A Gioacchino Murat, che sotto la sua amministrazione portò una ventata di modernità nel Meridione, con le numerose riforme che vennero attuate in appena un decennio, e al periodo storico che vide in Italia le esperienze e le conseguenze della Rivoluzione francese, il Circolo Culturale “L’Agorà” e il Centro studi “Gioacchino e Napoleone” dedicano ogni anno, a partire dal 1995, convegni e seminari di studio.
Anche quest’anno “Gioacchino Murat: un Re tra storia e leggenda”, è stato il filo conduttore di una serie di proposte predisposte dalle due associazioni come la mostra documentale (13 ottobre – 7 novembre), lo speciale annullo filatelico, una cartolina celebrativa da collezione, realizzata in tiratura limita sulla quale è stato apposto il francobollo riproducente un dipinto di Gennaro Picinni intitolato "Joachim Murat a S. Nicola", raffigurante lo stesso sovrano, ed un catalogo della mostra stampato in tiratura limitata e numerato e l'apposita conversazione culturale, giunta alla sua ventunesima edizione.
A riguardo l'esposizione documentale, allestita nella prestigiosa cornice del Palazzo delle Poste di via Miraglia, ha registrato la presenza di oltre 1.000 visitatori che hanno avuto la possibilità di ripercorrere le fasi salienti del periodo napoleonico e la storia del Regno di Napoli durante l'amministrazione del “decennio francese”.
Tale percorso illustrativo, strutturato su venti pannelli, ha permesso per la facile lettura dei contenuti didattici e divulgativi anche ad un pubblico giovane di conoscere e di approfondire le più importanti vicende storiche del Re di Napoli, come la ventata di modernità nel Meridione attraverso lo strumento delle numerose riforme che vennero attuate in appena un decennio, e quindi della sua collocazione nel contesto europeo.
Ritornando alla mostra documentale, apprezzata anche dalle giovani scolaresche reggine, la stessa è stata arricchita da un'apposita teca dove, insieme a diversi oggetti del periodo storico in argomento, hanno fatto bella mostra di se diversi soldatini di piombo a cavallo del periodo napoleonico.
Per il significato ed il valore di tali contenuti, la manifestazione ha ricevuto l’Alto Patrocinio dell’Institut Français Italia ed a tal proposito è stata letta, da parte di Antonio Megali la lettera inviata dal Presidente del prestigioso Istituto culturale Eric Tallon, nella quale si è congratulato per tale progetto culturale .
Il coordinatore della conversazione culturale Antonino Megali ha evidenziato la figura alquanto variegata di Gioacchino Murat: condottiero dalle ottime capacità e dotato di grande coraggio, figlio della rivoluzione francese, espressione dei principi della mobilità sociale e dei punti cardini quali uguaglianza e libertà, e, non per ordine d'importanza di quanto ebbe ad affermare Napoleone Bonaparte che “nello zaino di ogni soldato dell’esercito francese rivoluzionario era custodito il bastone di maresciallo”.
La parola è passata a Gianni Aiello che ha trattato il tema "Tra il teschio della discordia ed il silenzio degli innocenti" ed il titolo del suo intervento – come lo stesso intervenuto ha precisato – prende spunto dall'interesse che si è sviluppato a seguito di una proposta di deliberazione da parte del Comune di Motta Santa Lucia (Catanzaro), cui ha fatto seguito una recente mozione da parte dei capigruppo di maggioranza ed opposizione del Consiglio regionale calabrese a riguardo la restituzione del cranio del brigante Giuseppe Villella da parte del Museo di Antropologia Criminale “Cesare Lombroso” di Torino.
A tal proposito si registra una sentenza da parte del Tribunale di Lamezia Terme del 5 ottobre 2012 che intimò al Museo del Lombroso di Torino di restituire al Comune di Motta Santa Lucia il cranio di Giuseppe Villella, che secondo alcuni “... per diversi anni si è battuto in favore delle popolazioni meridionali e partecipò alla resistenza contro i Savoia...”.
Nulla togliendo a quanto sopra evidenziato, Gianni Aiello ha ricordato ai presenti che nel carteggio dell'Archivio di Stato di Catanzaro risulta che il Vilella “fu Pietro, di anni 35 venne condannato il 19 giugno del 1844 dalla Gran Corte Criminale a sei anni di reclusione per complicità in furto” per aver sottratto ad un possidente del luogo alcuni pezzi di formaggio, del pane e due capretti nella notte del 29 luglio del 1843.
Secondo il relatore il Giuseppe Vilella, non può essere considerato un brigante, ma l'autore di un furto per “la sopravvivenza” e per sua sfortuna venne avvolto dalle maglie dei tribunali militari piemontesi e della legge “Pica”.
Anche se Gianni Aiello ha avanzato un'ipotesi, anche se priva di fondamento, e cioè che l'amministrazione della seconda restaurazione borbonica, come nel 1799, svuotò le carceri al fine di “arruolare” i detenuti, ma questa naturalmente rimane al momento solo una supposizione.
Dati certi che Giuseppe Vilella era un pastore (atto di matrimonio 23 aprile 1830), come il padre Pietro (atto di morte del 1801) e che, sotto l'amministrazione borbonica, venne condannato per furto da parte della Gran Corte Criminale nel 1844, mentre non risulta chiaro il luogo natio di Giuseppe Vilella dovuto anche ad un vuoto documentale sia nell'archivio parrocchiale di Monte Santa Lucia (1802-1821) che nei registri dello stato civili che partono solo dal 1809.
Inoltre, a riguardo tale aspetto, in alcune pubblicazioni vengono indicati i natali in quel di Monte Santa Lucia, in altre si alternano con quelli di Simeri Crichi, mentre ne “L’atlante criminale. Vita scriteriata di Cesare Lombroso” di Luigi Guarnieri, Ed. Mondadori, 2000, Giuseppe Villella è espressamente detto “contadino di Simeri Crichi”.
La seconda parte della relazione di Gianni Aiello, relativa “al silenzio degli innocenti”, ha il suo quartier generale nell'area di Simeri Crichi ed assume tonalità meno enfatiche rispetto alla prima parte della relazione, come evidenziato dallo stesso ricercatore, e nel contempo è caratterizzata da dati certi.
Le crudeltà che si perpetrarono nell'estate del 1809 nel comune del catanzarese riportano alla mente il massacro di 27 persone, tra cui 20 bambini, avvenuto in una scuola elementare di Sandy Hook, borgo della città di Newtown in Connecticut, avvenuto il 14 dicembre 2012.
L'autore di tale efferato episodio era affetto dalla sindrome di Asperger, mentre gli artefici dell'altra atrocità non presentano nessun disturbo patogeno – come evidenzia Gianni Aiello – ma solo affetti dalla cieca vendetta, come riportato in una missiva del Commissario straordinario del Re in Basilicata e in Calabria Giuseppe Poerio indirizzata al Ministro dell’Interno Giuseppe Zurlo.
Si trattava della banda di Bartolo Scozzafava, alias “il macellajo” di Tiriolo che con il suo seguito operava nella fascia presilana del catanzarese.
Sul numero 352 del “Monitore Napoletano” del 12 luglio 1809, veniva pubblicato che “... dopo aver portato dappertutto il sacco, il ferro e il fuoco, questi mostri della specie umana si abbeverarono in CRICHI, casale distante 6 miglia da Catanzaro, del sangue di 30 infelici fanciulli, che scannarono e gettarono nelle fiamme nel dare l’ultimo addio a una terra che li aveva in gran parte visti nascere [...] I fatti avvenuti in queste occasioni sono sì atroci, che il generale Stuart ha sentito la necessità di scusarsene in faccia all’Europa, proclamando che esso non ha mai autorizzato un piano di guerra sì orribile...” (1)
In “Gioacchino Murat e l’Italia meridionale”, a tal proposito ha commentato Angela Valente: “...Belve umane, i briganti giunsero al sacrificio di 25 bambini figli dei bravi legionari di Crichi, vera nuova strage degli innocenti, che ancora oggi fa salire dai nostri cuori un grido di protesta, che fa eco alla voce commossa ed eloquente di Giuseppe Poerio, il quale sorse ad accusare e condannare, in nome dell’umanità offesa...” (2)
Dalla lettura di altri documenti – prosegue Gianni Aiello – si evince del decesso di altre persone nei giorni seguenti a quelli del 12 luglio 1809 sia tra i civili che tra i militari che furono sepolti anche nelle zone limitrofe di Simeri Crichi, ed a seguito di quella strage vennero adottati dall'amministrazione murattiana provvedimenti restrittivi per arginare tali fenomeni criminosi, come il Decreto di Gioacchino Murat (Monteleone, 10 agosto 1809).
Il territorio venne interessato da altri sanguinosi episodi come quelli avvenuti a Pedace, il 30 ottobre del 1806, a Strongoli, e Sellia, dove si verificarono due tragiche circostanze.
La prima riguarda un giovane prelato che dopo lo svolgimento di una funzione religiosa venne delapidato, dopo numerose sevizie, dalla banda al seguito del capo-massa Turino di Taverna. Mentre la seconda ricordata come “strage di Sellia” dove vennero uccisi diversi componenti della famiglia Perrone. (3)
La parte conclusiva dell'intervento Gianni Aiello si basa su un episodio di alto significato, avvenuto nella giornata del 29 dicembre del 2012 proprio a Simeri Crichi, dove si svolse una cerimonia di pacificazione storica tra la comunità locale e quella di Tiriolo come “purificazione della memoria” dei tragici eventi dell'estate del 1809 che causarono la morte di tanti innocenti, “colpevoli”, forse, di essere figli di coloro che sostenevano un'altra causa.
La parola passa ad Enzo Zolea, studioso e appassionato di teatro, nonché esperto distoria locale e di tradizioni popolari, che ha trattato il tema "L'idea di teatro nel decennio francese a Reggio Calabria".
Il relatore ha parlato sulla costruzione del teatro a Reggio durante l'amministrazione napoleonica nella città dello Stretto e per meglio contestualizzare l'evento si è soffermato su un prima e un dopo, partendo dal terremoto del 1783 e concludendo la sua trattazione intorno al 1848, quando il teatro venne completato nella sua struttura.
Il “tremuoto” del 5 febbraio 1783 venne definito dagli storici come“il grande flagello”, per la potenza devastatrice, le vittime ed i danni provocati al patrimonio edilizio, urbanistico e artistico, soprattutto nella Calabria meridionale e nella Sicilia.
Nella città di Reggio si registrarono poche vittime (179, secondo Giovanni Vivenzio, su una popolazione di 10.000 abitanti) di fronte alle oltre 35.000 nella Calabria. (4)
A seguito di tali fatti tellurici venne istituita la Giunta per la Riedificazione ed attuato un programma di ricostruzione delle aree devastate dal sisma e la Calabria Ulteriore venne divisa in cinque Distretti, ad ognuno dei quali venne assegnato un ingegnere sotto il controllo diretto del Vicario Generale Francesco Pignatelli.
Al Distretto di Reggio venne assegnato Giovan Battista Mori che con il suo progetto di ricostruzione cancellò completamente l'impianto medioevale della città, e tale piano venne presentato al Consiglio comunale nel marzo del 1784 e definitivamente approvato con Decreto Reale il 14 maggio dello stesso anno.
Il relatore ha evidenziato che tale programma era in contrasto sia con i “suggerimenti” degli ingegneri Antonio Winspeare e Francesco La Vega, supervisori dei progetti di ricostruzione per tutta la Calabria, teorici della difesa della città storica, che con la Deputazione Municipale reggina.
Nella compilazione del piano progettuale, Giovan Battista Mori ebbe ad indicare una seriedi costruzioni dislocate lungo l'asse principale, secondo un suo ordine, utilizzando per distinguerle sulla pianta le lettere dell'alfabeto: la lettera A indicava il luogo dove doveva sorgere il Palazzo Arcivescovile, la lettera B il Quartiere per la truppa, la lettera C l'abitazione del Governatore e via di seguito.
Con la lettera P il Mori aveva indicato “il luogo da potersi formare un teatro” nel lotto dove sorgono ora il Palazzo Melissari e Musitano, proprio di fronte all'attuale piazza Italia e tale idea progettuale era legata all'idea della “nuova” città di chiaro stampo illuministico.
L'auspicio di avere in città un teatro era stato formulato anche dal Galanti nella sua visita a Reggio del 1792, ma una serie di eventi che caratterizzano i nuovi scenari politici contrassegnati da alterne vicende nel Mezzogiorno crearono dei ritardi sul progetto di riedificazione, tanto che il 1806 può tranquillamente considerarsi una data epocale nella storia del Regno di Napoli per dovuta alla trasformazione radicale delle sue strutture politiche, amministrative ed economico-sociali.
Per ciò che riguarda Reggio, Gioacchino Murat, col decreto del 16 luglio 1810, dal Campo di Piale, dove si era stabilito assieme al suo esercito, ordinò di “illuminare la città nella notte coi lumi a riverbero, simili a quelli di Napoli, istituire un Reale Liceo, disporre la costruzione di un teatro nel luogo ov'erasi cominciato l'edificio della Casa Comunale, a spese del Tesoro regio, da compirsi nel giro di tre anni”.
Le difficoltà politiche del successivo quinquennio non permisero che si badasse a quell'opera, della quale si era completato appena il progetto, in considerazione anche degli eventi internazionali che si ripercuotevano sull'economia del Regno.
Ma nonostante tali difficoltà venne tracciata dapprima la lunga strada principale sulla quale piano piano dovevano sorgere i palazzi, riedificata la Cattedrale, rifatta la Fontana Nuova. Ma quel che premeva di più ai maggiorenti della città era l'edificazione delle scuole,convitti per l'educazione dei ragazzi e dei giovani.
Dopo la caduta dei napoleonici, Reggio venne scelta come capoluogo della terza provincia costituita in Calabria che prese il nome di Calabria Ultra Prima comprendente i Distretti, oltre che di Reggio, anche di Palmi e Gerace.
In qualità di Intendente (l'attuale Prefetto) fu nominato Nicola Santangelo, il quale accelerò i tempi di ricostruzione, così come per il teatro progettato al tempo di Murat.
A tal proposito venne eletta una Commissione composta dai cavalieri D. Carlo Plutino, D. Vincenzo Ramirez, D. Giuseppe Piconieri, D. Giuseppe Musitano e l'ingegnere comunale, Stefano Calabrò Anzalone.
Il progetto murattiano venne in parte modificato e l'ing Stefano Calabrò Anzalone diede un ultimo tocco al progetto, “il quale imitando il disegno del teatro dei Fiorentini in Napoli – in seguito vedremo che l'Intendente la penserà diversamente – seppe sviluppare abilmente la curva per migliorare la visuale del palcoscenico”.
I lavori procedettero spediti grazie alle anticipazioni in denaro fornite da alcuni proprietariterrieri, tanto che in data 4 aprile 1818 l'Intendente Santangelo informava il Ministero degli Affari Interni di S.M. Il Re: “Eccellenza, il Teatro di questa Città, di cui esisteano appena i fondamenti, trovasi di già ridotto al suo termine. ...È sul gusto del Teatro Nuovo di Napoli. Se cede a questo per poco in grandezza, lo vince sicuramente nella eleganza e nella precisione... Desiderosa questa popolazione di dimostrare la gratitudine verso l'ottimo nostro Monarca, dalla munificenza riconosce i vantaggi, che le assicura l'elevazione a Capitale della Provincia... ha chiesto di onorare il Teatro colla denominazione della Augusta Sua Reale Dinastia... Prego l'Ecc. Vostra di sottometterla ai piedi del Real Trono e d'impetrare la Sua M. che il novello Teatro abbia la denominazione di Borbonio...”.
L'ubicazione del teatro prevista dal Mori prevedeva una posizione centrale, ma le difficoltà burocratiche prima e più ancora le vicende storiche ne ritardarono la costruzione e l'area che era stata prescelta veniva occupata da altri edifici (Palazzo Melissari e Musitano), sicché il teatro trovò nuova sistemazione nel tratto compreso tra la via dei Bianchi e la via Terme, nel lotto ove sorge oggi – continua il relatore Zolea – l'attuale Palazzo delle Poste.
Si passa poi alla descrizione della struttura teatrale basandosi sulle relazioni dell'ing. Calabrò che di volta in volta sottoponeva al Sindaco per le delibere sulle spese sostenute. La sala presentava la caratteristica forma ottocentesca a ferro di cavallo, lunga palmi 42 (m 10,5) e larga 37 (m 9,25), ed era sovrastata da un cielo a forma ellittica il cui asse maggiore era di palmi 41 (m 10,25) e l'asse minore di palmi 36 (m 9). La zoccolatura della platea misurava palmi 118 (m 29,5).
In buona sostanza – prosegue il relatore – tali misurazioni ci fanno pensare ad un salone di una casa grande, ma bisogna tenere presente che Reggio contava allora appena 8.000 abitanti ed il teatro era riservato all'élite della città.
Alla platea si accordavano il posto per l'orchestra ed il palcoscenico, costruito con tavole di castagno e sormontato da un grande arco di legno avente al centro un orologio. In altezza il teatro si sviluppava in due ordini di palchi, i cui parapetti erano dipinti con ornati a bassorilievo; era dotato inoltre di illuminazione con lumi a riverbero, di una vasca per la conservazione delle acque necessarie al fabbisogno del teatro (soprattutto in casi di incendio), di un grande lampadario e di sei camerini.
Ancora incompleto il Real Teatro Borbonio, per volere dell'Intendente Santangelo, fu inaugurato il 30 maggio 1818 in occasione dell'onomastico del Re Ferdinando I, anche se il teatro necessitava di ulteriori lavori di rifacimento.
Nel settembre del 1820 il sindaco di allora Melissari scriveva all'Intendente per chiedere l'autorizzazione di spesa“...per la costruzione della soffitta del palcoscenico con incannizzate e tegole sulle medesime per togliere l'inconveniente della pioggia, del vento e della grandine, giacché pregiudica la salute, non solo degli attori, m'ancora del pubblico...”, ed una serie di lavori e per la sua manutenzione vennero impiegate forze locali: le carte di archivio ci rivelano i nomi dei falegnami Giuseppe Corsaro e Carlo Nunnari, del “murario” Bruno Piccolo, dei pittori Vincenzo e Giuseppe Laganà, del fabbro Fortunato Romeo, dell'orafo Luigi Auteri.
L'Amministrazione comunale forniva alle compagnie tutto il materiale necessario per l'allestimento delle opere e nel dicembre del 1820 si ebbe la prima stagione lirica in città che si protrasse fino al febbraio successivo.
Nel 1823, su richiesta dell'impresario Catani, venne esteso il proscenio con l'aggiunta di quattro palchetti laterali, proprio sotto il grande arco, erette dieci quinte e due teloni per il fondale.
Nel 1846 si ha notizia di un completo ripristino del teatro che portò alla sopraelevazione della parte anteriore, aggiungendo sopra il porticato tre eleganti saloni di rappresentanza che ospitavano il Circolo di Società.
Il terzo intervento è stato quello di Orlando Sorgonà che ha relazionato sul tema delle “Tradizioni popolari ed il folklore nel Mezzogiorno durante il decennio francese”, periodo in cui soldati e ufficiali rimangono particolarmente colpiti dal modo di vivere dei contadini meridionali.
Per loro che avevano conosciuto l’illuminismo alcune tradizioni che si erano stratificate nei secoli apparivano inconcepibili e retaggio di fanatismo e superstizione. Lo apprendiamo dai resoconti, dai diari, dalle lettere che i soldati inviavano alle famiglie, dalle statistiche murattiane.
Fonti importantissime per conoscere quello che Ernesto De Martino definì il mondo magico. Soprattutto la nutrita diaristica degli ufficiali partecipanti ai primi dell'800 alle campagne militari francesi nel Sud osserverà infatti la Calabria con l’ottica particolare dell’invasore armato e la presenterà «come una piccola Spagna leggittimista e ferocemente ostile allo straniero, un paese fanatico e triste dai costumi primitivamente strani e pittorescamente selvatici. Calabria: paese di briganti» .
Lo spirito avventuroso dei militari, lo stile epistolare e non di rado romanzesco, il loro prevalente atteggiamento di animosità verso quella popolazione chiusa ed ostile finiranno per completare la diffusa convinzione di una Calabria terra impraticabile ed insieme pittoresca dando luogo alle suggestive interpretazioni prima romantiche e poi decadenti dei viaggiatori in Calabria lungo l’arco del sec. XIX.
Emergono dai racconti di questi viaggiatori che producevano della Calabria la cattiva nomea e al tempo stesso un fascino irresistibile: l’isolamento geografico, la mancanza di un capoluogo e la concentrazione della ricchezza in poche famiglie.
In una lettera del 12 giugno 1808 l’ufficiale francese Duret De Tavel affermava che “questo popolo non ha alcun vero principio morale e religioso. Come tutti gli uomini ignoranti sono superstiziosi fino al fanatismo. La maggior parte di essi trascorre la propria vita nell’ozio più totale. Si dice, giustamente, che in Calabria ci sono di troppo solo gli abitanti”. la Calabria viene definita dal De Tavel “... la più remota parte del Regno…” viene vista da quest’ultimo con diffidenza e pregiudizio.
Nel 1812 un viaggiatore francese in Calabria, il marchese Astolphe de Constine, spiegò che bisognava cambiare guida da paese a paese perché «gli abitanti delle campagne non escono mai dai confini dei loro paesi e non sanno se il mondo si estende al di là del territorio da loro conosciuto».
Napoleone nell’esilio di Sant’Elena, apprendendo che uno dei suoi carcerieri, l’ammiraglio Sidney-Smith aveva combattuto alla testa di irregolari calabresi contro le sue truppe lo apostrofò definendolo “comandante di traditori”.
E l’immagine del calabrese rozzo, chiuso, violento continuò a diffondersi ed a perpetuarsi. Ai primi dell’800 la regione si presentava più che mai come una squallida «isola» nell’interno stesso del Regno delle Due Sicilie tanto da fare esclamare ad un viaggiatore francese: “Quando si pensa che la Magna Grecia è stato uno dei paesi del mondo più popolato e civilizzato e fertile, è impossibile non deplorare il destino di queste contrade così belle, condannate da tanti secoli ad un graduale continuo deperimento, sino a divenire terre mefitiche.
I fiumi rendono ancora più desolati i campi che inondano, e quando rientrano nel loro letto lasciano gore e paludi che infettano gran parte del paese e costringono gli abitanti ad abbandonare i loro antichi stanziamenti.
L'ignoranza e l'analfabetismo sono l'altra piaga di questi anni infelici. Arretratezza intellettuale e morale caratterizzano le popolazioni del Sud e non poche sono le credenze ed i pregiudizi a cui la gente è legata.
Si fa spesso ricorso alla magara, si teme il "malocchio" o "il fiddittu", ritenuti causa di tante malattie e disavventure, si ha il terrore del diavolo e di esseri strani e malvagi, creati dalla fantasia popolare.
Per la cura delle malattie si va dai cosiddetti "curatori", i quali con intrugli magici, con erbe speciali o impacchi tentano di sanare mali ritenuti inguaribili, come "lu male te Santu Tunatu", "lu focu di Sant'Antoniu"o sistemano arti rotti o slogati.
A seguito dell'editto di Saint Cloud emanato da Napoleone Bonaparte il 12 giugno 1804 furono stabilite nuove norme a riguardo l'ubicazione delle sepolture al di fuori dei luoghi abiti ed in aree luminose ed arieggiate, tutto al fine per motivi igienico-sanitari ed esteso nella penisola italiana il 5 settembre del 1806.
Questa nuova e più igienica pratica della sepoltura nei cimiteri viene però spesso ostacolata dal popolo, che, come riferisce la statistica murattiana per le province di Catanzaro e Reggio Calabria "guarda con un'avversione furibonda il divieto di seppellirsi nelle chiese, dove solo si crede in contatto colla divinità, con cui debbe in tal modo conciliarsi".
Sempre a questo proposito il relatore della statistica murattiana per la provincia di Campobasso ricorda che "con una circolare del Ministro dell'Interno si è ordinata la costruzione dè cimiteri ad un miglio fuori dell'abitato, ma in nessuna comune si è eseguito".
Addirittura, nei giorni immediatamente successivi alla disfatta dei francesi, la popolazione di alcuni paesi diseppellisce i cadaveri dei propri cari dai cimiteri dove era stata costretta ad inumarli e li trasporta nelle chiese.
Numerose sono, anche, le credenze che riguardano la morte come il canto della civetta è considerato un sinistro presagio, come il guaire lamentoso del cane è l'annuncio di morte per il padrone o per qualche familiare.
Il relatore passa ad esaminare alcuni aspetti inerenti agli usi ed alle tradizioni relative al rito funebre come ad esempio a quelli concernenti all'allestimento della bara, prima di deporvi il defunto.
Nel sarcofago venivano posti diversi capi di abbigliamento e tutto ciò che , secondo la tradizione tramandata dai popoli antichi, poteva essere utile durante “il lungo viaggio nell'aldilà”: cappotto, cappello, bastone, scarpe.
Secondo tali usi si credeva che tali oggetti sarebbero stati necessari nell'altra vita.
In Calabria si usava – prosegue Sorgonà – mettere una moneta, secondo un retaggio che possiamo far risalire alla Magna Grecia, mentre non si potevano seppellire oggetti d'oro o pietre preziose, segno d'attaccamento ai beni terreni, che ne “impedivano l'entrata in Paradiso” ed il corpo del defunto veniva collocato al centro della stanza, con i piedi protesi verso l'uscita, per permettere all'anima d'uscire dal corpo, la porta è lasciata socchiusa per tutto il periodo della veglia e, a mezzanotte, si spalanca perché è considerato il momento del trapasso.
Nel corso della conversazione Orlando Sorgonà narra di alcune credenze popolari che narrano la presenza di spiriti in alcuni cimiteri dovuti alla presenze delle fiammelle sulle tombe. Le fiammelle, i cosiddetti fuochi fatui, hanno origine dalla spontanea accensione dei prodotti gassosi della decomposizione dei cadaveri.
Il relatore si sofferma su alcune credenze relative alla nascita e alla morte:due momenti della vita, pieni di eventi inspiegabili e misteriosi, dove si può far spaziare immaginazione e fantasia. Molte congetture si fanno sul sesso del nascituro, secondo la forma della pancia della gestante, se appuntita prevede la nascita di una bambina, se pancia arrotondata quella di un bambino.