Il nuovo appuntamento è stato caratterizzato,  oltre che dalla presenza di autorevoli studiosi, anche dall’ascolto di alcune marce militari del  tempo, di alcune composizioni del musicista palese Nicola Antonio Manfroce e da un intervista, curata da Gianni Aiello, con il  discendente del Re di Napoli Gioacchino Murat, già ospite del Circolo Culturale L’Agorà nel 1998 nel corso della quarta edizione del convegno omonimo. 
Un intervista interessante, quella rilasciata da S.A.R. Gioacchino Murat dietro le sollecitazioni delle domande di Gianni Aiello, parlando dell’Imperatore  Bonaparte  e del suo rapporto con l’arte. 
Naturalmente si è parlato anche del Re di  Napoli, Gioacchino Murat, che durante il periodo della sua amministrazione ha dato un valido contributo a numerose campagne di scavi archeologici, tra cui la più importante, quella di Pompei, senza nulla togliere a quelle effettuate in altre zone del Meridione. 
L'incontro è iniziato con l'intervento di  Massimiliano Placanica che ha  trattato l’argomento “Il modellismo come forma  d’arte” : esso è l'arte di creare dei modellini   su scala, composti da vario materiale ed indirizzato a diverse tipologie quali soldatini, riproduzione di  famosi palazzi, castelli, aerei  e navi (sia civili che militari), treni.
I pezzi, oggetto della riproduzione, quali i soldatini.   Il modellismo è l’arte di riprodurre in piccole dimensioni (in scala) ciò che è grande.  Benché l’aspetto ludico possa sembrare prevalente, il modellismo consta di uno studio  particolareggiato dal punto di vista tecnico (riproduzione di modelli e miniature storiche), ed il suo utilizzo si presta ad un infinità di scopi da quello puramente hobbystico a quello  più nobile che riguarda gli studi scientifici e storici. 
Innumerevoli sono i generi a cui il modellismo si presta (navale, aeronautico, militare), ed  altrettanti sono gli eventi culturali ad esso correlati. 
Famose sono le mostre storiche che si avvalgono  di modelli in scala per meglio esporre al pubblico gli eventi esposti. 
Così, possiamo anche intenderlo come l’arte al servizio dello studio. Senza contare che grazie  all’importante apporto tecnico che esso offre, possiamo riprodurre e quindi studiare con grande precisione le grandi battaglie che hanno  caratterizzato la storia.
 Questa forma d’arte comunque ha radici molto profonde. Non dimentichiamo che fin dai tempi più antichi, grandi strateghi militari si avvalevano delle riproduzioni dei campi di battaglia per pianificare le loro strategia belliche. 
Tutt’oggi come nel passato i più famosi  programmi di informazione da quelli giornalistici ai documentari usano con una certa frequenza modelli in scala per riprodurre con  fedeltà le situazioni di cronaca (dai luoghi del delitto agli scenari di guerra).
Naturalmente tale arte non vuole essere una sorta di feticismo bellico. 
Il tenere una collezione di miniature ad  esempio ci fa meglio comprendere come le abitudini ed i costumi delle forze armate siano in continua evoluzione.  
Come nasce una miniatura storica:
Molte oggi sono le case che si occupano dei soldatini , ma come nasce una miniatura?
Cominciamo col suddividere la nascita di una miniatura in tre fasi: documentale, progettuale e scultura del positivo. Vi sarebbe infine una quarte fase che sarebbe la produzione industriale ma quella esula concettualmente dalle prime tre fasi.

L’argomento trattato è stato quello dei soldatini che rappresentano un interessante modo di apprendimento del contesto storico di cui essi fanno parte, di studiare il loro equipaggiamento e  delle loro uniformi e quindi saperne di più sull'organizzazione degli eserciti in cui hanno militato.
Essi hanno diverse dimensioni e vanno dai  15 mm, prodotto esclusivamente in metallo bianco o lega di piombo, o il 25 mm , il 28 mm, anche se esistono scale di dimensioni inferiori del 15 mm, come il 10 mm, un formato che permette si notevoli risparmi sui tempi di allestimento di un esercito, ma che non da la possibilità di soffermarsi sui diversi dettagli, come quello dei 5 o 6 mm .
Con queste caratteristiche è stato presentato  al pubblico un plastico con la ricostruzione dell’esercito francese e fatto rivivere le gesta delle Demì-Brigade: il battaglione regolare si piazzava al centro schierato in linea assicurando una potenza di fuoco affidabile, mentre ai lati i nuovi battaglioni attaccavano furiosamente in colonna accerchiando il nemico. 
Il Prof. Enzo Zolea ha trattato un aspetto della Reggio culturale dell’ottocento: quella relativa a “La costruzione del Real Teatro Borbonico a Reggio”.  
Nel 1783, dopo il disastroso terremoto che colpì Reggio e la sua provincia, l’ingegnere Giovambattista Mori, nel redigere il progetto della nuova costruendo città, indicò con la lettera P: «… il luogo da potersi formare un teatro nel luogo ove sorgono or il palazzo Melissari e Musitano» nei pressi dell’attuale Piazza Italia.
L’avvento dell’esercito napoleonico e quindi dell’amministrazione francese apportò dei benefici alla città diReggio. 
Gioacchino Murat col decreto del 16 luglio 1810 ordinò di illuminare la città con i lumi a riverbero, simili a quelli della capitale Napoli e di disporre la costruzione di un teatro «… nel luogo ov’erasi cominciato l’edificio della Casa  Municipale, e a spese del Tesoro regio» . 
Con la caduta dell’amministrazione murattiana succedette quella dei rientrati borboni, Reggio venne scelta come capoluogo della terza provincia costituita in Calabria ed assunse la denominazione di  Calabria Ultra Prima: essa comprendeva i distretti, oltre che di Reggio, anche di Palmi e di Gerace .
In qualità di Intendente fu nominato Nicola Santangelo che diede  una notevole spinta per riprendere con ritmi più accelerati la ricostruzione della città. 
Fu proprio il Santangelo, amatore e conoscitore  di musica, ad avviare la costruzione del teatro progettato al tempo di Gioacchino Murat, Re di Napoli, nominando un'apposita commissione, alla quale venne aggiunto l’ingegnere del Comune, Stefano Calabrò Anzalone, «… il quale, imitando il disegno del teatro dei Fiorentini di Napoli seppe sviluppare abilmente la curva  e migliorarne  la visuale  del palcoscenico» .
Secondo  le indicazioni del progetto Mori il teatro doveva sorgere in una posizione centrale, ma le difficoltà burocratiche prima e quelle storiche ne ritardarono l’edificazione e quindi l’area per l’ubicazione della struttura venneoccupata da altri edifici.  
La struttura teatrale trovò sede nell'area compresa tra la via dei Bianchi e la via Terme, nel punto dove risulta ubicato il Palazzo delle Poste Centrali.
Gli interni del Real Teatro Borbonico erano caratterizzati da una sala che presentava la caratteristica forma ottocentesca a ferro di cavallo: lunga palmi 42 (mt. 10,5) e larga 37 (mt. 9,25), era sovrastata da un cielo a forma ellittica il cui asse maggiore misurava palmi 41 (mt. 10,25) e l’asse minore palmi 36 (mt. 9,25).
La zoccolatura della platea era di palmi 118 (mt. 29,5). 
Leggendo oggi queste misure fanno pensare ad un salone di una casa grande, ma bisogna tenere presente che Reggio contava allora appena ottomila abitanti ed il teatro era riservato all’èlite della città. 
Alla platea si accordava il palcoscenico costruito con tavole di castagno e sormontato da un grande arco di legno avente al centro un orologio. 
In altezza il teatro si sviluppava in due ordini di palchi, i cui parapetti erano dipinti con ornati a bassorilievi; era dotato inoltre di illuminazione con lumi a riverbero, di una vasca per la conservazione delle acque necessarie al fabbisogno del teatro stesso (soprattutto in casi incendio), di un grande lampadario e di sei camerini. 
 Ancora incompleto il Real Teatro Borbonico fu inaugurato il 30 maggio  1818 in occasione  del Re Ferdinando I con la partecipazione della Compagnia Zannoni. 
La prima stagione lirica venne inaugurata, il 15 maggio 1820, con l’opera “Adelaide” e “Comincio Pittore” del compositore romano Valentino Fioravanti.  
Nel 1823, su richiesta dell’impresario Catani , venne prolungato il palcoscenico, furono costruiti dieci quinte e due teloni per il fondale e vennero aggiunti altri quattro palchetti laterali al palcoscenico, proprio sotto il grande arco. 
Questi lavori rappresentavano una costante del teatro ed impedivano il regolare svolgimento delle stagioni liriche, di prosa e di operette.
La sala del teatro, inoltre, dato che in quel tempo era l’unica esistente, serviva anche per i festini che si svolgevano durante l’anno nelle occasioni più svariate, per i veglioni del Carnevale, per gli incontri di scherma e per i grandi pranzi in onore di personalità illustri che venivano a Reggio.
Nel 1846 si ha notizia di una totale ristrutturazione del teatro  e nello stesso periodo si provvide alla demolizione della parte occidentale del palazzo Comi per dar posto alla nuova piazza del teatro.
Il Real Teatro Borbonico, ancora incompleto, venne inaugurato il 30 maggio  1818 in occasione del Re Ferdinando I con la partecipazione della Compagnia Zannoni.
Il prof. Domenico Ferraro ha trattato il tema su “Nicola Antonio Manfroce  precursore geniale della musica italiana del XIX secolo”, parlando del  genio musicale palmese  che sette mesi prima di morire, ad appena 21 anni, ebbe la gioia di assistere alla rappresentazione del suo  capolavoro, l’ “Ecuba”, al San Carlo di Napoli, accolta trionfalmente dal pubblico e dalla critica.
Il compositore nasce a Palmi il 20 febbraio 1791 dimostrando sin  dalla tenera età amore per la musica e, guidato dal padre, Domenico, Maestro di Cappella del Duomo, si rivelò talento eccezionale. 
La sua bravura attirò l’attenzione del negoziante Gaetano Cresci, che lo condusse a  Napoli , avviandolo agli studi presso il Conservatorio della Pietà dei Turchini dal mecenate Antonio Bianchi.
Ancora allievo compose, con l’ introduzione di nuove idee, insieme a musica sacra e profana, la Cantata “La Nascita di Alcide”, versi di Gabriele Rossetti, rappresentata nel Teatro San Carlo, la sera del 15 agosto 1809, in onore di Napoleone, presenti, fra il blasonato pubblico, il Re Gioacchino e la Regina Carolina Murat. 
Il successo ottenuto, specialmente  per gli spunti innovatori nella partitura, gli aprì la strada per la prosecuzione degli studi a Roma, alla scuola di Nicolò Zingarelli, dove, l’ardente diciannovenne compose la Cantata “Armida”, tratta da J. Ferretti dal “Goffredo” del Tasso, e il dramma “Alzira”, libretto di G. Rossi, che narra le vicende del riscatto dei peruviani dagli spagnoli, rappresentato con lodi nel Teatro Valle di Roma il 10 ottobre 1810. 
I pregi dell’ “Alzira”, successivamente rappresentata nei principali teatri, indussero Domenico Barbaja, “il principe degli impresari” a commissionargli la composizione dell’ “Ecuba”, tragedia in tre atti di G. Schmidt, rappresentata al San Carlo di Napoli il 13 dicembre 1812 con trionfali accoglienze, così come riporta “Il Monitore delle Due Sicilie”: “Il signor Manfroce ha un dritto al pubblico suffragio.
La sua musica ha l’ impronta della novità; i pensieri sorprendono; Lo stile elettrizza. (...) La sinfonia è piena di vivacità. Il primo e il terzo atto piacciono, ma il secondo rapisce: nel finale di quest’ultimo l’ autore ha superato se stesso. I cori sono scritti da maestro”.  
Il 9 luglio 1813, sebbene curato per ordine della regina da illustri medici con a capo il celebre Cotugno, cessava di vivere, all'età di ventuno anni e sei mesi .
Con lui scomparve un genio che aveva aperto nuovi orizzonti alla musica e altri e più sostanziali contributi avrebbe dato se non fosse morto prematuramente. 
Le conclusioni sono state dello storico Mario Spizzirri “L’araldica nel periodo napoleonico”: essa presenta caratteristiche tali da renderla assolutamente diversa da quella dell'ancien règime, da cui si discosta, in particolar modo, per il carattere fortemente personale degli stemmi. 
Ogni arma  ha nel capo un canton franco che descrive in maniera alquanto minuziosa codificata non solo il titolo nobiliare ma, più in generale, la dignità o la funzione del titolare. 
Lo stemma - afferma il valido relatore - può variare nel tempo nel suo insieme, a seconda del "cursus honorum" del titolare. 
Tali stemmi non venivano, normalmente ereditati dai discendenti che, raramente erano chiamati a ricoprire le stesse cariche dei padri. 
Ciò era perfettamente in linea con l'idea napoleonica di non istituire una classe
privilegiata ereditaria, ma di legare ai meriti personali dei propri sudditi il godimento dei titoli onorifici e stemmi. 
Nel 1802 venne creato l’Ordine cavalleresco della “Legion d’Onore”, primo di una serie che avrebbe dovuto essere lunga e robusta. 
Nel 1805, Napoleone a ricordo delle celebrazioni della sua incoronazione a Re d’Italia nel Duomo di Milano (26 maggio) istituì la Corona di Ferro del Regno d’Italia per ricompensare il valore militare, il merito scientifico e tutti coloro che se ne fossero resi degni.
I dignitari italiani furono 19 ed i commendatori 505.
IL 1° marzo 1808, con apposita  legge, venne creata da Napoleone la Nuova Nobiltà Imperiale che doveva sostituirsi alla precedente nobiltà dei Borbone. 
Napoleone ebbe sempre un debole per l’Ordine della Corona di Ferro di cui erano e vennero decorati Massena, Lannes, Ney, Oudinot, Angerau, Berthger, Berthand, tanto per citare qualche nome.
L’imperatore Bonaparte nelle occasioni ufficiali portava la fascia rossa di Grand’Ufficiale della Legion d’Onore e, come unica decorazione, l’insegna di semplice cavaliere della Corona di Ferro.
La Corona del Regno d’Italia napoleonico dal 1805 al 1814 consiste in una corona smaltata a 10 punte di colore turchino, sormontata dall’aquila d’oro napoleonica a volo abbassato, guardante alla desta araldica, e poggiante sulla folgore imperiale, parimenti d’oro.
L’aquila era d’argento per i cavalieri e d’oro per i commendatori.
Il cerchio della corona è caricato di fioroni e reca la scritta “Dio me la data , guai a chi la tocca” , celebre frase che Napoleone pronunciò, posandosela egli stesso sul capo, il giorno dell’incoronazione a Milano.
Partendo, poi, per l’esilio di Sant’Elena e, salendo a bordo del “Bellero Fonte” , Napoleone  scelse di indossare sulla sua celebre  uniforme verde da colonnello degli “Chasseurs a cheval” della Vecchia Guardia, proprio la Corona di Ferro, essendo formalmente la Legion d’Onore divenuta orange  del Re di Francia Luigi XVIII .
Il tema affrontato dallo storico calabrese rappresenta, quindi un'altra espressione artistica che assunse caratteristiche diversificanti dall'araldica tradizionale e facente parte di un periodo storico ricco di fascino e di romanticismo che il sodalizio culturale, presieduto da Gianni Aiello, rinnova ogni anno, sempre con relatori e temi nuovi, vista la vastità e l'importanza del periodo  storico.

ShinyStat
13 ottobre 2003