Il tema proposto in questo incontro dal sodalizio reggino appare piuttosto inconsueto, visto il prevalente impegno dell'associazione rivolto alla valorizzazione delle memorie  storiche del  nostro territorio, ma si è deciso di dare spazio molto volentieri alla proposta di presentare la pubblicazione edita dalla Franco Angeli - Milano, dal titolo "Il grande occhiale" perché essa si caratterizza , oltre che per l'alto interesse socio-familiare e la sua scottante attualità, anche per la presenza, al suo interno, di un pregevole scritto di una nostra conterranea, Mimma Suraci Caridi, nata a  S.Stefano in Aspromonte ed oggi residente in città, e che ha per titolo "Scarpe di pezza".
"Il grande occhiale" è  una raccolta di saggi, lettere e scritti che descrivono storie ed esperienze di vita familiare e quotidiana raccontate dalle autrici che condividono  pienamente, in tema di educazione dei figli, l'orientamento di pensiero di Giuliana Ukmar,  neuropsichiatra infantile e psicoterapeuta prematuramente scomparsa, nell'ambito della prima edizione del Premio a lei dedicato. 
L' Editore Franco Angeli, dunque, successivamente, decide di riunire gli scritti pervenuti per quel concorso in un volume che viene pubblicato, qualche anno dopo, nel mese di Settembre 2005 a cura di Patrizia Adamoli, la quale sottolinea nella prefazione l'importanza della comunicazione nel suo significato più autentico di "stare in comunione", mentre oggi è un orpello, una tecnica da manifestare.
La redattrice considera fondamentale la necessità di prestare attenzione verso i bambini, i quali stanno nel presente e per i quali il presente è eterno, mentre la vita e le nostre paure ci portano nell'altrove.
La comunicazione più efficace è necessario che sia empatica e che avvenga attraverso il dialogo (dal greco dia-logo) andando al di là ,oltre le parole come sostiene la Panero, per la quale la Ukmar è come "Il grande occhiale", definizione che dà il titolo al volume, con il quale scruta l'animo umano e invita ognuno a fare lo stesso , con la curiosità che fa dilatare lo sguardo e amplificare l' ascolto.
Ritroviamo qui la maieutica socratica e l' "in te ipsum redi " di Sant' Agostino.
Scrivere, in questa prospettiva, è quel non so che da fermare prendendo appunti  e far aprire  gli occhi a se stessi e al lettore.
Quanto mai opportuna, a questo riguardo , la citazione di Gibran: "nella rugiada delle piccole cose il cuore scopre il suo mattino  e si conforta".
Si succedono nel volume scritti di mamme, di insegnanti, di una ragazza, di adozioni, di bulimia, di disagi diversi e di vita cosiddetta normale.
In tutti gli elaborati ci sono spunti interessanti, in tutti c'è spontaneità e la trasparenza di poter esprimere in libertà, a voce alta, le proprie riflessioni, aprendosi all'ignoto.
Si tratta di esperienze di "self help", cioè di auto- aiuto, che rafforzano il concetto che ognuno può trovare in se, senza necessariamente l'aiuto di psicologi o neuropsichiatri, la forza, la capacità e l'energia per aiutare se stesso, soprattutto nel  ruolo spesso difficile di genitore ed educatore.
La manifestazione si è aperta con l'introduzione di Antonio Stiriti, socio delsodalizio reggino, il quale ha dapprima tratteggiato sinteticamente il pensiero della neuropsichiatra Giuliana Ukmar, riportando soprattutto quanto lei stessa aveva dichiarato, in occasione di una conferenza tenuta nel marzo 2000 a Tione (TN).
La Ukmar, nonostante si fosse analizzata per ben quattro anni con metodo freudiano, aveva inizialmente deciso che non avrebbe svolto l'attività di psicanalista dei bambini, per una serie di difficoltà.
Tra queste vi era il fatto che il bambino, a differenza dell'adulto non ha ricordi, fantasie e sogni da riportare in superficie sul lettino dell'analista e su cui lavorare magari durante sedute di terapia bi o tri-settimanali.
Altra cosa che trovava inadeguato era il "setting" della psicoterapia, l'ambiente cioè in cui si svolge: il bambino, a differenza dell'adulto non è completamente all'interno della stanza, lascia fuori dalla porta il papà o la mamma o tutti e due i genitori.
Ma egli non è ancora una persona completa: nei bambini molto piccoli si parla infatti di diade madre-bambino, come se fosse una cosa sola che ancora non si è separata.
E quindi il fatto che metà bambino restava fuori dalla porta, provocava molti inconvenienti, il primo dei quali era una terapia condotta a metà.
La Ukmar avvertì quindi la necessità di eseguire anche un training di Terapia della Famiglia, portato in Italia in quegli anni da Palazzoli (da Palo Alto in America).
La convinzione che gli atteggiamenti di onnipotenza infantile sono alla base di molti problemi maturò, nel corso della sua attività professionale, in particolare durante un lavoro di ricerca svolto col Prof. Zappella, primario neuropsichiatra di Siena, sui bambini autistici.
L'autismo è una delle patologie psichiatriche più gravi dell'infanzia; i bambini autistici sono bambini perfettamente normali, nati bene e senza grossi problemi, che iniziano una loro vita apparentemente normale, camminano, cominciano a parlare, a relazionare con l'ambiente, ma poi, improvvisamente, dai 18 ai 30 mesi, per una causa che non si conosce, chiudono la porta e si rintanano in una loro esistenza completamente privata, dove non è più possibile andare a recuperarli, chiudendo il rapporto col mondo.
La Ukmar mise dunque a punto un protocollo, una checklist strutturata come intervista ai genitori, tra le cui domande c'era sempre: "Chi comanda in casa vostra?"
La risposta univoca era "il bambino" e "con assoluto potere decisionale".
Era il loro figlio che decideva chi entrava e chi usciva, cosa mangiare e cosa no, a che ora andare a dormire e se andare a dormire ecc.
Quindi Giuliana Ukmar pensò di porre la stessa domanda "Chi comanda in casa vostra?", nel corso della sua attività di terapeuta della famiglia, anche ai genitori di bambini non autistici ma con altri sintomi: fobia della scuola, incubi notturni, particolare vivacità ed iperattività, e  tutte le volte che faceva questa domanda la risposta era sempre la stessa, che comandava il loro figlio.
In particolare la psicoterapeuta notò anche che vi erano particolari categorie di genitori più frequentemente alle prese con un bambino"onnipotente" e tra questi i genitori diventati tali molto giovani.
Questi ultimi non riescono più oggi a sacrificarsi per i figli come avveniva una volta, ma hanno voglia di continuare ad organizzare il loro tempo libero.
Ed anche i loro bambini si ritrovano spesso ad essere portati in giro, magari negli zainetti, ad es. a passeggiare sul lungomare a mezzanotte anziché essere nel loro lettino a dormire: per compensare i loro sensi di colpa, tali genitori sono pronti ad accontentare immediatamente il loro bambini ogni qualvolta piangono.
E' un corto circuito che può dare origine ad una costante richiesta del bambino e ad una costante concessione dell'adulto e nascono così i bambini onnipotenti.
Un'altra categoria di figli destinati a sviluppare sintomi di onnipotenza, sono quei bambini che per un motivo "x" sono classificati dai genitori come "poverini".
Quelli che hanno avuto ad esempio convulsioni febbrili, o nati da un parto difficile: i loro genitori temendo che il loro pianto possa scatenare la  convulsione, sono pronti ad accontentarli  ad ogni minima richiesta.
E diventeranno bambini con tantissime richieste, e siccome sono "poverini", con quello che hanno passato.... si dirà loro sempre di sì.
Tali bambini si porteranno dietro, in definitiva,  tratti costanti di quel narcisismo primario, primo stadio dello sviluppo psico-affettivo, che doveva essere superato del tutto con l'avvio a quelle che sono le relazioni sociali con regole da seguire.
Avviene cioè  che il  comportamento istintivo di pulsione-soddisfazione dei primi mesi di vita (Stimolo fame, manifestato con il pianto, a cui consegue subito la risposta della madre con l'allattamento) può diventare comportamento appreso strutturato e permanente, disturbante nel resto della vita del bambino.
Cosa succede dunque ad un ragazzo, ad un adulto che è stato in passato un bambino "onnipotente"?
Abituato, com'era da piccolo, a modificare la realtà (se piango anzichè di una caramella ne ricevo due) l'adolescente o adulto può andare incontro al problema di non riuscire a cambiare una realtà ostile che gli si può presentare nel corso della vita, anche la semplice difficoltà a fronteggiare gli insuccessi scolastici, e può essere indotto a costruirsi una propria realtà interiore diversa da quella esterna e reale fino ad intraprendere, nella peggiore delle ipotesi, una carriera psichiatrica con rifugio nelle  tossicodipendenze, nei comportamenti antisociali, nei disturbi della condotta alimentare (anoressia, bulimia).
Giuliana Ukmar ha quindi sottolineato, nei suoi libri rivolti al grande pubblico "Se mi vuoi  bene dimmi di no" e "Firmato: una mamma in  pena", l'importanza di mettere in pratica la "pedagogia delle regole", abbandonata dopo la rivoluzione e la propaganda degli anni '60 (Benjamin Spock),  in cui si sosteneva che il bambino andava trattato come un piccolo adulto e non gli si doveva imporre più niente, con la conseguenza inesorabile dell'orientamento verso un permissivismo esasperato e la perdita del ruolo di educatori dei genitori.
Questo perché i ragazzi senza regole non conoscono alcun limite, cadono in preda al delirio di onnipotenza che li induce a crearsi una realtà su misura: vivono un  IO che invade,  che si afferma a spese degli altri, non avvertono doveri ma solo diritti e gli altri, se non servono a qualche scopo, non contano nulla.
Certamente le regole non sono universali, vanno studiate per ogni famiglia e devono essere mediate tra le esigenze della mamma e quelle del papà; devono essere poche ma vanno fatte rispettare, sebbene non si auspica certo il ritorno all'autoritarismo del passato.
Alla regola deve corrispondere una multa, che non è una punizione corporale, ma un castigo che colpisca il ragazzino in qualcosa che gli preme, ma che comunque non deve mai essere più cattivo della regola infranta.
La Ukmar sostiene inoltre l'importanza del rispetto delle regole anche in altri contesti che interagiscono con il bambino, che sono la scuola o la casa dei nonni.
Può essere nocivo quindi l'atteggiamento di certi genitori di contestare un insegnante che vuole fare rispettare una regola, sebbene poco gradita dal bambino, così come sono dannosi gli atteggiamenti di permissivismo esagerato di taluni nonni.
Un altro concetto sottolineato dalla Ukmar è che nessun genitore deve mai mettere in discussione per nessun motivo la figura dell'altro genitore, nemmeno se questo è stato il partner peggiore del mondo: una qualsiasi persona può essere un partner pessimo e contemporaneamente un buon genitore e poi, comunque, il bambino deve essere aiutato ad interiorizzare un genitore buono, senza mettere in atto un attaccamento ambivalente di odio-amore durante la crescita ma un attaccamento di tipo sicuro, almeno finché non avrà 16-18 anni e si accorgerà da solo di che pasta è fatto.
Argomento questo di scottante attualità visto il numero sempre crescente di separazioni e divorzi.
"L'attualità del messaggio di Giuliana Ukmar - ha proseguito Antonio Stiriti -  è testimoniata soprattutto dalla presenza di volumi come quello che stiamo presentando stasera, che è una  raccolta di esperienze di vita e dinamiche familiari veramente vissute".
Il relatore è quindi passato ad illustrare, per grandi linee, il contenuto dei singoli scritti che compongono la raccolta.
"Il grande occhiale" si apre con l'introduzione  "Io ci sono. E tu?" di Patrizia Adamoli, la curatrice della raccolta che sottolinea la necessità di una reale comunicazione con i  propri figli.
I genitori devono cioè "esserci" veramente, con tutte le emozioni che hanno dentro, cosa che avolte costa impegno e fatica perché nel comunicare si può diventare "vulnerabili"e la cosa può essere vissuta con ansia, ma l'esserci o no viene percepito chiaramente ed immediatamente dai figli.
Importante è anche comunicare con i bambini con una intenzionalità di reciprocità dire-ascoltare.
L'Adamoli chiarisce anche il concetto di self help, di auto-aiuto, di cui abbiamo appunto parlato all'inizio di quest'incontro.
"Il grande occhiale" è anche  il titolo della lettera , scritta da Daniela Panero, la quale spiega che  la Ukmar ha fornito con la sua opera uno strumento ottico, per l'appunto un " grande occhiale", per aiutare i genitori in difficoltà a focalizzare bene le correzioni di rotta necessarie per una buona educazione dei propri figli e per scongiurare il pericolo della sindrome del bambino onnipotente.
La successiva storia, che precede lo scritto di Mimma Suraci, è "Diario di una madre in pena" di Luisa Vaiana.
E' il racconto della difficile esperienza di una madre vissuta con il figlio secondogenito che assume sin dall'epoca della preadolescenza gli atteggiamenti di onnipotenza di cui si è parlato.
Il racconto si dipana attraverso una serie interminabile di situazioni negative alle quali il figlio va progressivamente incontro, e la madre esprime l'amarezza per il suo comportamento in famiglia, lo scarso rendimento scolastico e sportivo, l'esperienza negativa del servizio militare,  le difficoltà nelle esperienze affettive fino al pericoloso sbocco nell'uso di droghe leggere.
Di fronte al comportamento polemico nei confronti dei genitori, all'atteggiamento di irritabilità, alla scoperta di piccoli furti in casa, iniziano le peregrinazioni attraverso vari specialisti, psicologi e neuropsichiatri, ma senza risultati confortanti.
Quindi l'acquisizione della consapevolezza, da parte dell'autrice, che il genitore non deve mai perdere di vista l'autorevolezza, affinché i figli percepiscano nel genitore la figura del comando e riconoscano le regole loro imposte.
Lo scritto  "Non è mai troppo tardi" di Gaia Sacchi, è quello di un'insegnante che, come lei stessa spiega, scrive queste righe spinta dalla rabbia e da un senso di impotenza nei confronti del dilagare del fenomeno dell'onnipotenza infantile.
L'autrice del saggio  vede concretamente e quotidianamente l'esplicarsi di tali atteggiamenti, a differenza dello psicoterapeuta che interviene solo nel momento in cui un membro della famiglia richiede aiuto.
Riporta quindi la sua esperienza con i bambini cosiddetti "caratteriali", che hanno difficoltà ad inserirsi in un contesto sociale e che esprimono atteggiamenti di prepotenza, a volte disturbi di concentrazione ed ipercinesia, e che hanno come denominatore comune l'aver potuto assumere in famiglia atteggiamenti di comando.
I genitori di questi bambini appartengono spesso alla classe sociale medio-alta, ed i loro figli vanno incontro ad una condizione di infinita insoddisfazione che li porta a richiedere sempre di più.
I rimedi? Anche la Sacchi auspica naturalmente un ritorno al rispetto delle regole e dei ruoli in famiglia.
Il ruolo dell'insegnante è innanzitutto quello di identificare il vissuto del bambino, che si discosta dai parametri della normalità, come problematico, e quindi contrastare gli atteggiamenti di onnipotenza ristabilendo l'equilibrio relazionale del bambino che cerca di imporsi in posizione di dominio rispetto ai compagni più fragili.
Ma bisogna anche comunicargli un'identità positiva rafforzando ed enfatizzando i lati positivi del suo carattere.
L'autrice sostiene quindi che i giochi di gruppo, a differenza di quelli elettronici in cui il bambino è accentratore di tutte le funzioni,  hanno il merito di insegnare che il mondo che ci circonda è governato da regole, nel principio del rispetto di tutti.
E lo stesso vale per l'attività sportiva. Anche le fiabe, in cui i personaggi hanno dei ruoli precisi, in cui c'è il cattivo e il buono e in genere trionfa il bene, non possono che stimolare stili di vita positivi, a differenza dei programmi di certa televisione.
Nella conclusione del suo saggio l'autrice si spinge ad azzardare l'ipotesi che anche il triste episodio di cronaca dell'uccisione da parte di Erika di madre e fratellino, possa essere l'estremo esito di un atteggiamento di onnipotenza della ragazza, spinto a ritenersi di poter decidere perfino della vita e della morte di chi le stava accanto.
Il seguente breve scritto "Firmato: una ragazza in pena" di Margherita Vaschetto è la  testimonianza di una ragazza affetta da un disturbo del comportamento alimentare, labulimia, e che,  dall'incontro con i libri di Giuliana Ukmar trae, se non la forza per una vera e propria guarigione, sicuramente una migliore capacità di elaborare l'esperienza della sofferenza e di controllare meglio i pensieri che prima la trascinavano frequentemente in momenti di sconforto.
Il racconto di Barbara Mondelli "Due più uno non fa tre" stimola la riflessione partendo dalla cronaca, a tratti divertente,  del vivere quotidiano di una mamma a tempo pieno, alle prese con  tre bambini pestiferi nati a pochi anni di distanza l'uno dall'altro: il lettore segue la deliziosa narrazione delle ansie quotidiane dell'autrice che descrive le sue giornate, fatte di bagnetti, di tavole da apparecchiare, festicciole da organizzare, asili, pediatri da consultare, nonni non sempre di grande aiuto.
Tutto il racconto è anche percorso da un  filo di sottile ironia che rende particolarmente piacevole e simpatica la lettura  delle scorribande quotidiane dei tre pargoli e dell'affannato da farsi della loro mamma, che considera comunque questo periodo il più felice della sua vita.
"Lettere ad un bambino nato" di Antonia  Donatiello è il tenero diario di una madre che, immaginando di indirizzare delle brevi lettere l proprio bambino di quattro anni, gli racconta con trepidazione le tappe della sua crescita , a partire da quando inizia a sentirne la presenza in grembo e poi attraverso le dolci esperienze del primo bagnetto, della prima visita dal pediatra, dei primi regali, delle prime passeggiate al mare e in montagna, del primo compleanno, delle visite ai nonni, delle prime parole e dei primi passi.
Il tema complesso e delicato della corretta educazione dei figli adottivi è affrontato nei due successivi scritti, la breve lettera "Buon Compleanno" di Gabriella Ferraro e soprattutto  il racconto più consistente "2 + 1 = 4" di Lucia Rivetti. 
Quest'ultimo riporta l'esperienza di due coniugi lombardi, già genitori di due figli naturali, che desiderano vivere anche l'esperienza dell'adozione internazionale e, dopo un lungo  iter burocratico, ottengono l'adozione di due bambini etiopi provenienti da un orfanotrofio africano e quindi senza ancora il minimo concetto di famiglia e di regole.
Raccontano quindi la loro esperienza educativa vissuta cercando di evitare il comportamento permissivo di taluni genitori nei confronti dei bambini adottivi, quasi a risarcirli del loro doloroso passato, che può portare, in certi casi, ad atteggiamenti di onnipotenza infantile.
Quindi l'aver trattato i figli adottivi proprio alla pari dei primi due naturali, sebbene all'inizio sia stato un punto a loro sfavore (insorgenza di gelosie tra figli naturali e adottivi) ha dato alla lunga  i suoi frutti, testimoniati dall'ottimo rendimento scolastico di tutti i figli, anche per l'atteggiamento intransigente dei genitori nel richiedere loro di mettere sempre impegno in ogni cosa che avrebbero fatto.
Nel successivo scritto di Anna Maria Barberis "Il bene difficile" l'autrice, che è un'insegnante,  trae dalla sua esperienza professionale la convinzione che a volte i genitori non sempre vivono con sofferenza e difficoltà gli atteggiamenti di onnipotenza dei loro figli, ma addirittura possono compiacersene, oltre che esserne causa.
E' il caso ad esempio del piccolo Asar che era stato educato dai genitori a dover essere a tutti i costi il primo, il più bravo, il più perfetto nei confronti dei compagni. In un altro caso, quello del piccolo Tino, l'insegnante arrivò invece a scoprire che i suoi comportamenti di irrequietezza e scarsa concentrazione erano causati da un atteggiamento petulante e troppo esigente del padre che aveva  una visione molto distorta dell'educazione.
La Barberis sottolinea quindi come il ruolo dell'insegnante non può limitarsi alle tecniche di apprendimento  ma deve invadere il campo della formazione e dell'educazione.
L'autrice affronta poi vari argomenti,  tra i quali c'è quello dei regali fatti ai bambini, che, se fini a se stessi, aggiungono poco al loro benessere affettivo se i figli non vengono fatti sentire autori e protagonisti del gioco.
Le regole educative espresse dalla Barberis sono praticamente condivise, anche nel successivo scritto "Dalla parte di loro..", da Oldana  Biondi, un'insegnante che evidenzia l'importanza del saper comunicare, la necessità di stimolare nei bambini la curiosità per la scuola e la necessità di dare la giusta rilevanza all'aspetto artistico e ludico dentro l'educare.
Completa "Il grande occhiale " un'ultima serie di brevi scritti che affrontano tutti il rapporto genitori-figli  seguendo i medesimi orientamenti di pensiero di Giuliana Ukmar.
Essi sono "Alcor " di Monica Corpetti, "Un no detto per amore" di Anna Giallo", "Un pezzetto di cuore" di Ivana Debiasi, "Il tuo viaggio" di  Daniela Colman e "Una mamma felice" di Simona Galizzi.
La raccolta si conclude con la  tenera fiaba "Ufetta" di Irmes Cenni, che ripropone il tema dell'adozione e delle problematiche ad essa connesse, in maniera delicata ma anche molto efficace, seppur attraverso la forma di un racconto fantastico.
Nel saggio "Scarpe di pezza" di Mimma Suraci, vi è innanzitutto da registrare una delle prime espressioni dell'autrice che colpisce positivamente il lettore, quella di non avere la pretesa di affermare delle verità assolute o di imporre dei modi di comportamento ma solo di descrivere alcune risonanze del proprio vissuto di madre per aiutare se stessa e gli altri a capirsi meglio.
Ed iniziando a seguire il racconto delle sue esperienze di vita familiare, che prende le mosse proprio dai ricordi della sua infanzia nel paese natale,  salta agli occhi immediatamente l'elemento di intensa sofferenza vissuto dall'autrice alla tenera età di cinque anni, quando deve confrontarsi con il mistero della morte a causa della perdita del padre, ed è costretta a trascorrere tre lunghi anni in un collegio di suore in città.
E' un'esperienza che l'autrice stessa definisce "tre anni di carcere duro" ed è un evento emotivamente traumatico che certamente condiziona, ed in maniera indelebile, la sua personalità, le sue scelte di vita della maturità, il ruolo di centralità che rivestiranno la famiglia e  l'educazione dei figli nella sua vita degli anni a venire.
Ma tra i suoi ricordi di infanzia ce n'è anche uno che affascina il lettore per sua straordinaria intensità narrativa: è la descrizione delle passeggiate estive per i giardini di montagna  con i piedi avvolti in scarpe di pezza.
"Era quasi come camminare scalzi: respiravo l'odore della terra, ora umida, ora asciutta, gustavo quel sapore intenso, delicato e nel contempo forte, difficile da definire perché sa di bosco, di profumo di fiori e di erbe varie mescolate insieme, del quale spesso si impregnavano i miei piedi, e che mi penetrava fin nelle ossa generando in me una sensazione particolare, come se fosse un tutt'uno con la terra, con la mia terra, con la natura, alla quale sentivo di appartenere.
Camminare a piedi nudi, anche sulla nuda terra, contribuisce alla formazione del carattere e all'accrescimento psicofisico della persona, trasmette la consapevolezza di far parte della terra, del creato, ci si sente, insomma creature umane."
E' uno scritto interessante ed avvincente da molti punti di vista. Interessante certamente per l'attualità dei temi affrontati: l'autrice, parlando  in prima persona ai propri figli, affronta i tanti argomenti del vivere quotidiano, dalla scuola allo sport, dall'affettività alla sessualità e al matrimonio, dall'elaborazione della perdita dei propri cari al tema scottante della corretta educazione dei figli attraverso il confronto-incontro con Giuliana Ukmar.
La Suraci sostiene che è indispensabile possedere un'impostazione di base che consenta di avere le idee chiare sul ruolo da svolgere come genitore e che l'esperienza vada fatta ad personam, dovendo i genitori  stessi capire quale sia la risposta giusta ad ogni domanda. L'autrice racconta inoltre la propria esperienza come responsabile e fondatrice di una sezione cittadina dell'Associazione Italiana Genitori che ha come impegno prioritario la scuola per genitori.
E su questo argomento scopre l'affinità delle sue idee con quelle di Giuliana Ukmar soprattutto la convinzione che l'educazione di oggi è diventata troppo permissiva generando nei figli un senso di protagonismo e di onnipotenza, ed esprime inoltre il concetto che dentro di noi possiamo trovare l'energia necessaria per affrontare e risolvere qualsiasi problema ci si proponga e sta a noi saperla utilizzare in maniera positiva.
L'autrice avverte  anche l'esigenza di cercare di trasmettere ai propri figli la capacità di osservare con distacco ogni accadimento della vita e di  elaborarlo rapidamente.
Il capitolo conclusivo del saggio di Mimma Suraci ha per tema l'amore, soprattutto quello per i propri figli, che è un compito difficile per i genitori.
Per l'autrice esso consiste nel trasmettere loro sentimenti di fiducia e di stima che accrescano la consapevolezza della propria identità di persona e dei propri sentimenti e nel  renderli capaci di fare discernimento ed operare le proprie scelte con giudizio.
In tal senso al famiglia dovrebbe diventare un vero e proprio laboratorio sociale familiare in cui i confronti, le discussioni e i litigi tra i figli contribuiscono alla formazione del carattere.
Dopo l'intervento introduttivo,  ha preso la parola Mimma Suraci Caridi, la quale, dopo avere  ringraziato il Circolo Culturale l'Agorà ed aver voluto evidenziare la sensibilità dimostrata da Antonio Stiriti nel cogliere i diversi aspetti e significati  profondi, contenuti tra le pagine  degli scritti, ha aperto la sua relazione citando l'espressione "Tutti i grandi sono stati bambini  una volta" tratta dal romanzo "Il Piccolo Principe" di Antoine de Saint-Exupéry.
Tale frase -  ha spiegato l'autrice -  esprime  bene la sua condizione di mamma e di figlia, con la quale si deve  misurare quotidianamente e,  sebbene lei  personalmente  preferisca ascoltare piuttosto che parlare, quando si è ritrovata con tre figli piccoli, con i loro perché  e con la loro educazione, ha dovuto riflettere sul modo di comunicare.
Spesso i suoi figli le ponevano delle domande e, poi, trascuravano la sua risposta , generando in lei irritazione e stizza; tanto che un giorno  ha deciso  di buttar giù per iscritto  alcuni episodi essenziali  della loro vita, in modo da consentire loro di soddisfare il proprio bisogno di conoscere la loro esistenza in maniera più o meno autonoma .
Ha cercato, quindi, di confrontare  la loro infanzia  con la sua, per soddisfare  meglio la loro curiosità; così facendo  rispondeva  anche al suo bisogno di  fermare sulla carta le sue risonanze  per potersi ,in qualche modo,giudicare.
Ha precisato, infatti, di essere, naturalmente, curiosa di tutto, e di chiedersi sempre il perché delle cose, alla ricerca  del vero, del bello e del giusto, quelle che Gina Lagorio ha definito "le ali di sempre".
La curiosità la induce a mettersi continuamente in discussione e ad analizzare  tutto ciò che la circonda.
Nasce così lo scritto "Scarpe di pezza" , che richiama nel titolo le scarpe  per casa che sua madre le confezionava con le proprie mani, con ago e filo.
Amava indossare  quelle calzature anche per andare fuori di casa, a calpestare l'erba del giardino della  tenuta di campagna, dove ha trascorso la sua fanciullezza.
Risale a quegli anni il primo incontro con la magia del racconto, con l'incantesimo del narrare.
Radunati intorno al fuoco del  braciere sostenuto dalla "conca" di legno, gli adulti conversavano  del più e del meno con pacatezza.
Nettissima si staglia, scolpita perennemente nella sua mente, la figura di quel vecchio amico di famiglia che, sebbene non acculturato, era un grande affabulatore  e le narrava, piangendo di commozione, la storia dei suoi avi e del suo paese, mentre accarezzava le profonde rughe che gli solcavano il volto: e si incantava ad ascoltarlo affascinata.
Questo vecchio rappresenta, per lei, la storia, la sofia, la saggezza, la memoria di un passato che le appartiene e al quale appartiene.
La relatrice ha inoltre spiegato che rovistare tra le scartoffie, frequentare archivi, librerie, biblioteche, annusare  e respirare l'odore dei libri ingialliti dal tempo,  la rapisce, la  seduce e la stimola. a ricercare ancora."Scarpe di pezza" è, dunque, una ricerca nel suo IO , una sorta di analisi interiore per capire meglio chi è,  piccola creatura sperduta in un universo infinito e misterioso.
La nascita dei suoi figli, i loro capricci, la salute, lo sport, l'alimentazione, i problemi esistenziali, la religione, la scuola, il sesso, l'amore, la famiglia, sono alcuni  dei temi tracciati, un po' sopra le righe per non rendere pesante la lettura, ma assolutamente aderenti alla realtà, quindi, veri.
Per caso un giorno legge su una rivista  che la casa editrice Franco Angeli bandisce un concorso in memoria di Giuliana Ukmar,per uno scritto che faccia riferimento alle terapie portate avanti dalla psicoterapeuta prematuramente scomparsa.
Tra i molti testi che ha letto e consultato per aiutarsi nel ruolo di mamma, c'erano pure i due libri di Giuliana Ukmar " Se mi vuoi bene dimmi di no" e " Firmato: una mamma in pena" editi proprio dalla Franco Angeli.
Gli aspetti che l'hanno maggiormente interessata nella lettura di questi testi sono il "senso di onnipotenza", tanto diffuso nella società attuale e che tanti danni può causare, e la possibilità di superare gli squilibri comportamentali con la terapia "energetica familiare",  in cui occupano un posto importante la giusta capacità di opposizione e il ruolo del padre, oggi spesso, purtroppo trascurato.
"Il fine è quello di andar a cercare dove si è bloccata l'energia e liberarla, sciogliendo il nodo relazionale che la consuma in quantità abnorme".
"Giovanna non sapeva ancora come chiamare quell'energia superiore contro la quale non poteva vincere. Per principio non voleva chiamarla Dio, ma non aveva importanza.
L'importante era che l'armonia della natura le avesse fatto cogliere la profonda bontà e bellezza e logicità e coerenza del mondo: qualcosa che non può essere casuale e non può essere cattivo, qualcosa al cui flusso ci si può abbandonare."
Ha le idee chiare, Giuliana Ukmar, e le sue teorie sono avvalorate dai positivi risultati ottenuti - peccato sia mancata troppo presto  - ha aggiunto l'autrice.
A Mimma Suraci  piace cogliere, tra i molti messaggi positivi, quello particolarmente significativo di Antonia Donatiello, mamma di Michele, sulla proiezione  come incantesimo: se ci si aspetta il meglio, sarà possibile che lo si ottenga,mentre, se si prevede il peggio,le persone non saranno in grado di  dare il meglio di sé.
In conclusione la coautrice ha affermato che è importante sottolineare  la necessità di intrattenere  con i ragazzi  rapporti impostati sulla concretezza, parlando il linguaggio dei fatti, impostato sul rispetto delle regole con autorevolezza e con amore,in modo da consentire uno sviluppo armonico ed equilibrato che permetta loro di operare le scelte della vita anche andando, all'occorrenza, controcorrente per sfuggire al conformismo di massa, caratteristica abbastanza diffusa nel mondo attuale.
Scrivere dunque è, per Mimma Suraci, esigenza vitale, per oggettivare i suoi pensieri e poterli in un certo senso giudicare, e quindi giudicarsi, con rigore e severità.
Tale impostazione di pensiero è anche alle base delle scelte di vita operate dalla stessa autrice: ella infatti, dopo la Laurea in Scienze Politiche ed un lavoro svolto per circa 20 anni in un istituto bancario ricoprendo incarichi importanti, decide di lasciare la banca per dedicarsi alla famiglia, ai tre figli ed al marito, con il quale oggi collabora nella conduzione di un'azienda agraria in Aspromonte.
Non ha mai trascurato inoltre gli interessi umanistici che l'hanno spesso portata a frequentare, a Milano, seminari di letteratura italiana, filosofia e storia dell'Università Cattolica.
Abilitata all'insegnamento di psicologia sociale e pubbliche relazioni, ha fondato nel 1995 a Reggio una sezione dell'Associazione Italiana Genitori (AGe), nata a Roma nel 1968, alla quale si è dedicata per cinque anni, specializzandosi in formazione e frequentando un master su tre livelli organizzato dall'AGe e riconosciuto dal Miur.
Pur non potendo risiedere più nel paese natale, ha sempre sentito in maniera viscerale il legame col territorio, cerca di scoprirne l'anima forse nascosta da una vita troppo frenetica e che dimentica spesso la dimensione umana più autentica, nella quale occupa un posto molto importante la natura.
La curiosità l'ha sempre spinta a chiedersi sempre il perché delle cose e non accontentarsi di risposte superficiale: da qui nasce il bisogno di cercare e ricercare.
E và infine rilevato che anche l'odore dei libri ingialliti dal tempo, degli archivi e delle biblioteche, ha sempre esercitato su di lei un fascino prepotente, che è testimoniato in alcuni lavori di ricerca storica svolti nella città di Reggio, dove vive tuttora.

ShinyStat
7 febbraio 2006