riguardo la situazione dell'area del Mezzogiorno e di quella reggina affermò in quella occasione:  «... dobbiamo riuscire a partire di qui con dei programmi di azione a breve che possano dare dei risultati ... è stato detto che qui, giustamente, che qui l'unica fabbrica, se si  vuole, se si può chiamare così, che esiste, è l'o.me.ca., una fabbrica con trecento lavoratori che fabbricano carri ferroviari, ne doveva avere duemila di lavoratori questa fabbrica, secondo le promesse, ne ha trecento! E perché ne ha trecento? Ne ha trecento perché è una fabbrica di montaggio in se: dai bulloni a tutto il resto viene da altro. Non è diventata l'o.me.ca. quello che era nella speranza di tanti lavoratori e nelle promesse di coloro che hanno impiantato questa fabbrica. C'è il problema del V centro siderurgico che è stato promesso e del quale non si vede l'alba. Ci sono una serie di altri impegni di investimento: di aziende private, che magari hanno già avuto i finanziamenti pubblici  dalla Cassa del Mezzogiorno e che non han fatto niente ...» .
Da quelle parole, durissime ma, nel contempo, profetiche, in quanto, ancora oggi attuali,  inizia l'incontro che attraverso un'attenta analisi storica, in chiave meridionalistica, ha descritto le varie fasi e le prospettive per un futuro in cui il termine stesso del lavoro, assume una connotazione diversa.
Lo scenario del lavoro si sta deteriorando a livello globale come in sede locale con conseguenze negative sulla vita di milioni di persone e per la stabilità politica e sociale di gran parte del mondi globalizzato, mentre  le  prospettive di una ripresa economica sono incerte.
Dallo sviluppo del  cosiddetto terzo settore, all'economia sociale, alla caduta del mondo operaio, le relazioni degli intervenuti hanno dato un quadro dello status quo ed hanno avuto il merito di incorniciare le prospettive future, senza mai perdere di vista le radici culturali e sociali dalle quali è partita  la storia del lavoro nel meridione.
Gianni Aiello nella sua relazione  ha analizzato le fasi  storiche ed economiche, attraverso le amministrazioni dei napoleonidi, di quella borbonica ed infine di quella piemontese.
L'azione consentì al nostro territorio profonde modificazioni sociali ed economiche, nonostante le carenze finanziarie ed il blocco continentale.      
Vennero attuate delle scelte atte a garantire una migliore integrazione dell'economia con la realtà de i luoghi come l'attuazione dell'esenzione fiscale i miglioramenti salariali.
Alla fine del 1810 la ferriera della Mongiana aveva dato un gettito di oltre diecimila ducati, cifra superiore agli investimenti effettuati, come riportato nelle relazioni dell’economista Caracosca che ebbe ad evidenziare  i vantaggi sia per lo Stato, derivanti da tali importanti operazioni,  sia per il decollo socio-economico di quella realtà.  
Per quanto concerne l'amministrazione borbonica  «Qualcosa di positivo ed interessante si è avuta con Carlo III, poi, per quanto riguarda la situazione economica-finanziaria,  bisogna dire - prosegue Gianni Aiello- che fu una logica conseguenza dell'amministrazione francese, in quanto ne mantenne le applicazioni. Ma, nonostante ciò, il distacco tra capitale e provincia era notevole».
Dalla relazione si evince che le caratteristiche dell'industria partenopea, durante il periodo 1849-1860,  erano concentrate intorno a Napoli ed a Salerno mentre nelle rimanenti province del regno le testimonianze  industriali erano alquanto labili, a parte l'esistenza di qualche società economica strutturata su modelli d'organizzazione decisamente antiquati.
I costi di produzione dell'industria napoletano erano i più alti d'Europa e tale fenomeno era legato alla forte protezione doganale.
La politica di investimento pubblici era limitata alla capitale, accrescendo, così, il distacco tra centro e zone della periferia: a Napoli ha sede una rete di società di assicurazioni o marittime, mentre altrove sono ancora vigenti le forme primitive di credito, non vi è nessuna cassa di risparmio, ed un'unica filiale del Banco di Napoli a Bari (soltanto nel 1857 concessa da Ferdinando II) .
Questo dislivello era ancora più evidente in Calabria e nella provincia reggina, dove le uniche espressioni di tipo industriale risultavano essere quelle estrattive, sprazzi di agricoltura rurale e gli esempi tessili di Reggio e Villa S.Giovanni, relativi alle filande, il comprensorio lavorativo della Ferdinandea, che ruotava attorno a mille addetti, e garantiva beneficio e potenzialità di sviluppo economico al territorio di nove paesi.
Durante il periodo piemontese le poche industrie sopravvissute  vennero sacrificate alle esigenze della nuova politica di mercato nazionale .
È stata la volta dell'intervento di Daniele Zangari, il quale asserisce che «lo Stato da 142 anni tiranneggia la nostra cultura e impoverisce il  nostro Meridione, distruggendo le nostre industrie, in specie quelle siderurgiche e tessili. È  stato troppo comodo sperperare e dissolvere i magri capitali raccolti dal lavoro dei nostri meridionali, all'estero, attraverso le forzate emigrazioni, in patria, attraverso prestazioni da schiavi; e lasciar poi nelle mani dei risparmiatori meridionali le briciole di quelli che furono i titoli di Stato ! ».
Tutti questi particolari - continua il Zangari - non esauriscono certo il problema, perché la questione meridionale non è un coacervo di questioni tecniche, ma un problema politico-istituzionale che, attraverso il trasformismo, ha permesso lo sfruttamento del Mezzogiorno a favore delle minoranze “cleptocratiche” del Nord.
«Il tema dell'incontro, - continua il Zangari -  è sicuramente emblematico, se volessimo far riferimento all'attuale situazione economica e sociale della Calabria e della provincia reggina in modo particolare
Il problema del lavoro e dell'occupazione nelle nostre contrade è certamente lontano da una risoluzione, sia rispetto al resto del Mezzogiorno, che ancor più al resto d'Italia.
La Calabria è agli ultimi posti, come è notorio, per reddito pro-capite; la disoccupazione supera il 30%, in modo particolare nell'ambito giovanile, dove raggiunge punte elevatissime.
Il progetto di avviare i giovani attraverso i cosiddetti lavori socialmente utili si è rivelato fallimentare.
Solo risorse sprecate per qualche occupazione precaria.
Per non parlare dei contratti di formazione-lavoro-burla con l'imposizione di firmare in bianco le dimissioni.
L'intervento dello Stato degli anni '50 in poi, attraverso la Cassa per il Mezzogiorno e le varie leggi speciali, si è dimostrato un'autentica beffa per le popolazioni meridionali.
È  inutile fare la storia di questi interventi: dalla costruzione dell'O.ME.CA. agli  ultimi insignificanti stabilimenti tessili, è stato un autentico fallimento.
Del resto, basterebbe avere poche cognizioni di politica economica per rendersene conto.
Gli unici investimenti seri che andrebbero fatti sono quelli che riescono a sfruttare al meglio le risorse locali.
Il terziario é il settore principale su cui occorre puntare, attraverso la costruzione di porti turistici e la valorizzazione e il potenziamento di quelli esistenti. 
Il turismo coniugato all'agricoltura e alla forestazione rappresenta la formula giusta per consentire lo sviluppo delle nostre zone.
Per quanto riguarda le strutture esistenti, come il porto di Gioia Tauro, questo può dare sviluppo economico soltanto se accanto si creino delle industrie di trasformazione e le navi porta containers possono caricare e esportare i nostri prodotti.
Ma per fare impresa ci vogliono gli imprenditori, i quali non riescono ad estrinsecare queste attività per la mancanza di agevolazioni e di incentivi sia da parte delle Istituzioni che da parte delle banche che non concedono prestiti.
L'impresa ha bisogno per operare di un'amministrazione efficiente che sappia programmare.
«Concludendo queste brevi riflessioni, - commenta  il Zangari - riprendendo un pò le considerazioni fatte all'inizio, va sottolineato che per avviare un discorso serio sull'occupazione e il lavoro nel nostro Mezzogiorno, è necessario costruire un nuovo modello di sviluppo, basato sull'economia sociale e solidaristica»  .
Il capitale non deve essere il padrone assoluto dell'attività economica, ma assumere un potere limitato, determinato dal compito svolto nell'insieme, pari al potere degli altri fattori della produzione.
Il lavoro non avrà così un ruolo di contrapposizione del capitale, ma, avendo poteri uguali a quello, avrà assicurato l'appagamento dei propri interessi ed insieme concorderanno nella direzione dell'impresa.
In definitiva, la società del mercato, del profitto e del consumo è essenzialmente totalitaria, lontana da un modello di sviluppo di tipo partecipativo, organico e funzionale.
Oggi c'è una nuova consapevolezza, un nuovo concetto di solidarietà e di anti-utilitarismo.
«Pensare quindi che il “vento liberista” possa mettere ordine in questo panorama - dice il relatore - sconvolto da una crisi complessa, è pura follia.»
Il relatore ha concluso col sociologo Jeremy Rifkin, che nel suo libro “"L'era dell'accesso”, esplora il mondo dell'ipercapitalismo.
Così chiuse: "L'era dell'accesso costringerà ciascuno di noi a porsi delle domande fondamentali sul come rimodellare le relazioni fra gli essere umani. L'accesso, dopo tutto, riguarda le relazioni fra gli essere umani. La questione non si riduce a chi può accedere, ma anche al tipo di esperienze e di mondi a cui  vale la pena di accedere.”
Le conclusioni sono state del sociologo Paolo Arcudi che ha ha affrontato i termini della mobilità, flessibilità e dell'incertezza caratteristiche che trovano riscontro nella sfera lavorativa nell'epoca della globalizzazione.
La crisi del mondo del lavoro non è soltanto di ordine quantitativo dovuto alla crescente disoccupazione ma riguarda anche il deterioramento, frammentato reso precario.
Sostituendo alla stabilità l’incertezza, alla durata una permanente precarietà, il sistema dell’economia globale mira alle radici il senso di continuità dell’esistenza, erode l’integrità del soggetto personale, indebolisce i legami di fiducia della società e i riferimenti di senso e valore che per le precedenti generazioni erano essenziali alla formazione umana, esponendo i giovani al rischio di precarizzazione e all’esclusione sociale.
La comunicazione si propone un’analisi e una riflessione che tenga conto  delle nuove realtà del lavoro e della sua rappresentazione come si danno nella dimensione storica, sociale e culturale per chiarire una questione che metta in gioco il tempo e la libertà degli individui e la sopravvivenza della stessa civiltà del lavoro.
Rifiutando l’alternativa tra il mito della piena occupazione e la fine del lavoro, si auspica l’affermarsi di una differente visione del lavoro volta a ricostruire la fiducia e ad  incrementare il capitale sociale e culturale quale struttura di relazioni fiduciarie tra persone, relativamente durevole nel tempo, atta a favorire la cooperazione e perciò a produrre, come altre forme di capitale, beni e valori materiali e simbolici fondamentali per lo sviluppo economico e sociale del territorio, e dunque per la crescita dell’occupazione.
La comunicazione mira ad approfondire le varie implicazioni dei concetti di fiducia, rischio, capitale sociale, rete, comunità locale, per valutare la potenzialità a livello teorico ed empirico per la comprensione e la verifica di alcuni aspetti del passaggio dalla società di produzione a quella di comunicazione i cui connotati strumentali di fondo richiedono nuove forme di lavoro ad alto contenuto di creatività, conoscenza e cooperazione.  

ShinyStat
13 febbraio 2003
Fotogrammi, sbiaditi dal tempo, tratti da un documentario che ritrae il segretario della CGIL, poi passato alla politica, Lama, durante un imponente congresso, tenutosi nella città dello Stretto, espresse a