stagione all’altra, in cui centrale era il rapporto con i morti e con le divinità sotterrane.
Ancora oggi a Luzzi, in provincia di Cosenza, rimane la processione di “nannuzzu carnulivaru”, l’antico rito funebre che celebra la morte di Carnevale.
Il fantoccio, che impersona tutto quello che è vecchio e che rappresenta il male che è successo nell’anno trascorso, viene bruciato sulla pubblica piazza a tarda sera.
I partecipanti alla singolare processione si vestono con delle tuniche bianche e con un copricapo di forma appuntita dello stesso colore, e piangono la morte di “nannuzzu Carnulivaru” (nonno Carnevale) [18] .
Anche a Tropea, come attesta la testimonianza del Segretario Generale della Intendenza della Calabria Ultra avveniva il rogo di Re Carnevale“…Nel giorno poi che chiude i baccanali sollazzi, si moltiplicano le maschere, e si sentono fino a mezzanotte altissimi urli co’ quali fingono di piangere la morte del Carnevale che i popolo simboleggia in un omaccione di paglia goffamente vestito, al quale in ultimo finiscono con l’appiccargli il fuoco fra legrida e gli schiamazzi dei monelli, i quali cantano pure: [19] Carnilevare moriu di notti e dassau quattru ricotte Du’ frischi e du’ salati Pi li povari malati; Du’ frischi e du’ stantivi Pi li poviri cattivi [20].
Mentre a S.Nicola da Crissa , fino a tutti gli anni Cinquanta, era possibile assistere a una forma mista in cui una persona viva (in genere un personaggio caratteristico, un beone) simboleggiava il Carnevale fino al momento in cui doveva essere bruciato e poi lasciava il posto a un fantoccio di cenci, paglia, segatura, addobbato con foglie, erbe, simboli sessuali, ossa di maiale [21].
Si trattava di una forma in cui la sostituzione di un fantoccio a un uomo vero attenuava un antico rito cruento che può essere ricollegato al rito annuale dell’espulsione del pharmakoi dell’antica Grecia, che mirava ad espellere periodicamente la macchia accumulata l’anno trascorso [22].
“E’ usanza ad Atene – riferisce Elladio di Bisanzio – portare in processione due pharmakoi in vista della purificazione, uno per gli uomini, l’altro per le donne… [23]”.
La cerimonia aveva luogo il primo giorno della festa delle Targhelie, il 6 del mese Tharghelion. I due pharmakoi, ornati di collane di fichi secchi venivano portati in giro attraverso tutta la città; li si colpiva sul sesso con bulbi di cipolla marina, con fichi e altre piante selvatiche, prima di cacciarli fuori dalla città; può anche darsi che, almeno alle origini, fossero messi a morte per lapidazione, i cadaveri bruciati, le ceneri disperse.
Tutto lascia pensare che i pharmakoi venissero reclutati tra la feccia della popolazione, tra coloro che per i loro misfatti, la loro bruttezza fisica, la loro bassa condizione, le loro occupazioni vili e ripugnanti erano considerati esseri inferiori.
A Leucade, ai fini della purificazione, si prendeva un condannato a morte.
A Marsiglia un poveraccio si offriva per la guarigione di tutti. Ci guadagnava un anno di vita, mantenuto a spese del popolo. Trascorso l’anno, lo si portava in giro per la città con solenni esecrazioni, perché tutte le colpe dellacittà ricadessero su di lui [24].
Nella tragedia di Sofocle, Edipo è presentato in
modo esplicito, come l’agos, la macchia che bisogna espellere colui che porta il peso di tutta la sventura che opprime i suoi concittadini.
In Omero ed Esiodo è la persona del re, rampollo di Zeus, quella da cui dipende la fecondità
della terra, degli armenti, delle donne.
Si mostri, nella sua giustizia “irreprensibile”, e tutto prospera nella sua città [25]; ma se si fuorvia, è tutta la città a pagare per la colpa di un solo.
Il Cronide fa ricadere su tutti la sventura, limos e loimos, carestia e peste tutt’insieme: gli uomini muoiono, le donne cessano di partorire, la terra resta sterile, gli armenti non si riproducono più [26].
Perciò la soluzione normale, quando su un popolo si abbatte il flagello divino, è di sacrificare il re. Se egli è il signore della fecondità e questa s’isterilisce, è perché la sua potenza di sovrano si è in un certo senso invertita; la sua giustizia si è fatta crimine, la sua virtù macchia, il migliore è divenuto il peggiore.
Le leggende di Licurgo, di Atamante, di Oinoclo comportano così, per cacciare il loimos la lapidazione del re, la sua messa a morte rituale, o, in difetto, il sacrificio di suo figlio.
Ma succede anche che si deleghi a un membro della comunità il compito di assumere questo ruolo di re indegno, di sovrano alla rovescia.
Il re si scarica su un individuo che è come la sua immagine rovesciata di tutto ciò che il suo personaggio può comportare di negativo.
Tale è appunto il pharmakos: controfigura del re, ma alla rovescia, simile al re del Carnevale che si incorona al tempo della festa, quando l’ordine vien messo sottosopra, le gerarchie sociali invertite: i tabù sessuali sono aboliti, il furto diventa lecito, gli schiavi prendono il posto dei padroni, le donne scambiano gli abiti con gli uomini; - allora il trono deve essere occupato dal più spregevole, più brutto, più ridicolo, più criminale. Ma, finita la festa, il contro-re viene espulso o messo a morte, trascinando con sé tutto il disordine che incarna e di cui purga nello stesso tempo la comunità.
I Calabresi ritenevano che durante i giorni del Carnevale non bisognava permettere a nessuno di esercitare il proprio mestiere. E se avveniva che qualcuno trasgredisse la consuetudine, gli amici, accorgendosene, lo distraevano togliendogli gli strumenti del lavoro che poi portavano in pegno al vinaiolo o al pizzicagnolo per il vino, la salsiccia ed altre cose mangerecce, addebitando tutto al colpevole profanatore del Carnevale.
Non a caso in quel periodo si sentiva pronunciare la seguente frase: Duminica, Luni e Marti, non si pensa cchjù all’arti, ma si penza a lu mangiari chi esti di Carnalivari
Domenica, Lunedì e Martedì, non si pe pensa più al lavoro, ma si pensa al mangiare, poiché e di Carnevale.
Anche durante i Saturnali si sospendeva ogni attività.
Ecco come Luciano nei Dialoghi fa parlare Saturno: “…In questi giorni non è lecito trattare alcun affare, né alcuna pubblica faccenda, ma bere, ubriacassi, gridare, motteggiare, giocare ai dadi, fare il Re del Convito, ricevere i servi alla mensa, cantar nudo e barcollando, danzare col volto tinto di fuliggine, Queste cose è permesso fare…”.
Fino a non molto tempo fa, nei paesi della Calabria, se qualcuno si fosse applicato ai lavori di campagna (generalmente la coltura delle vigne coincideva col Carnevale) veniva preso con violenza, e gli veniva tinto il volto di fuliggine, come usavano i Satiri nelle feste di Bacco, oppure lo coprivano con una maschera.
Sul capo gli veniva posta una mitra di pelle e appendevano un campanaccio al braccio destro e un paniere con cenere al sinistro.
Così abbigliato e con gli strumenti del lavoro appesi sugli omeri, veniva portato al paese o sopra un asino [27] o addosso a qualcuno, o in soggetto formato dalle mani intrecciate di due dei compagni.
Il campanaccio serviva per fare strepito al suo passaggio e richiamarvi intorno la gente, alla quale mandava poi i suoi saluti con aspersione di cenere.
Se per caso, nelle vie interne, si fossero trovate donne intente a filare, la lieta brigata strappava loro fuso e conocchia [28].
Fino a qualche anno fa, in numerosi carnevali della Calabria, era possibile trovare maschere, decorazioni floreali e alimentari, simboli fallici che richiamavano il carattere di festa di propiziazione, prolificità, rinascita della natura.
Nei territori meno isolati della Regione il Carnevale ha perduto il carattere drammatico-orgiastico; le canzoni originarie della festa si sono venute trasformando in farse popolari ricche di lezzi, riferimenti e intrighi, satire contro personaggi della vita locale.
La divisione in classi alimenta la satira contro i potenti e i padroni che vivono una diversa vita.
Così in un distico dei Greci di Calabria che ha avuto numerose variazioni nella cultura popolare delle altre zone calabresi: I addiso pinnao tu crasì tu carnasciumoc’ego pinno tu nerò tu pigaddio [29]
Altri beve il vino che fa carne ma io bevo l’acqua da povera sorgiva.
Mentre in una farsa raccolta a S.Nicola da Crissa: ‘Mbiatu cu’ ave frisca la memoria E cu’ ave lu stipendio a quindicina; Alla fini di lu misi va e si paga E si la ccatta ‘na coscia de vaccina:A mia l’amaru, lu picu e la pala E chista este la mia medicina”.
“Beato chi ha fresca la memoria / E chi si prende lo stipendio ogni quindici giorni; / Alla fine del mese va a pagarsi / E se la compra una coscia di vaccina / A me l’infelice il pico e la pala / E’ questa la mia medicina”.
Le farse carnevalesche in Calabria documentano con la loro tipizzazione l’attenuarsi del carattere popolare e l’infiltrazione di elementi colti (frasi italiane non funzionali, mosse letterarie di ottava epica, accentuazione dell’elemento popolare da parte di attori colti, etc.) sicché per avere l’idea delle manifestazioni carnevalesche nella loro realtà antropologica occorre riferirsi anche agli elementi della tradizione orale in un confronto con tutti i materiali dispersi e residui nella regione.
L’ideologia pagana della festa è inquinata dall’infiltrazione letteraria che tende ad assimilarla ai fenomeni della società borghese e, soprattutto, è colpevolizzata sotto il segno del demoniaco, della corruzione, dalle gerarchie ecclesiastiche le quali nell’elemento autentico, libertario o liberatorio, vedendo la vendemmia del diavolo (come in ogni manifestazione del corpo), della cuccagna popolare, la satira delle istituzioni, le maschere sono viste come pericolo per l’anima, per la speranza nel paradiso celeste, come indirizzo di disobbedienza e di sovvertimento, come travestimento suscettibile di attenuare le responsabilità e le dipendenze dal potere.
La lunga lotta della Chiesa contro il Carnevale si inserisce nella “polemica antimagica attraverso cui la civiltà occidentale si è venuta via via plasmando nel corso della sua storia” [30].
La Chiesa segue la consueta tecnica dell’assorbimento, ove possibile, altrimenti della condanna.
La sua influenza si limitò alla parziale riscrizione moralistica, nei termini del suo linguaggio, delle figure del Carnevale: si introdussero diavoli, angeli, monaci, la quaresima, senza poter modificare funzioni e significati.
Le polemiche antimagiche della Chiesa (e dei profeti) si iscrivono nei processi di modernizzazione, o meglio di consolidamento del nostro mondo e della nostra ragione, che si estendono a tutto abbracciare per eliminare altri mondi e altre ragioni e la possibilità stessa di pensarli.
Quando nel Settecento la penetrazione religiosa raggiunge capillarmente le campagne (mentre nelle città si sviluppa la cultura laica) ha inizio la gestione ecclesiastica delle feste: il consenso popolare consegue all’egemonia del potere religioso.
Giovanni Conia che era canonico e teologo, giudica le maschere da un punto di vista unicamente censorio (“testi senza cerveja”) e le condanna come esseri infernali [31] :Chi nov’arrazza è chissa di nimali?quatrupiti non su chissi bestiacci:auceji mancu, ca non hanno l’ali:omani manco su: guardati li facci:si smorfj scancarati su nfernali? Si, si, diavuli su, diavuli pacci [32].
Ma anche dopo le epurazioni ecclesiastiche, dopo le limitazioni poste dallo Stato liberale.
Il Carnevale in Calabria ha mantenuto per molto tempo archetipi antichi corrispondenti alle strutture originarie del mondo contadino e pastorale: il precetto di mangiar carne il giovedì grasso: lardaloru: cu’ no ‘ndavi carni si ‘mpegna lu figghiolu
Giovedì grasso chi non ha carne si impegna il bambino la macellazione del maiale e la conservazione delle carni, i cortei per la morte di Carnevale.
Nei dialoghi popolari di Crotone è accentuata la contrapposizione fra l’abbondanza di olio del Carnevale e la povertà di Quaresima (sarda salata, Corajsima, occhi torta/ nun ce lassi fogghie a orta”); a Tropea Quaresima si lamenta degli stenti che deve sopportare per maritare le dodici figlie (i mesi dell’anno), le “ghivannare” (lavandaie) gli orsi, gli “zimmari” (caproni), i diavoli (con gli animali e i diavoli coperti di pelli e carichi di campanacci), ma queste maschere antiche e indicative dell’origine della festa sono scomparse e sono state sostituite dal contrasto tra Carnevale e Quaresima (vestita di nero e con la collana fatta di teste di aglio e peperoni secchi e rossi), dal processo e dalla condanna a morte di Carnevale.
Le maschere antiche prosopopaiche scompaiono perché quella società pastorale è finita ma il canto che rimane indica la continuità della vita nella natura: Chinnilivàre mo si nni va (...) / e ghinnichibène / nata vota vena”Carnevale ora se ne va a (…) / col nuovo anno ritornerà ancora.
Un rituale Carnevalesco ancora in uso a San Sosti, in provincia di Cosenza, si segnala come carnevale strutturato con esclusive valenze allegoriche e simboliche, collegate alla rifondazione del tempo, è quello de I Mesi dell’Anno.
Si tratta di una forma drammatica popolare connessa al ciclo calendariale, sorta di profezia o almanacco drammatizzato, studiato dal Toschi nel suo importante saggio sulle origini del teatro italiano [33] .
Lungo la strada principale si raduna una coloratissima brigata che rappresentano i dodici mesi.
I personaggi giunti sul luogo deputato
allo spettacolo, si dispongono in cerchio declamando a gran voce le proprie virtù stagionali che non temono confronti.
Anche in uno strumento musicale rustico chiamato “zzucu” (voce onomaopeica) - consistente in un vaso di terracotta coperto da una pelle sottile, legata all’orlo a modo di tamburo, nel cui centro è fissata verticalmente una cannuccia che viene sospinta in alto e in basso con la mano - e che ha un suono rauco, cupo e monotono, rimane un ricordo del Carnevale originario pastorale (con pifferi, zufoli, zampogne, strumenti di legno, di pelle, etc.).
Nel suo sonetto censorio della maschera Giovanni Conia ricorda gli antichi strumenti musicali delle feste carnevalesche:Si sbattinu abballandu cu li chitarri, e cu li cerameji: Vi’, vi’ n’atra partita esci gramandu! Non sai si sunnu lupi, ursi, o viteji: si ncugnanu, si svrazzanu sonandu mortara, zucurucu, e tamburredji.
Anche in Calabria, come in altre parti d’Italia, il Carnevale veniva personificato.
In alcuni paesi (Cetraro, Monteleone, Brancaleone, ad esempio), nelle farse di Carnevale, accanto ai personaggi tipici delle rappresentazioni carnevalesche (il Capitano, il Medico, il Notaio, Pulcinella, il venditore ambulante, l’Americano, la Prostituta...), ritroviamo Carnevale che mangia, beve, ride, viene operato, fa testamento. “Protagonista è la figura stessa di Carnevale.
Con un procedimento tipico della fantasia primitiva, il popolo tende a trasformare in miti i fatti e gli elementi della sua esperienza quotidiana, e tale tendenza raggiunge il suo massimo, concretandosi nel fenomeno della personificazione” [34] .
La personificazione di Carnevale avveniva prevalentemente in quei paesi in cui i festeggiamenti si concludevano con la farsa o altre rappresentazioni teatrali, senza la morte e il bruciamento del fantoccio.
Le piazze, le strade, i vicoli del paese divenivano luoghi di teatro popolare; gli abitanti del paese e delle campagne erano gli attori-protagonisti di un rito-spettacolo attraverso cui la comunità si autorappresentava, autodenunciava e si purificava.
Il corteo di Carnevale (sia nei paesi in cui assumeva prevalentemente l’aspetto di corteo funebre dietro al fantoccio sia nei paesi dove sfilavano soltanto i mascherati protagonisti della farsa), accanto ai valori estetici e spettacolari che esso presentava, svolgeva la funzione di delimitazione, ridefinizione, riappropriazione degli spazi paesani, analogalmente a quanto avveniva con le processioni religiose, con le quali veniva sacralizzato il territorio noto.
Nel corso del corteo funebre, attraverso i pianti, le litanie, le preghiere, i canti licenziosi e scurrili, veniva attuata un’esplicita parodia della liturgia ecclesiastica che ci rimanda alle medievali “feste dei pazzi”, dove, come già detto, l’insania collettiva faceva profanare le chiese e gli altari diventavano mense per pantagrueliche abbuffate.
Un diacono veniva poi eletto re dei pazzi e portato in trionfo assieme a una fanciulla seminuda.
Gesti, scherzi, pianti e risate esprimevano il bisogno profondo di esorcizzare e di allontanare la morte.
Analoga funzione esorcistica svolgeva il testamento di Carnevale, in passato particolarmente diffuso nei paesi della provincia di Cosenza (Cetraro, San Lucido, ad esempio).
Spesso il testamento è in prosa; altre volte in versi, come quello raccolto a S. Lucido, nel quale scherzosamente Carnevale elenca i suoi lasciti (vino, noci, fichi, carne di maiale, guai, pene, inganni, pensieri).
Nella versione amanteana della celebre farsa ottocentesca in ottave del letterato Costantino Jaccino da Celico [35].
Il testamento è un vero inno alla filosofia “epicurea”, che Carnevale, attraverso un avaro notaio, lascia in eredità ai posteri; una composizione non priva di sentimenti di giustizia e di uguaglianza:
"…/ All’articulu secunnu / iu mi sientu di lassari / Tuttu quantu lu miu funnu / A china sa cancariari./ I sazizzi e lli prisutti / iu li lassu a lli farabutti,/ Vijulari a lli mangiuni,/ Cupiccuolli a lli riccuni./ E sazizze e supressate/ Lassua schette e maritate,/ A quatrare e vecchiarelle/ Lingue ei puorcu e purmunelle./ Ed a tutti i ‘mbriacuni/ Vinu a fiaschi e a fiascuni /…/”.
All’articolo secondo / io mi sento di lasciare / Tutto quanto il mio fondo / A chi si sa divertire / Le salsicce e i prosciutti / io li lascio ai farabutti / Violari ai mangioni / Capicolli ai ricconi / E salsicce e soppressate / Li lascio a scapoli e ammogliati /A ragazzi e vecchiarelle / Lingue di porco e polmonelle /..
Come in altre parti d’Italia, anche in Calabria “come era costume della letteratura carnevalesca, l’elemento parodistico costituisce l’elemento primario del testamento, gli trasmette una forza beffarda e dissacrante, gli presta una carica mordace e irriverente, lo tuffa nell’inversione e nel capovolgimento dei valori tradizionali, quelli accettati o imposti dalla gerarchia sociale e religiosa...
In questo amplissimo orizzonte di funerei giochi letterari... è forse possibile scorgere la segreta copertura di una paura invincibile, d’un tormentoso rovello, quasi di un tentativo inconscio d’esorcizzare, con demistificazione parodistica, l’antico terrore dell’ultimo viaggio” [36]
Nonostante le ambiguità, i controlli dall’alto, le limitazioni ecclesiastiche, Carnevale rispondeva a bisogni sociali, culturali, psicologici profondi delle classi popolari.
Esso ha rappresentato anche in Calabria uno spazio relativamente autonomo di espressione, protesta, liberazione per le classi oppresse.
Come ha oppurtunatamente detto Bachtin, Carnevale non era soltanto una festa, esso era una concezione del mondo e della vita, rappresentava la seconda vita del popolo in opposizione alla visione ufficiale, aristocratica, seriosa del mondo.
[1] Nell’anno 1640 a Tiriolo, in provincia di Catanzaro, venne rinvenuto un decreto senatoriale contro i Baccanali
[2] V. DORSA, La tradizione greco-latina negli usi e nelle credenze popolari della Calabria Citeriore, tip. Principe, Cosenza, 1884, p. 16 e segg.
[3] Ibidem
[4] Ibidem
[5] Ibidem , pagina 18
[6] Ibidem, pp. 23-24
[7] Ibidem
[8] Ibidem
[9] Le Antesterie occupavano l’11, il 12 e il 13 del mese di febbraio. Il secondo giorno, si faceva una processione che scortava Dioniso montato su un carro a forma di nave, i membri del seguito portavano, a quanto risulta, delle maschere e si può paragonare questa cerimonia al nostro carnevale. Il ruolo del dio era interpretato dall’arconte re e la basilissa, sua moglie, doveva unirsi a lui in una ierogamia. Il terzo giorno della festa, chiamato Chytroi (le marmitte), aveva invece un carattere del tutto diverso: era dedicato ai morti e ai moribondi.Si preparavano in pentole di terracotta una minestra di legumi e graminacee diverse (panspermia) che bisognava consumare prima della notte e il principale sacrificio era offerto a Ermete Psicopompos, la guida delle ombre agli inferi.
[10] DORSA, op. cit, p.36
[11] B. MALINOWSKI, Baloma, the Spirits of the Dead in the Trobriands, “Journal of the Royal Asiatic Institute” pagina 46 (1916)
[12] V. LANTERNARI, La grande festa., Bari, Dedalo, 1972, pp. 115 -117
[13] Ibidem, p.128
[14] C. LONGO, L’arciporco, in “Calabria sconosciuta”, n.62, 1995, pagina 53
[15] V. GRUMEL, La chronologie, Paris 1958,p.337
[16] V.PERI, Chiesa romana e “rito greco, Brescia 1975, p.62
[17] H. M. LAURENT/A.GUILLOU, Le “liber visitationis” d’Athanase Chalkèopoulos (1457-1458), Citta del Vaticano 1960, pagina 89
[18] A. LA MARCA, Aspetti del Carnevale Luzzese, in “Calabria Sconosciuta”, anno XIX, n. 70 p. 73
[19] D.BASILE, Folklore della Calabria, Vol II, Mapograf, Vibo Val. 1987
[20] Carnevale è morto di notte / Ed ha lasciato quattro ricotte / Due fresche e due salate / Per i poveri ammalati / Due fresche e due stantive / per le povere vedove.
[21] V. TETI, Carnevale è ancora una festa? in “Calabria Sconosciuta” n. 20, 1982, pp. 27-34
[22] M. DETIENNE, Il mito, guida storica e critica, Laterza 1982, p.90
[23] FOZIO, Biblioteca, p.534
[24] STRABONE, X, 9, p.452
[25] OMERO, Odissea, XIX
[26] ESIODO, Le opere e i giorni.
[27] Questa scena con le sue particolarità ci rammenta le brigate di baccanti nelle dionisiache, le quali incedevano abbigliate da Satiri, montate su asini a imitazione di Sileno, agitando crotali o sonaglini di rame, e accompagnati dai coreuti coperti di pelli di montone.
[28] V. DORSA, op. cit. p.33
[29] ROSSI TAIBBI in Testi neogreci di Calabria,Palermo 1959
[30] E. DE MARTINO, Il mondo magico, Torino,Einaudi, 1948, p. 205
[31] Giovanni Conia era abate a Polistena (RC)
[32] Che nuova razza è questa di animali / Quadrupedi non sono queste bestiaccie / Uccelli nemmeno, perché non hanno le ali:/ uomini nemmeno sono: Guardate le facce:/ queste smorfie sgangherate sono infernali / Si, si, diavoli sono, diavoli pazzi /
[33] P.TOSCHI, Le origini del teatro italiano, Boringhieri, Torino (I ed.1955), 1976, pagina 39
[34] P. TOSCHI, op. cit. pp.35-38
[35] C. JACCINO, Lu testamentientu