Giunge all'undicesima edizione la conversazione sul tema „Miti e Leggende nell'Area dello Stretto” organizzata dal Circolo Culturale „L'Agorà” che si è svolta presso la prestigiosa location del Convitto Nazionale „Tommaso Campanella” di Reggio Calabria. La conversazione organizzata dal sodalizio culturale reggino è stato un viaggio itinerante nella narrazione del mito, grazie anche all'attenta analisi da parte di Antonino Megali (socio del Circolo Culturale „L'Agorà”). Dopo i saluti da parte della professoressa Marisa Bartolomeo e la parte introduttiva a cura di Gianni Aiello (presidente del Circolo Culturale „L'Agorà” dove è stata evidenziata l'importanza di tali aspetti  che tra credenze, antiche religiosità, riflettono il mondo egeo e di consuguenza quella del Mediterraneo e delle colonie elleniche.
La parola è passata ad Antonino Megali  che pone la questione su cosa sia il mito: esso è narrazione, significa parola ma anche racconto. Il mito spiega, racconta come sia nata una realtà, il cosmo, un’isola, una specie vegetale. Il mito rivela l’essere, rivela il dio, quindi è una storia sacra. Furono inventati per spiegare fenomeni naturali, per descrivere luoghi, riti, per spiegare usanze e storie di dei e di eroi. Difficile, dato i molteplici significati che si attribuiscono darne una precisa definizione. Forse una delle più convincenti è quella riportata dal Dizionario Oxford:” Il mito è una storia tradizionale che, ricorrendo di solito ad esseri o forze soprannaturali, sostanzia e fornisce la spiegazione, l’origine o la giustificazione di un qualcosa come la storia remota di una società, una credenza o una cerimonia religiosa o, ancora, un fenomeno naturale”. Di certo è che nei secoli hanno impregnato e impregnano la nostra cultura. Teatro, poesia, pittura, scultura, musica devono molto ai temi e modelli trattati. Dice Salustio nel trattato Degli dei e del mondo, che il mondo stesso si può chiamare mito, in quanto corpi e cose vi appaiano, mentre le anime e gli spiriti si nascondono.
Quindi quando noi guardiamo il mondo, ci troviamo già dentro un mito. Questo spiega perché le storie mitiche, anche quando giungano a noi frammentate, ci suonano familiari e diverse da tutte le altre storie. E questa era la funzione primaria che i Greci attribuivano ai loro miti:il piacere di sentirli raccontare per poi raccontarli a loro volta. Nell’uso comune la parola sopravvive in altre due accezioni. Da una parte indica qualcosa di prodigioso. L’altro significato è opposto e significa menzogna. Per questo si deve usare la parola mito per indicare la storia degli dei e degli eroi della mitologia classica. Una precisazione: il mito non è la leggenda, la saga, il racconto popolare.
Difficile tracciare confini tra queste manifestazioni. La più ovvia è che contenuto del primo sono solo storie immaginarie, mentre la leggenda contiene talvolta un minimo di verità storica. Impressionante vedere quanto nel linguaggio quotidiano facciamo uso di immagini, metafore, espressioni derivanti dai miti. Partire alla ricerca del Vello d’oro, prendere il toro per le corna, trovarsi tra Scilla e Cariddi, introdurre presso il nemico un cavallo di Troia, pulire le stalle di Augia, seguire il fili d’Arianna, avere un tallone di Achille, fare la Cassandra, cadere in braccia a Morfeo, scoprire il vaso di Pandora, essere un Narciso e tante altre. Anche nella psicanalisi si fa incetta di termini mitologici. Per Freud i sogni e i miti possiedono un linguaggio comune e lavorano con lo stesso materiale. Da qui l’idea che il sogno sia il mito dell’individuo, mentre i miti sono il pensiero sognante di un intero popolo, o anche, in particolare:” I sogni secolari della giovane umanità”.Un rapido sguardo alle patologie collegate al mito in psicanalisi.
1) Complesso di Atlante. Titano, fratello do Prometeo, sorreggeva il cielo con la testa e con le mani come punizione per aver preso parte alla lotta dei Titani contro Zeus. Fra l’altro la prima vertebra si chiama Atlante perché sostiene la testa.
2) Complesso di Caronte. Barcaiolo che traghettava i morte nell’Averno: per pagarlo si metteva in bocca al morto un obolo. Simbolizza l’idea del nostro ultimo viaggio e della nostra dissoluzione finale.
3) Complesso di Crono. Nel mito Crono divora i figli. Quindi è il contrario del complesso edipico ed esprime l’ostilità del padre verso i figli.
4) Complesso di Diana. Dea vergine cacciatrice con attributi virili- arco e frecce- esprime il rifiuto del ruolo femminile ,del matrimonio e della maternità.
5) Complesso di Edipo. Amore per la madre e gelosia verso il padre.
6) Complesso di Elettra. Gelosia verso la madre e inclinazione verso il padre.
7) Complesso di Fedra. Sposa Teseo re di Atene ed è attratta dal suo figliastro Ippolito.
8) Complesso di Fetonte. Figlio di Elios sottrasse al padre il carro del sole. I figli non accettano se stesse perché non sono stati accettati.
9) Complesso di Giocasta. Sollievo e conforto nell’amore per il figlio.
10) Complesso di Icaro. Fuggì da Creta con le ali attaccate con la cera, ma salì così in alto che il sole sciolse la cera e lo fece precipitare in mare.
11) Complesso di Laio . Rivela impulsi aggressivi ed omosessuali. Fece abbandonare sul monte Citerone il Figlio Edipo, che, come gli era stato annunciato dall’Oracolo, l’avrebbe ucciso.
12) Complesso di Medea. Desideri omicidi nei confronti dei propri figli da parte della madre.
13) Complesso di Narciso. Consumarsi nell’amore di sé.
14) Complesso di Oreste. Attaccamento eccessivo alla madre che si può trasformare in una violenta ostilità.
15) Complesso di Orfeo. Tendenza a sublimare la libido nell’idea mistica e nell’idea musicale.
16) Complesso di Prometeo. Rubò il fuoco e lo donò al genero umano.
17) Complesso di Zeus. Desiderio maschile di avere un bambino.
Per quanto riguarda l’astronomia e la cosmogonia ci limitiamo solo a ricordare la Via Lattea e la Costellazione di Orione.
Nel mito la geografia ha un ruolo centrale. Ogni racconto è collocato in un luogo particolare, qualche volta rintracciabile ancora oggi. Sull’Aeropago ateniese s’indicava un punto in cui Oreste venne sottoposto al primo tribunale umano della storia; a Tebe si ammirava la casa dove venne alla luce Eracle. In diverse località si riconoscevano le impronte di Bellerofonte, di Pegaso, di Dioniso,  di Eracle; in vari templi si conservavano le zanne del cinghiale Calidonio o le ali di Dedalo.
Questo differenzia il mito dalla favola che si svolge in una località incerta e vaga.
Veniamo ora ai luoghi che ci interessano: Reggio e Messina divise da uno Stretto di Mare. In origine quest’ultima era Zancle in onore di un mitico re Zanclo, pe il quale Orione avrebbe costruito l’insediamento e il molo del porto. Orione è figlio della Terra e di Poseidone.
La sua passione era la caccia. Enopione, re di Chio lo chiamò in soccorso per sterminare le belve che avevano infestato il luogo. Orione le sterminò, ma violentò la figlia del suo ospite, Merope. Enopione lo accecò. Ritrovata la vista grazie ad Efesto, si trasferì a Delo per cacciare insieme ad Artemide. Secondo una versione fu ucciso proprio dalla dea; secondo un’altra morì per il morso di uno scorpione.
Dopo la morte, appare in cielo trasformato in una costellazione che porta il suo nome. Quando la costellazione dello Scorpione sorge all’orizzonte, Orione affonda dall’altra parte del cielo, sottraendosi così all’animale che lo uccise. Proprio in questo territorio cadde dal cielo il falcetto con il quale Zeus aveva evirato il padre Crono. Ancora Messina è testimone del passaggio di Eracle. La decima fatica dell’Eroe consisteva nel sottrarre il bestiame a Gerione, un orco con tre teste e tre busti che si riunivano alla vita. Aveva attraversato la Gallia, le Alpi e la Magna Grecia. Giunto allo Stretto aveva trasportato la mandria in Sicilia attraversandolo a nuoto aggrappandosi al corno di un toro.Un’altra versione vuole che una vacca si sia isolata dalla mandia e fuggita in Sicilia: era stato quindi costretto a recarsi nell’isola per recuperarla. L’origine mitica unisce Messina e Reggio. La prima era stata fondata da un gruppo di pirati provenienti dalla colonia calcidese di Cuma; in seguito si era aggiunto un alto gruppo di coloni provenienti dall’isola Eubea.Reggio fu fondata da coloni provenienti da Calcide che avevano ricevuto da l’oracolo di Apollo l’ordine di fermarsi nel luogo dove avrebbero visto una femmina abbracciare un maschio. Vedendo una vita attaccata ad un leccio o secondo altri ad un tronco di un fico selvatico, i coloni si fermarono e si stabilirono qui.
Quando Dionigi il giovane ricostruì la città distrutta da Dionigi il vecchio la chiamò da Rhegion Febia, da Febo al cui culto era legata. E da qui passò pure Eracle, sempre di ritorno da Gerione e uno dei tori e superò a nuoto lo stretto. Si dice che a questo toro l’Italia deve il suo nome (da vitulus,vitello). E sempre a Reggio prima di attraversare lo Stretto Eracle fu protagonista di un curioso episodio.
Non riusciva ad addormentarsi per il canto delle cicale. Allora chiese a Zeus di farle tacere per poter riposare e da quel giorno le cicale smisero di cantare sulla riva rivolta verso Reggio, ma non su quella locrese. Sempre a Reggio sarebbe approdato Oreste, figlio di Agamennone e di Clitennestra. Impazzito dopo aver ucciso la madre, avrebbe riconquistato la ragione solo dopo essersi lavato in un fiume dai sette bracci. Fiume che scorreva ai confini di Reggio, dove Oreste dopo essersi purificato eresse un santuario in onore di Apollo.Il luogo dove Oreste era sbarcato era stato individuato presso Taureana, dove sogeva un centro detto porto di Oreste. Il mito identificava il fiume col Metauro, poi Petrace.
Passiamo ora ad una storia d’amore, finita però male. Clauco era un dio marino, alla nascita di stirpe mortale. Diventò un dio dopo aver mangiato un’erba. Prese anche una forma nuova: la parte bassa diventò una coda di pesce. Le sue gote si ricoprirono di una barba dai riflessi verdi. Ricevette il dono della profezia e VIgilio ne fece il padre della sibilla di Cuma.  Ovidio racconta che Clauco si era innamorato di Scilla e per questo rifiutò l’amore di Circe. La maga, per vendicarsi mise un intruglio nell’acqua di una fontana in cui si bagnava Scilla presso Reggio. Appena entra in acqua assume le sembianze di un mostro. E il mostro con Cariddi diventa un mito che interessa lo Stretto. Scilla era un essere con dodici piedi e sei lunghi colli sormontati da altrettante teste; in ognuna delle sei bocche aveva tre file di denti acuminati e abbaiava come un cane; di teste di cani mozzate era costituita la sua cintura. Cariddi era figlia della Terra e di Poseidone.
Quando Eracle passò con i buoi di Gerione, Cariddi gli rubò gli animali e li mangiò. Zeus la punì colpendola col fulmine e facendola precipitare in mare, dove diventò un mostro. Tre volte al giorno, sdraiata perennemente sotto un albero di fico, inghiottiva acqua di mare e tutto ciò che su di essa galleggiava, rivomitando poi tutto.
Quando Odisseo dovette passare tra i due mostri, preferì avvicinarsi a Scilla poiché Cariddi significava la distruzione sicura. Passando però una seconda volta la nave venne attratta nel gorgo di Cariddi e sopravvisse solo perché riuscì ad aggrapparsi ad un fico che emergeva dall’acqua. Quando la nave ricomparve Odisseo afferra l’albero ed ebbe salva la vita. La morte di Scilla era attribuita ad Eracle . Scilla divorò una parte dei famosi buoi che portava con sé e l’eroe l’uccise. Ma, il padre Forcide , ricorrendo ad operazioni magiche, restituì la vita alla figlia. Riuscirono ad evitare i due mostri invece i Troiani con Enea quando erano diretti a Drepano  nei pressi di Erice, dove poi morì suo padre Anchise. Secondo una tradizione non lontano dallo Stretto di Scilla e Cariddi,
Vivevano nell’isola Antenoessa (fiorita), resa bianca dalle ossa spolpate dei marinai uccisi, le Sirene protagoniste di una delle storie più affascinanti del mito. Il loro canto, divino racchiudeva la morte. Chi si fermava ad ascoltarlo perdeva la ragione, dimenticava di mangiare e di bere e voleva solo annullarsi in quella melodia tanto era seducente.
Le Sirene hanno un bel viso di fanciulla, ma il resto del corpo è di uccello rapace, con ali e artigli. In origine amiche di Persefone quando Ade la rapì Demetra si adirò con loro che non l’avevano difesa e le trasformò in uccelli. Un’altra versione dice che le fanciulle dopo aver cercato Persefone su tutta la terra, pregarono gli dei di avere le ali per poterla cercare anche sul mare.
Per un’altra tradizione fu Afrodite a trasformarle perché le avevano disubbidito decidendo di conservare per sempre la verginità. Il loro padre era Acheloo e la madre una Musa. Per altri erano figlie di Forco il vecchio delle profondità marine. Ma alcuni le volevano nate dalla terra fecondata dal sangue di Acheloo, quando questi ebbe un corno spezzato nella lotta contro Eracle. In Omero sono soltanto due.
Poi divennero tre: Leucosia (bianca), Ligea (canora), Partenope (virginale).
Secondo un’antica profezia se una nave fosse riuscita a passare accanto alla loro isola senza soccombere, le sirene avrebbero dovuto tuffarsi nel mare e annegare . Questa condizione si verificò due volte. La prima, Orfeo sulla nave Argo, passò coprendo il loro canto con la sua musica e solo Bute le udì e si tuffò . Ma Afrodite che lo amava gli salvò la vita. Poi toccò a Odisseo che grazie al consiglio di Circe aveva tappato le orecchie dei suoi uomini con la cera e poi si era fatto legare all’albero della nave. Si narrava anche che le sirene avessero osato sfidare le muse in una gara di canto ma furono sconfitte. Le Muse strapparono allora le loro piume per intrecciare delle ghirlande. Secondo Svetonio, l’imperatore Tiberio, che “ si dedicò allo studio della mitologia fino alle inezie e al ridicolo” era solito per mettere in imbarazzo i sapienti della corte imperiale, chiedere “che cosa avessero l’abitudine di cantare le sirene”. In proposito non è stato tramandato nulla. Si sa solo che una suonava la cetra la seconda cantava, la terza suonava il flauto. Leggende posteriori le vogliono fare passare per divinità dell’aldilà, che cantavano per i Beati nelle isole Fortunate.
Una, Partenope raggiunse il Golfo di Napoli che da lei prese il nome. Solo dal Medioevo in poi nell’iconografia presenteranno la parte inferiore del corpo a forma di pesce. Resta oscura l’etimologia. Si è pensato che avesse attinenza con seirà , la corda (la sirena lega a sé con il suo canto), o con Sirio, la stella della grande calura (le sirene sarebbero i demoni del mezzogiorno).
Non è un mito nato da noi, ma data la popolarità che ebbe in Sicilia, nell’Italia meridionale e particolarmente a Locri, pensiamo sia il caso di citarlo. Ci riferiamo a Demetra (Cerere per i romani) e Persefone (Proserpina nel mondo romano e Core in Attica). Demetra, dea della terra, era protettrice dell’agricoltura e di tutti i frutti della terra. Era figlia di Crono e di Rea e sorella di Zeus, del quale fu anche moglie.Come riferisce Esiodo nella sue Teogonia Zeus” ascese il talamo di Demetra, generosa nutrice, che partorì Persefone dalle bianche braccia”. Da loro nacque Persefone. Zeus aveva promesso Persefone ad Ade. Mentre la giovane raccoglieva fiori nei pressi di Enna, sotto di lei si spalancò la terra e Ade la rapì. Quando Demetra seppe da Elio i fatti accaduti lasciò l’Olimpo per andare alla ricerca della figlia. Intanto la terra non produceva più frutti. Zeus mandò Ermes a riprendere Persefone nell’Ade.
Ma Ade prima di lasciarla le diede da mangiare dei chicchi di melagrana frutto di un albero che cresce negli Inferi.  Per questo Persefone fu costretta a dividersi tra la madre e Ade, sei mesi con uno e sei con l’altra. La terra ritornò a produrre i suoi frutti. In questo mito sono evidenti i riferimenti al ciclo della natura, delle stagioni, alla crescita dei frutti. La scena del ratto, com’è noto, è presente nei Pinakes locresi, oggi al Museo Nazionale di Reggio Calabria. Nella città magnogreca c’era un tempio dedicato a Persefone. A mamma e figlia viene collegato il giglio,simbolo di fecondità. Il ratto di quest’ultima avvenne mentre raccoglieva gigli. Il fiore poi divenne sacro a Era soprattutto nell’Italia meridionale, divenendo simbolo di pudicizia. In Grecia invece Demetra era la dea dei papaveri, fiore che anche a Roma portava il nome di Cerere; secondo alcuni il sonno indotto da quel fiore avrebbe lenito il suo dolore per la scomparsa della figlia. Persefone interviene nel mito di Adone, il quale nasce da Mirra e da Cinira suo padre che era stato ingannato. Quando il padre scoprì la verità la voleva uccidere, ma gli dei la tramutarono nella pianta che porta il suo nome.La corteccia si ruppe e nacque un bimbo bellissimo:Adone. Il neonato fu affidato da Afrodite poprio a Persefone. Adone morì poi ucciso da un cinghiale o da Artemide.
Afrodite nel tentativo di soccorrerlo si punse un piede e con il sangue tinse i petali delle rose. Mentre il sangue di Adone secondo Ovidio fece nascere “un fiore dello stesso colore…dalla vita breve; fissato male, fragile per troppa leggerezza, che deve il suo nome al vento e proprio il vento ne disperde i petali”. Il fiore è l’anemone.
Non è che i Greci credessero più di tanto nei loro miti, ma venne il tempo in cui si decide di chiudere con la religione degli “dei falsi e bugiardi” e con una civiltà. Plutarco ne “Il tramonto degli oracoli” narra che un giorno il timoniere di una nave che stava viaggiando al largo dell’isola di Paro, si sentì chiamare da alcune voci che gli ordinarono di dare l’annuncio, nel territorio di Palodo, che il grande Pan era morto. Invece non morirono i protagonisti dei miti. A proposito dei quali, scrisse un mitografo, “non sono mai esistiti, ma ci sono sempre”
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