Giunge alla diciassettesima edizione l'incontro organizzato dal Circolo Culturale "L'Agorà" e dal Centro studi "Gioacchino e Napoleone" relativa al tema storico argomentato.
Tale periodo, definito dallo storico calabrese Umberto Caldora come "decennio francese", è stato oggetto di incontri ai quali hanno partecipato autorevoli studiosi, che, nel corso di tali appuntamenti, hanno avuto modo di analizzare, e quindi far conoscere, diversi aspetti del periodo argomentato.
Tutto ciò a testimonianza del percorso effettuato dalla macchina amministrativa murattiana e della sua azione democratica, tesa al liberismo ed alla costituzione di una Nazione, un Regno unito, indipendente, secondo i modelli illuministici.
L'edizione odierna, come ha evidenziato nel suo intervento il presidente del sodalizio reggino Gianni Aiello, ricade nel 150° anniversario dell'Unità nazionale e che proprio Gioacchino Murat fu uno dei precursori del Risorgimento italiano. A testimonianza di quanto sopra evidenziato, Gianni Aiello ha ricordato ai presenti quanto redatto nel proclama di Rimini, considerato uno dei primi manifesti del Risorgimento italiano.
Quindi Gioacchino Murat con tale disposizione, datata 30 marzo 1815, esortava gli italiani a far parte del suo esercito e combattere lo straniero che occupava la penisola italiana.
Tale appello era rivolto a tutte le classi sociali alle quali Gioacchino Murat indirizzava gli intenti di "unità nazionale", come riportato in questo importante passaggio facente parte di tale editto: «Italiani! L’ora è venuta che debbono compiersi gli alti destini d’Italia. La provvidenza vi chiama in fine ad essere una nazione indipendente. Dall’Alpi allo stretto di Scilla odasi un grido solo: l’indipendenza d’Italia. Ed a qual titolo popoli stranieri pretendono togliervi questa indipendenza, primo diritto, e primo bene d’ogni popolo?».
«Nel proclama di Rimini- prosegue Gianni Aiello - sono presenti le cifre che si trovano nel diritto costituzionale e nello specifico quelle relative agli elementi essenzialidello Stato, qualipopolo, territorio, potestà di imperio (sovranità)».
Il proclama era bello e i veri patrioti fremettero nel leggerlo e s'illusero i poeti che finalmente fosse suonata per l'Italia l'ora fatidica della liberazione; ma le moltitudini, sfiduciate da tante promesse non mantenute, scettiche intorno alle sorti della penisola, diffidenti, e non a torto, verso quanti per il proprio interesse si appellavano all' indipendenza, stanche da molti anni di guerre, rimasero indifferenti all'appello del re di Napoli, il quale non vide venire sotto le sue bandiere che poche centinaia di volontari, gente, i più (credendolo sincero) che avevano militato sotto le insegne napoleoniche.
Nel periodo napoleonico ci sono altre fotografie di un certo interesse e che si ricollegano ai temi relativi all'ideale romantico ma soprattutto alla ricerca dell'"Ulisse" che è in noi, alla ricerca del proprio "io" ed alle domande, "Chi ero?", "Cosa sono", cifre queste che ritroviamo in diverse fasi del momento storico argomentato.
Esempi di un certo rilievo e che devono, naturalmente far pensare, sono quelli relativi ai "cento giorni" (la risposta numerica che Napoleone ebbe a tal riguardo), la sfida impossibile, quindi romantica, di Gioacchino Murat quando sbarcò per una serie di circostanze in quel di Pizzo.
Altri dati possiamo indicarli al rientro della salma di Napoleone Bonaparte in quel di Parigi (come descritto nella cronaca del tempo da Victor Hugo) ma anche quando lo stesso Napoleone Bonaparte ebbe a dire ai suoi soldati che "qualunque sia la disparità delle forze in campo in favore di una forza piuttosto che l'avversa, esiste sempre un fattore X di incognita: la morale e lo spirito dei combattenti, la coscienza di difendere la ragione".
"Coscienza" e "Ragione" sono altri due elementi che si ricollegano a quanto sopra evidenziato.
Argomentando sullo stesso tema, c'è da ricordare - prosegue Gianni Aiello - che in quel "periodo" e da quella "parte" vi era anche il momento delle idee, delle coscienze, del coraggio di esprimere ciò che si pensava.
Infatti al riguardo è stato ricordato che Gioacchino Murat non condivise opponendosi alla scelta relativa alla condanna a morte del Duca di Enghien: Murat non rinunciò alle proprie opinioni, pur essendo un alto graduato, comandante di cavalleria ma soprattutto, non per ordine d'importanza, presente a fianco di Napoleone Bonaparte in tutte le campagne militari.
La giornata di studi entra nel vivo con la relazione del prof. Mario Spizzirri, delegato della Società Militare della Calabria, assente per motivi salute, e la cui relazione "GIOACCHINO MURAT: UN NAPOLEONIDE SUL TRONO DI NAPOLI. SPIGOLATURE STORICO-MILITARI" è stata letta da Antonino Megale, socio del Circolo Culturale "L'Agorà". Si inizia con un giusto quesito, una provocazione culturale relativa alla battaglia di Tolentino e se essa e da considerarsi «la prima per l'Indipendenza Italiana?».
A tal punto, uno storico non può azzardarsi a formulare giudizi ma deve, come sempre, ancorarsi ai documenti e far parlare i fatti.
E gli eventi, sciorinati ai lettori, diventano inevitabilmente, sinonimo di verità. Perciò riprendiamo il filo con ordine e proiettiamoci, cronologicamente, a qualche mese prima dal fatidico scontro di Tolentino.
In realtà la campagna militare fu lanciata a metà marzo 1815, quando Murat, tramite i suoi rappresentanti, verificò la scarsa volontà dell’Austria di far accettare alle altre potenze il Trattato dell’11 gennaio 1814 con il Regno di Napoli; ma la questione dell’unità nazionale risaliva ad alcuni anni prima. Gioacchino Murat diventa Re di Napoli nel 1808, dopo due anni di regno del fratello di Napoleone, Giuseppe Bonaparte, e subito scrive al cognato che “egli si era fatto napoletano in poco d'ore".
Infatti fin da subito la politica di Murat fu di rendere il regno autonomo dalla Francia, in campo economico e amministrativo, formare un esercito nazionale con bandiera propria.
Napoleone intervenne con decreti per annullare alcune scelte; rimproveri, timori, minacce di spodestarlo o di annettere il Regno dell’Impero Francese, furono causa del dissidio latente scoppiato in contrasti e lotte nel 1814.
Già nel 1809 l’Imperatore tramite il generale Grenier lo ammoniva ad “essere francese e non napoletano” (re per i sudditi e viceré per l’Imperatore).
Lord Bentick rappresentante dell’Inghilterra e nemico di Murat, lo riconobbe come “re italiano”.
Federico Gonfalonieri scriverà: “E’ sempre principe italiano chi ha un suo regno in Italia”; se per Napoleone di origini italiane (Buonaparte) non si ha dubbi che abbia fatto gli interessi della Francia, perché non poteva essere per Murat di origine francese, per l’Italia? Murat si può accusare, forse, di aver atteso troppo per tentare l’impresa dell’unificazione nazionale; due occasioni infatti ci furono, prima del 1815:
Dopo la campagna di Russia, nel maggio del 1813 a Ponza rappresentanti del re di Napoli si videro con lord Bentinck, ma prima che l’accordo venisse ratificato dal governo inglese, Murat ci ripensò;
Dopo la sconfitta di Lipsia, egli tenta di ricucire l’appoggio dell’Inghilterra, ma con il rifiuto di Bentick, Murat non osò fare da solo e nel gennaio 1814 fece l’accordo con l’Austria.
Nel marzo del 1814 con lettera a Fouchè, potente ministro imperiale, prova ancora a chiedere il consenso di Napoleone per l’unificazione d’Italia, dopo aver avuto dalla fine del 1813 incontri anche a Milano e contatti con alcuni generali del Regno Italico e con vari esponenti della massoneria, da cui veniva considerato “Principe Italiano”. Foscolo stimava Murat “avere cuore più cavalleggero d’assai”.
Il 12 maggio, il re Gioacchino, lasciato il generale Carascosa a fronteggiare con ottomila soldati l’austriaco Neipperg sulle rive del Cesano, assalì col resto dell'esercito le posizioni del Bianchi e ad una ad una le prese d'assalto spingendo il nemico verso Tolentino.
La sera interruppe la battaglia, che fu ripresa il giorno dopo.
Si distinsero per il loro valore i reggimenti della Guardia Reale napoletana, che, assalito con impeto il nemico, lo scacciarono da alcune colline, e, quando gli imperiali tornarono al contrattacco, seppero con grande bravura mantenere le posizioni occupate.
La giornata sarebbe senza dubbio finita con la vittoria dei napoletani se fossero giunti a tempo quattromila uomini che si trovavano di riserva in Macerata; ma nonostante questo sul fare della sera, quando la battaglia fu interrotta neppure gli austriaci poterono dire di aver vinto. Durante la notte, come dicevo poc’anzi, gravi notizie giunsero al Murat dal regno: il generale francese MONTIGNY, lasciato negli Abruzzi; scriveva che il NUGENT con dodicimila Austriaci aveva espugnato Antrodoco ed Aquila ed era ormai padrone di tutta la regione; il ministro della guerra, poi annunciava che il nemico era comparso sul Liri e che tumulti erano scoppiati in Calabria.
La verità era invece diversa: i dodicimila uomini del Nugent non erano che cinquemila e Antrodoco ed Aquila erano state occupate solo perché il Montigny, malgrado fosse più forte, era fuggito senza battersi; sul Liri poi i Tedeschi non erano ancor giunti, anzi il generale Manhes, che guardava da quel lato il confine, aveva invaso lo stato romano, occupando Ceprano, Veroli e Frosinone.
Ma il re Gioacchino, impressionato da quelle notizie, ordinò quella stessa notte la ritirata.
Questa dapprima, sebbene molestata dagli imperiali , fu eseguita con ordine: si mutò poi in rotta a causa delle piogge, della fatica, della mancanza dei viveri, della indisciplina e dello sconforto di capi e gregari. Molti soldati, dopo che essere entrati nei confini del regno, disertarono e se ne tornarono alle loro case.
E intanto l'Abruzzo, il Molise, la Capitanata e la Terra di Lavoro gli si ribellavano e tornavano all'obbedienza di Ferdinando; gli Austriaci, penetrati nel regno, cingevano d'assedio Capua e accoglievano il principe Leopoldo, secondogenito della Casa di Bordone, che assumeva la carica di Reggente; e infine il commodoro inglese CAMPBELL con due vascelli e due fregate spadroneggiava nel golfo di Napoli e con la minaccia di bombardare la capitale faceva sì che la regina Carolina, spaventata dal rumoreggiar della plebe, stipulasse una convenzione con la quale consegnava agli Inglesi il navigli napoletano, teneva sequestrati negli arsenali gli attrezzi e le armi e veniva assicurata di esser trasportata con i figli in Francia.
Questa convenzione, che per la parte riguardante il trasporto della regina non fu poi riconosciuta dall'ammiraglio Exmouth, fu segnata l' 11 maggio.
Contemporaneamente il Murat, sperando d'ingraziarsi i sudditi, spediva da Pescara a Napoli uno statuto costituzionale. Questo però non potè esser pubblicato e diffuso che il giorno 18 maggio, quando gli avanzi dell'esercito, battuti a Mignano il 17, non erano più capaci di contenere il nemico.
Il 18 maggio Gioacchino conferì incarico ai generali CARASCOSA e COLLETTA di trattare con il nemico. Le trattative avvennero alla Casa Lanza, presso Capua, e si chiusero il 20 con una convenzione sottoscritta dai due generali napoletani, dai generali austriaci BIANCHI e NEIPPERG e da lord BURGHERSH, rappresentante britannico.
Il 21 doveva esser consegnata agli Austriaci la fortezza di Capua, il 23 Napoli, quindi tutto il resto dei regno ad eccezione di Gaeta, Pescara ed Ancona; alle truppe che uscivano dalle fortezze dovevano essere resi gli onori militari; garantito doveva essere il debito pubblico, mantenuta la vendita dei beni dello Stato, conservata la nuova e l'antica nobiltà, confermati nei gradi, onori e pensioni i militari che passassero al servizio di Ferdinando giurandogli fedeltà.
A questi patti i generali austriaci aggiunsero che il Borbone accordava perdono ai sudditi che avevano agito contro di lui e che, dimenticate le trascorse vicende, ogni napoletano potesse aspirare agli uffici civili e militari.
L'imperatore Francesco consolidava il trattato con la sua formale garanzia.
Due giorni dopo la conclusione del trattato, Gioacchino si recò ad Ischia e di là fece vela verso la Francia.
La sera del 22, Carolina, insieme con i ministri Agar, Macdonald e Zurlo, salì a bordo di una nave inglese; il giorno dopo il principe Leopoldo, alla testa delle truppe austriache entrava a Napoli: "… E poiché - scrive il Colletta - per corrieri, per telegrafi per fama gli avvenimenti di Casa Lanza e di Napoli furono in quei giorni medesimi, divulgati ed il mutato governo in ogni luogo riconosciuto e festeggiato, tutte le apparenze scomparvero del regno di Gioacchino, nomi, immagini, insegne: solamente la regina prigioniera sul vascello stava ancora nel porto, spettacolo e spettatrice della sua miseria…"
CAROLINA infatti dovette, il 23 stipulare una nuova convenzione, e obbligarsi con l'Austria e l'Inghilterra a deporre il titolo di regina e trasferirsi a Trieste, da dove non si sarebbe mossa senza il consenso di Vienna e Londra.
Sotto il nome di contessa di Lipona, Carolina partì dalla capitale del regno ai primi di giugno, proprio quando FERDINANDO IV salpava da Messina alla volta di Napoli, in cui doveva fare il suo ingresso il 9 giugno del 1815.
Il giorno stesso che FERDINANDO IV di Borbone rientrava nella sua capitale, i plenipotenziari delle potenze europee, eccettuati quelli del Pontefice e della Spagna, firmavano l'atto finale del Congresso di Vienna, composto di sancendo il legittimo re insediamento dei Borboni sul trono delle delle Due Sicilie.
FERDINANDO DI BORBONE, tornando a Napoli, si fece precedere da proclami pieni di lusinghe e di paterne promesse, di cui ci piace riportarne qualcuna: "…. Docili figli del Sebeto, venite con gli stendardi della concordia, venite innanzi al vostro padre, al vostro liberatore, che sta già sotto le vostre mura.Esso non aspira che al vostro bene ed alla vostra durevole felicità. Esso travaglierà per rendervi oggetto d'invidia al resto d'Europa. Un governo stabile, saggio e religioso vi è assicurato. Il popolo sarà il sovrano, ed il principe depositario delle leggi,che detterà la più energica e la più desiderabile delle costituzioni ... ".Si vedrà, poi, in seguito, come il vecchio re di Napoli manterrà tutte queste promesse! Il primo atto di politica estera del Borbone dopo la restaurazione fu una convenzione con l'Austria, firmata il 12 giugno.
Con questo trattato, che fu detto di "amicizia di unione, e di alleanza difensiva", l'imperatore FRANCESCO e il re FERDINANDO dichiaravano di volere "…assicurare la pace e la tranquillità dei reciproci possessi con il mezzo dei rapporti più stretti e provvedere alla pace e alla tranquillità esterna ed interna d'Italia …", e stabilivano di scendere in armi, l'uno in difesa dell'altro, con un esercito di ottantamila, uomini il primo, di venticinquemila il secondo, non appena uno dei due sovrani fosse aggredito da terzi.
Sei giorni dopo la stipulazione di questo trattato, aveva luogo la battaglia di Waterloo e la definitiva caduta di Napoleone, e Ferdinando di Borbone impartiva l’ordine che si agisse subito e usando ogni mezzo per costringere alla resa la piazza di Gaeta (Pescara ed Ancona si erano arrese) dove il presidio comandato dal generale BEGANI teneva ancora inalberata la bandiera di Gioacchino Murat. Gaeta era stretta dal mare dalla flotta inglese e da terra da una divisione capitanata dall'austriaco LAVER.
Questi impiegò gli ultimi giorni di giugno e i primi di luglio nei lavori d'approccio e il 16 luglio, piazzate sei batterie, cominciò a battere la città con un tiro martellante che continuò ininterrotto fino al 19.
Il Begani si difese con molta bravura, ma considerando infine che era inutile la sua resistenza e che non poteva sperare soccorsi dal Murat, il quale se ne viveva nascosto in Provenza, decise di capitolare alle seguenti condizioni: "….Avesse egli facoltà di fare un viaggio fuori del regno; il presidio napoletano godesse dei patti accordati nella capitolazione di Casa Lanza; i sudditi dell'imperatore d'Austria (s'erano rifugiati a Gaeta molti profughi di varie nazioni) e del re di Francia restassero a piena disposizione dei loro sovrani; i soldati toscani, romani e piemontesi fossero vivamente raccomandati alle potenze alleate e fossero intanto trasferiti a Livorno; nessun individuo, civile o militare, potesse essere molestato per le passate opinioni politiche …"Intanto da Vienna, finite le feste del Congresso, lo zar di Russia, l'imperatore d'Austria e il re di Prussia andavano a Parigi e qui, il 26 settembre, stipulavano il famosoTRATTATO DELLA SANTA ALLEANZA.
Mentre i sovrani alleati stringevano a Parigi la Santa Alleanza, un monarca spodestato rivolgeva in mente l'arduo disegno di riacquistare il regno perduto. Era questi GIOACCHINO MURAT, il quale, dopo di essere rimasto per qualche tempo nascosto nella Francia meridionale, era riuscito a trasferirsi in Corsica e, rifiutato l'asilo concessogli dall'imperatore d'Austria a condizione che si stabilisse in una città della Boemia, della Moravia o dell'Austria superiore, aveva deciso di effettuare un audace sbarco a Salerno e così ricacciare, con l'aiuto dei suoi partigiani, il Borbone.
Con duecentocinquanta compagni, raccolti in sei navi leggere, di cui aveva il comando il maltese BARBARÁ, da corsaro divenuto, per opera di Gioacchino, barone e capitano di fregata, il Murat salpò, la notte del 28 settembre 1815, da Aiaccio; ma dopo sei giorni di prospera navigazione, investito da una tempesta che imperversò dal 4 al 7 di ottobre e disperse i legni, si trovò con la nave comandata dal Barbarà nel golfo di Sant'Eufemia.
Sebbene fosse rimasto con soli ventotto compagni, decise di tentar l'impresa e l' 8 ottobre sbarcò al Pizzo in una zona appartata. Cercò di sollevare in suo favore la popolazione e la milizia urbana, ma sia l'una che l'altra lo accolsero con ostilità; Gioacchino Murat la sera pensò bene di allontanarsi di quella zona e recarsi a Monteleone dove sperava di trovare accoglienze migliori. Ma intanto al Pizzo, dopo aver commesso la sciocca imprudenza di aver avvicinato la polizia urbana, un capitano, un certo Trentacapilli, pensando indubbiamente a qualche premio, la mattina dopo all'alba radunato una gruppetto di militi, si metteva sulle tracce del drappello murattiano, lo raggiungeva, prendeva il gruppetto che si era dato alla fuga, a fucilate, veniva ucciso il capitano Moltedo e ferito il tenente Pernice.
Gioacchino, vedendo inutile la resistenza, con alcuni di loro riuscì a guadagnare la costa dov'era il veliero per imbarcarsi, ma quando giunse sulla riva, il Barbarà, che aveva sentito i primi spari, aveva levato subito le ancore e da pochi istanti già veleggiava; ladro ed ingrato, fingeva di non udire i richiami dalla riva, non avendo proprio nessuna intenzione di tornare indietro per imbarcare il suo sovrano, che era ormai senza scampo.
Raggiunto dalle milizie borboniche, il Murat é arrestato e con i compagni condotto al castello del Pizzo. Viene processato e condannato alla fucilazione da una commissione militare: il 13 ottobre 1815, nel castello di Pizzo di Calabria, colpito da sei palle di fucile, perdeva, così, la vita uno dei più ardenti e temerari cavalieri che la storia ricordi.
Ma a Napoli rimaneva il Murattismo, fino al 1861, allorché veniva coronato il sogno di Gioacchino: l'unità e l'indipendenza d'Italia.
A testimonianza del fascino che ha avuto questopersonaggio sui patrioti italiani basterà, però, ricordare che Giuseppe Garibaldi, risalendo la penisola nel 1860 dopo lo sbarco dei Mille, rende omaggio a Pizzo di Calabria alla memoria di Murat e invia ad una carissima amica, la marchesa Pepoli, pronipote di Gioacchino, una delle palle che uccise Murat. "Mando a Lei” scrive “la palla che tolse ai viventi il prode dei prodi, il valorosissimo vincitore della Moscova, Murat, re di Napoli”.
Forse non abbiamo esaudito in maniera perentoria al nostro interrogativo - continua la relazione dello storico Spizzirri - ma abbiamo cercato di far sì che ogni ascoltatore attento si sia fatto la “sua” idea, si sia posto il suo dubbio e non abbia, certamente, inclinato per una risposta negativa.