
Il tema, oggetto della  discussione in argomento, rientra nella sfera cronologica del novecento,  periodo storico al quale il Circolo Culturale L'Agorà rivolge attenzione da  tempo.
  Ciò che ha scatenato la guerra  del Vietnam ha radici antiche, infatti nel corso del suo intervento Gianni  Aiello evidenzia che [...nell'agosto del 1945 la rivoluzione condotta dal  Viet Minh conquista il potere successivamente ad Hanoi, a Hué - dove  l'imperatore Bao-Dai abdica - e a Saigon. Il 2 settembre Ho Chi-minh proclama  ad Hanoi l'indipendenza del Vietnam e l'avvento della Repubblica democratica.  Il giovane Stato riesce a superare difficoltà di ogni genere: economiche,  finanziare, politiche. Malgrado la convenzione del 6 marzo 1946 che riconosce il  Vietnam come «Stato libero in seno all'Unione Francese», i Francesi - che hanno  rioccupato il Sud, la Cambogia e il Laos e credono di poter riconquistare  facilmente il Nord - adottano una politica «del fatto compito», incoraggiando  il separatismo sudista. Il 19 dicembre 1946, il bombardamento di Haipong porta  a una generalizzazione delle ostilità. Mentre la lotta dell'Indonesia ha  beneficiato di un vasto movimento di opinione internazionale a  proprio favore, e l'intervento delle grandi  potenze (che vi possiedono grandi interessi) ha posto fine abbastanza  rapidamente al conflitto, il Vietnam per molto tempo ha dovuto contare solo  sulle proprie forze, e la guerra con la Francia si è prolungata per otto anni.  Questa differenza si spiega con la natura «comunista» della direzione  rivoluzionaria (che ha «infastidito» alcuni governi), la rete delle alleanze  francesi (Parigi era un pilastro della difesa atlantica e nello stesso tempo  era legata a  Mosca da un trattato di  amicizia), l'assenza di investimenti stranieri (al contrario degli Olandesi, il  capitalismo francese era riuscito a fare dell'Indocina una «riserva di caccia».  Imponendo all'avversario la propria strategia il Vietnam otterrà, infine la  vittoria militare. Ma essa è stata, prima di tutto, una vittoria politica. ...]  . (1)
  Nel corso del suo intervento  Gianni Aiello anche i principi della strategia di Truong Chinh posti al bivio  tra la guerra anti-imperialista e quella rivoluzionaria, aspetti questi  indirizzati verso un mondo migliore.
  Tali direttive riguardavano anche  l'organizzazione dell'unità nazionale del Paese, l'isolamento dei colonialisti,  la ripresa economica, sociale, culturale. 
  Altro aspetto fondamentale di  quel manifesto era rivolto alla struttura delle fasi belliche:
  □ guerra  difensiva;
  □ guerra di  resistenza;
  □ controffensiva  generale.
  A conclusione del suo intervento,  Gianni Aiello ha dato lettura di alcuni episodi che interessarono dal punto di  vista emotivo anche la città di Reggio Calabria, come alcune manifestazioni  antimilitariste e la presenza di un giovane sergente, originario della  provincia di Reggio Calabria tra le fila dei marines statunitensi , dati questi  consultabili nelle pagine della cronologia del Circolo Culturale L'Agorà.  
  La parola è passata poi ad  Alessandro Crupi che ha trattato il tema inerente a "La politica  diplomatica dell'Italia durante la guerra del Vietnam".
  Il conflitto combattuto in  Vietnam dal 1962, anno dei primi bombardamenti statunitensi nel Vietnam del Sud  per destabilizzare il governo Diem, al 1975, momento della presa di Saigon da  parte dei nordvietnamiti, presenta diversi elementi di originalità rispetto  alle guerre precedenti, soprattutto a livello comunicativo e sociale oltre che  storico-politiche. 
  I fatti che accadono in Vietnam,  infatti, divengono oggetto di un importante dibattito giornalistico e politico,  fatto unico nella storia del Novecento fino all’inizio degli anni Sessanta. 
  Ciò favorisce il pieno  manifestarsi di un’opposizione di massa sempre crescente attraverso l’attivismo  di un vasto movimento che costituirà il preludio al dispiegarsi del movimento  giovanile sul finire del decennio. 
  Inoltre la guerra del Vietnam  rappresenta la prima “guerra televisiva” della storia, i cui sviluppi (ed anche  orrori) divengono oggetto di “consumo” da parte di un mondo mediatico in  costante ascesa sotto tale profilo. 
  Per questa serie di ragioni, uno  dei motivi principali che mi ha spinto a concentrare lo studio su questo evento  storico nasce dalla consapevolezza dell’influenza generata dal conflitto  vietnamita nella società, non solo del periodo in cui esso si svolge, ma anche  in quella che caratterizza le generazioni successive avendo posto le basi nella  costruzione e rafforzamento di alcune prerogative essenziali presenti oggi  nella realtà moderna che concernono anche il modo di fare comunicazione oggi. 
  Premesso questo sarebbe riduttivo  inquadrare le fasi del conflitto in una prospettiva basata solamente sulla  contrapposizione tra Usa e Vietnam del Nord. 
  Se da una parte, infatti, è innegabile  che sul territorio indocinese, fronte della guerra, i principali protagonisti  siano stati gli eserciti delle due repubbliche vietnamite e le milizie  americane, ciò non significa, tuttavia, che questo accadimento storico possa  essere osservato quasi esclusivamente sul piano delle armi e delle forze in  campo trascurando il contesto internazionale in cui esso si è via via  sviluppato e, conseguentemente, gli attori politici di questo scacchiere,  intervenuti a vari livelli nel fatto. 
  Nel momento in cui gli Stati  Uniti d’America prendono il posto dei francesi nel controllo dell’area si viene  a formare un coinvolgimento generale manifestato sia dall’opinione pubblica che  da numerosi governi del mondo e che tocca il suo massimo livello durante  l’escalation nelle  operazioni militari  tra il 1963 e il 1968. 
  La situazione politica e militare  si deteriora determinando il massiccio intervento statunitense che si esplica  in un quadro storico particolarmente delicato e monopolizzato da un tema  prevalente: l’evoluzione dei rapporti tra i due colossi da cui dipendono le  sorti politiche e storiche del mondo in quel momento: Usa e Urss. 
  «Ci troviamo, infatti, - prosegue  Alessandro Crupi - nel periodo immediatamente successivo al superamento della  crisi di Cuba, che sicuramente lascia prevedere uno speranzoso futuro di  distensione ma che nello stesso tempo non fa dormire sonni troppo tranquilli in  quanto esso si fonda su equilibri ancora troppo fragili, dove ogni minimo  cambiamento degli assetti politici regionali a livello internazionale può  essere causa di ulteriori frizioni tra le due superpotenze con elevati rischi  degenerativi.» 
  Il conflitto in Vietnam poteva  rappresentare, quindi, un pericolo considerando che Cina e Urss avevano  interesse a controbilanciare politicamente il territorio vietnamita, tramite il  sostegno ad Hanoi, da un’eccessiva influenza statunitense, che nel conflitto  tra Nord e Sud sosteneva invece Saigon. 
  Tutto ciò, unito al timore di un  peggioramento della situazione mondiale, determina l’interessamento alle  vicende del Vietnam di diversi protagonisti sulla scena internazionale fra cui  anche l’Italia. 
  Il coinvolgimento del nostro  Paese nella guerra che si combatte sulla penisola indocinese si attua a livello  di opinione pubblica e di scelte politico-diplomatiche. 
  Tutti elementi, tra loro  intimamente legati. 
  Le fronde pacifiste, che fanno  sentire in maniera viva la loro presenza in quel periodo, si vengono anche a  rapportare con un diffuso sentimento antiamericano, emerso soprattutto nel  dopoguerra dopo la scelta “occidentale” decretata dall’Italia con la ratifica  del Patto Atlantico, e spesso utilizzato per scatenare la “crociata” nei  confronti dell’imperialismo statunitense. 
  Molto importante si rivela, a  questo proposito, la panoramica dei sentimenti più significativi acquisiti  dall’opinione pubblica, dai movimenti pacifisti cattolici e di sinistra e dalla  politica italiana nel periodo antecedente all’escalation del conflitto  vietnamita per comprendere più chiaramente lo stesso fatto storico e le varie  posizioni degli attori-protagonisti in campo politico e diplomatico. 
  Fino ad oggi si è sempre detto  troppo poco sul ruolo dell’Italia nella guerra in Vietnam e, come si accennava  in precedenza, si tende a concentrare i confini dello stesso conflitto in un  alveo internazionale eccessivamente ristretto. 
  L’Italia, invece, ha mostrato  proprio in questo frangente della storia del mondo un notevole attivismo  attraverso una serie di azioni ed interventi sullo scenario interno ed  internazionale che hanno condizionato le vicende del Vietnam contribuendo al  suo sviluppo e alla sua conclusione. 
  In questa analisi un occhio di  riguardo particolare va gettato sul ruolo svolto da politica, diplomazia,  opinione pubblica e, anche, la Santa Sede nell’adoperarsi al raggiungimento di  un compromesso pacifico in Vietnam per porre fine alle brutture del conflitto. 
  Negli anni del conflitto i  condizionamenti  ideologici impregnano la  società italiana e caratterizzano le iniziative di vari parlamentari ed  esponenti di partito sulla scena politica nazionale. 
  Il dibattito, in quegli anni, è  largamente dominato dalle posizioni dei partiti principali come la Dc, il Psi e  il Pci. 
  Nell’orientamento internazionale  della classe dirigente italiana prevale una certa vicinanza alle azioni  compiute dagli Usa nel Sud-est asiatico, pur se con qualche riserva ed  oscillanza che risente dell’impopolarità del conflitto nell’opinione pubblica  italiana e del rapporto con le forze di sinistra, da sempre contrarie alle  operazioni militari. 
  Questa linea di pensiero viene  confermata a più riprese dal Presidente del Consiglio Aldo Moro che, spesso,  giustifica l’intervento armato americano, soprattutto nel periodo  dell’escalation. 
  Nel Partito Comunista la condanna  dell’imperialismo americano, invece, rappresenta l’input da cui si dipana la  mancata condivisione dell’intraprendenza statunitense in una visione fortemente  ideologizzata. 
  Il leader dei socialisti Pietro  Nenni, invece, pur non facendo mistero delle proprie rimostranze nei confronti  de conflitto, deve tenere conto di non far saltare gli equilibri esistenti  all’interno della coalizione di centro-sinistra e di non creare divisioni  all’interno del partito. 
  Sul piano diplomatico, è stato  Giorgio La Pira, ex sindaco di Firenze e valido esponente della politica  italiana, ad inaugurare la stagione delle iniziative italiane incentrate sul  conflitto vietnamita attraverso il suo viaggio nel Vietnam del Nord nel 1965. 
  La serie di colloqui intavolati  con i governanti di Hanoi, pur se infruttuosi sul piano del risultato finale,  svolge un ruolo fondamentale nella diplomazia italiana rivolta al Vietnam,  fornendo la base negoziale e la spinta decisiva alle successive iniziative di  mediazione tra Italia e Stati Uniti portate avanti dall’ambasciatore D’Orlandi  tramite le cosiddette Missioni “Marigold” e “Killy” tra il 1966 e il 1968. 
  La Missione “La Pira”, inoltre,  genera vaste ripercussioni sia in campo politico che sul fronte dell’opinione  pubblica e, in questo settore, c’è spazio anche per la contestazione giovanile  del Sessantotto in cui, tra l’altro, le drammatiche notizie provenienti dal  Sud-Est asiatico assumono una posizione centrale nel corso della protesta.
  Le Missioni “Marigold” e “Killy”  riflettono l’indirizzo politico del governo di centro-sinistra in politica  estera esposto da Aldo Moro all’inizio del ’66. 
  Il canale denominato “Marigold”  vede come attore principale l’ambasciatore italiano a Saigon Giovanni  D’Orlandi. 
  Si tratta della pianificazione di  una serie di trattative complesse tra Usa e Vietnam del Nord in cui vi entra  anche il delegato polacco della Commissione Lewandowski ma il negoziato,  nonostante le buone premesse di base, non avrà mai luogo. 
  Anche la successiva iniziativa  diplomatica nota come Missione “Killy” non avrà esito positivo ma è opinione  generale che essa contribuisca a favorire la convocazione della conferenza di  Parigi dove si aprono effettivamente reali negoziati tra le parti. 
  Il fervente lavoro svolto dalla  nostra diplomazia ha avuto un merito particolare e molto importante: quello di  aver preparato il campo alle trattative intavolate negli anni successivi fino  alla deposizione definitiva delle armi.
  C’è da far notare, inoltre, che  in quegli anni l’atteggiamento dell’Italia nei confronti degli Stati Uniti  all’interno del Patto Atlantico non è aprioristicamente favorevole a qualunque  scelta operata dal principale alleato occidentale. 
  Proprio verso la metà degli anni  Sessanta, infatti, in coincidenza con l’escalation del conflitto, il governo  italiano irrigidisce le proprie posizioni sulla guerra instaurando una sorta di  confronto con gli Usa che parte anche da valutazioni critiche. 
  Durante il lavoro di ricerca che  mi ha portato a queste conclusioni ci si è potuti avvalere del contributo dei  pochi lavori concernenti il ruolo dell’Italia durante la crisi del Vietnam. 
  Le fonti documentarie hanno  consentito di arricchire di contenuti le memorie dell’iniziativa diplomatica  italiana e le istanze pacifiste espresse da cattolici e forze di sinistra  nell’ambito del dibattito politico. Fondamentale si è rivelato, a tal  proposito, il contributo dei documenti diplomatici americani della raccolta “Foreign  relations of the United States” e le varie testimonianze sul tema del  pacifismo cattolico e di sinistra. 
  A livello documentario, inoltre,  è stato molto prezioso l’esame dei verbali di alcune sedute di  Camera e Senato, cruciali per ricostruire con  dovizia di particolari la posizione politica italiana sulla questione  vietnamita. 
  La connessione organica fra tutti  gli elementi della partecipazione del nostro Paese alle vicende del Vietnam è  stata resa possibile anche dalla rassegna dei quotidiani che ha offerto un  contatto diretto dei differenti punti di vista e delle reazioni alla guerra  manifestati dal mondo politico e sociale del nostro Paese, oltre che di  integrazione e completamento della documentazione storico-diplomatica  nazionale, ancora oggi disponibile.       
  Gianluca Tripodi ha trattato il  tema relativo a "La politica statunitense in Vietnam: evoluzione e  sviluppi attraverso la condotta della guerra" ed i cui contenuti non  sono stati   una pura disamina  cronologica sia degli avvenimenti che dell'influenza della politica  statunitense nel sud-est asiatico, ma una disamina di alcuni tra i più  importanti eventi bellici di questo conflitto, che peraltro nel corso dei  decenni a venire furono oggetto di approfonditi studi letterari ed in alcuni  casi di trasposizioni cinematografiche.
  Il relatore nella prima parte del  suo intervento accenna alla condotta che gli Stati Uniti tennero almeno fino al  1964, anno nel quale, di fatto, si data l'inizio della guerra vera e propria;  il conflitto vietnamita, infatti, si dipana attraverso un trentennio a partire  dal 1946, anno nel quale ebbe inizio la lotta di liberazione contro il  colonialismo francese e che ebbe il suo   esito felice nel 1954, dopo la cruenta battaglia di Dien Bien Phu, che  nel maggio di quell'anno condusse il corpo di spedizione francese alla totale  sconfitta.
  In quegli anni l'amministrazione  Usa, che fino al 1952 era gestita dai democratici, salvo poi passare in mano ai  repubblicani, tenne un ruolo di basso profilo, limitandosi ad un appoggio  logistico. 
  Dal 1954 in poi, partiti i  francesi, Eisenhower, allora al primo mandato presidenziale, non ritenne di  doversi impegnare nella regione e per una serie di motivi, che Neil Sheenan  nella sua opera "Vietnam una sporca bugia" (edizioni Piemme), libro  che ottenne peraltro il Pulitzer, descrive puntualmente. 
  In primo luogo, non era chiaro se  Ho Chi Minh volesse entrare nell’orbita sovietica oppure in quella cinese; in  secondo luogo è importante precisare che lo stesso leader vietnamita, almeno  agli inizi, sembrò voler seguire una linea fortemente indipendente, sulla  falsariga di Tito in Jugoslavia, che era arrivato ad una rottura aperta col  mondo sovietico; in terzo luogo Ike riteneva più importante contrastare la  crescente potenza cinese. 
  Dopo la rivoluzione del 1949,  infatti, l'ascesa al  potere del partito  comunista rendeva prioritario occuparsi del gigante asiatico più che di un'area  nella quale, almeno per quegli anni, il valore del conflitto era ritenuto di  carattere solo regionale. 
  In quarto ed ultimo luogo nel  1953, dopo tre anni di guerra, gli Usa erano usciti dal conflitto in Corea  decisamente provati ed un ulteriore impegno in Asia, a fronte di quello già  consistente, sia durante che dopo la guerra in uomini e mezzi sulla linea del  38° parallelo non sarebbe stato accettato né compreso dalla popolazione.
  Pertanto, si preferì rimandare il  tutto a tempi migliori, limitandosi ad un appoggio tramite consiglieri militari  e mezzi, anche se gli eventi che si presentarono scompaginarono i piani  dell'amministrazione americana.
  Il Vietnam era stato formalmente  diviso in due Stati, sebbene nel 1956 avrebbero dovuto tenersi elezioni generali  che di fatto ne avrebbero segnato la riunificazione.
  Ma il governo del sud, intimorito  dal crescente consenso che i comunisti ottenevano sopratutto nelle aree rurali  rifiutò la pista elettorale, adducendo vari pretesti, e chiese agli americani  un appoggio sempre maggiore.
  Sempre riottoso, Ike preferì  continuare nella sua condotta. 
  Stanley Karnow, giornalista  esperto in questioni strategico-militari, del resto, rimarca, nella sua opera  "Vietnam. 
  Come e perché gli Usa persero la  guerra" (edita da Rizzoli), questo aspetto della politica repubblicana  degli anni Cinquanta, ancora poco aperta a questioni internazionali di ampio  respiro e diretta solo a contrastare la potenza sino-sovietica rispettivamente  in aree come quella europea e del mar del Giappone.
  Dopo un periodo di sostanziali  scaramucce ed episodi militari circoscritti, all’inizio degli anni Sessanta  sembrò arrivare il periodo della grande svolta, agevolata dalla contemporanea  ascesa al potere di Kennedy negli Usa e di Diem alla presidenza del Vietnam del  Sud.
  Il primo, a differenza del suo  predecessore, sentì più forte l'esigenza di intervenire nell'area asiatica,  sebbene in modo non ancora diretto.
  Kennedy, infatti, avendo prestato  servizio durante il secondo conflitto mondiale nel Pacifico, e, sempre a quanto  riferisce Sheenan, essendo profondo conoscitore delle questioni asiatiche,  ritenne un errore aver sottovalutato le conseguenze che in paesi come  Indonesia, Malesia, Thailandia, Filippine, Australia e Nuova Zelanda, avrebbe  potuto avere una crescente influenza comunista nella regione. 
  Ad ogni modo egli preferì evitare  ugualmente, almeno all'inizio, un coinvolgimento profondo, optando invece per  un appoggio sempre crescente in termini di consiglieri militari, reparti ed  unità speciali (più di 16.000 unità per tutto il 1962) e mezzi, facendo in modo  che il Vietnam del Sud potesse addestrare ed utilizzare un esercito -allora  denominato ARVN- efficiente ed in grado di contrastare le forze partigiane del  sud e quelle regolari del nord qualora se ne fosse presentata la necessità.
  Diem, asceso al potere nel 1961,  si rifiutò ancor più dei suoi predecessori di indire elezioni generali.
  Chiuso nel suo odio  anticomunista, anzi scatenò una repressione ancora più dura nei confronti di  quelle aree del paese ritenute di appoggio alla guerriglia partigiana, facendo  in modo che i suoi accoliti compissero atrocità nei confronti della popolazione  delle campagne e disattendendo qualsiasi tipo di riforma o di politica che  potesse accattivargli le simpatie delle popolazioni rurali, contravvenendo in  questo atteggiamento ai consigli che gli venivano rivolti dai rappresentanti  del governo Usa visto che un atteggiamento benevolo nei confronti delle  popolazioni rurali aveva sortito effetti positivi nell’esperienza filippina,  durante il secondo conflitto mondiale, nel contesto dell’offensiva contro i  giapponesi.
  Il sentire da parte del popolo la  presenza americana come una seconda invasione dopo quella francese, unita alla  politica repressiva del governo del sud, rafforzò la posizione delle forze  comuniste, le quali, del resto, usarono la brillante tattica di presentazione  della loro lotta nei confronti di popolazioni spesso culturalmente arretrate  non fondata sulla contrapposizione ideologica, ma come una lotta di liberazione  nazionale.
  Sheenan rimarca come esse  d'altronde mantennero sempre il nome di Vietminh, che ne esaltava lo spirito  nazionalista e di riscossa patriottica, in contrapposizione al nome coniato  dagli americani di Vietcong, volto ad evidenziarne, in senso spregiativo,  il solo aspetto comunista.
  Si arriva così al 1964, anno  della svolta. 
  Al potere negli Usa c'è  Johnson, democratico del Texas, succeduto a  Kennedy dopo l'attentato di Dallas.
  Più ancora del suo predecessore,  Johnson ritenne fondamentale un impegno in Vietnam, anche attraverso l'impiego  di truppe su vasta scala. 
  Egli d'altronde sperava di  ripetere, o addirittura migliorare, il risultato della Corea, nella quale il  vasto impiego di contingenti militari prima ed il mantenimento di una  consistente presenza dopo, aveva indotto le forze comuniste a più miti  consigli.
  Nel 1963, inoltre, nel Sud era  salito al potere, con un colpo di Stato, il generale Thieu che, superando di  gran misura Diem, scelse di attuare la strategia della repressione affiancata da  una sempre più incalzante richiesta di aiuto agli americani.
  Nell'amministrazione americana,  d'altronde, oltre che negli alti comandi delle forze armate, a dominare non  erano tanto le colombe quanto i falchi: basti citare Robert Mc Namara,  segretario alla difesa; McGeorge Bundy, consigliere per la sicurezza nazionale;  Dean Rusk, Segretario di stato.
  Addirittura il generale  Westmoreland, secondo quanto Sheenan riporta, affermò durante un briefing con i  suoi ufficiali: “Amici miei, so che non è il massimo, ma è l'unica guerra  che abbiamo. Sappiatevela godere”.
  Sentore di ciò che albergava  nella mente degli altri vertici Usa, che vedevano in un massiccio dispiegamento  di forze l'unica vera condotta di guerra e che prevedevano una rapida vittoria,  sottovalutando in maniera molto pericolosa l'avversario che avrebbero avuto di  fronte. 
  Nell'aprile 1964 la torpediniera  americana Maddox fu attaccata da unità nordvietnamite nel golfo del Tonchino.
  Fu questo il pretesto che scatenò  il coinvolgimento diretto degli Usa, che a partire dal marzo 1965 schierarono  un numero sempre crescente di unità.
  Lo sbarco di due battaglioni di  marines a Da Nang (ampiamente ripreso e documentato dalle televisioni e dalla  stampa) il 7 marzo di quell'anno fu solo il simbolo di come la politica  americana nei confronti dell'Indocina stesse attraversando una preoccupante  escalation interventista.
  Nel novembre di quello stesso  anno vi fu il primo grande scontro tra forze Usa ed esercito regolare nord  vietnamita.
  La prima divisione di cavalleria  elitrasportata fu duramente impegnata dal 10 al 14 novembre; uno spaccato di  quei giorni è documentato dal giornalista Joseph Campbell nel suo libro  "Eravamo soldati… e giovani", da cui nel 2002 fu tratto un film,  diretto da Mel Gibson, "Fino all’ultimo uomo".
  Per la prima volta, le forze  americane rischiarono di essere travolte; il 7mo  cavalleria, al comando 
  del Colonnello Moore, fu  costretto a richiedere il protocollo Broken Arrow, ovvero l’invio immediato di  ogni mezzo aereo e di tutto l'appoggio di fuoco possibile ad un'unità sul punto  di essere spazzata via.
  Ciò permise agli americani di  riorganizzarsi e la mattina del 14, con abile manovra aggirante, di sorprendere  alle spalle le unità dell'esercito del nord e costringerle ad una rapida  ritirata.
  Sul campo, è vero, gli usa  avevano vinto, ma la perdita di almeno un quarto delle forze impegnate aveva  fatto capire che la guerra non sarebbe stata né rapida né facile.
  Nonostante ciò, Johnson si  intestardì nel suo desiderio di vincere i comunisti con la forza, tanto è vero  che per tutto il 1967 le forze Usa di ogni arma e specialità raggiunsero oltre  il mezzo milione di uomini; nel 1966, inoltre, la Corea del sud aveva inviato  in Vietnam un proprio contingente, che al massimo della portata raggiunse i 50.000  uomini.
  A partire dalla fine dello stesso  1966 per effetto dell'accordo Anzus stipulato a Melbourne, a Australia e Nuova  Zelanda inviarono alcuni battaglioni.
  É del 1967 il primo scontro in  cui è documentato un massiccio impiego di mezzi (caccia e bombardieri,  elicotteri, artiglieria pesante) da parte degli americani.
  Mi riferisco alla battaglia di  Dak To, del novembre di quell'anno, nella quale le forze del nord furono  contrapposte alla prima divisione di cavalleria aerotrasportata già citata, ed  alla 173ma divisione, uno dei  migliori reparti dell'esercito americano. 
  Comandante delle forze Usa era il  generale Johnson, il quale attuò una tattica volta non alla  conquista delle aree territoriali, bensì  all'annientamento totale delle forze nemiche attirandole in una sacca e poi  colpendole con un massiccio impiego di ogni arma disponibile.
  Di converso, le forze del nord  scelsero di adottare la medesima tattica, sebbene la classica dottrina di  guerra comunista prevedesse dapprima la conquista delle aree occupate dal  nemico.
  La battaglia ebbe inizio il 6  novembre per concludersi con la sconfitta delle forze del nord 15 giorni dopo;  ancora una volta gli Usa non compresero quale prezzo sarebbero stati costretti  a pagare in termini di mezzi e di vite ogni volta che avessero affrontato  apertamente le forze dell'esercito del nord.
  Ben equipaggiate con le  mitragliatrici antiaeree pesanti da 50mm fornite dai sovietici, esse  ostacolarono fortemente la precisione dei velivoli americani nel bombardamento.
  Vista inoltre l'abilità del  manovrare e nel dileguarsi delle truppe Vietminh, la tattica del “colpo di  falcetto”, come solitamente veniva denominato quanto appena descritto, fu  assai difficile da attuarsi nella sua pienezza da parte dei comandi Usa, che  indubbiamente a Dak To conseguirono quella che si suole chiamare vittoria di  Pirro.
  La strategia del massiccio  impiego di forze venne mantenuta almeno fino all'inizio del 1968, unita ad una  massiccia campagna di bombardamenti su Hanoi ed i principali centri militari e  produttivi del nord.
  Alcuni settori del governo e  delle forze armate spingevano affinché si invadesse via terra e mare il nord,  ma al sopraggiungere del Tet, il capodanno vietnamita, forze regolari nord  vietnamite e Vietminh del sud sferrarono un offensiva così massiccia da  penetrare fin dentro i palazzi del potere di Saigon.
  É il 27 gennaio 1968, 40 città  vengono attaccate e Hue, l'antica capitale dell'impero Viet,viene occupata  dalle truppe partigiane.
  Senza dubbio la battaglia per la  riconquista di Hue fu una delle più cruente di tutta la guerra. 
  Stime ufficiali dell'epoca  riferirono di circa 1.800 tra morti e feriti per le truppe americane e  sudvietnamite e più di 3.000 tra le forze comuniste, senza contare le perdite  civili. 
  Hue, ormai comunque ridotta ad un  cumulo di gelide macerie, venne riconquistata solo il 24 febbraio dai reparti  della 101 aerotrasportata.
  L'offensiva del Tet dimostrò  comunque che le forze guidate dal generale Nguyen Van Giap potevano ancora  colpire duramente e che la strategia di Johnson era destinata al fallimento.
  Illustri esponenti del governo  Usa,come McNamara, in aperto dissenso con la politica del presidente,  lasciarono il governo già alla fine del 1967; al tempo stesso, il diffondersi  di movimenti d’opinione in aperta opposizione al conflitto,  viste anche le atrocità commesse nei  confronti delle popolazioni civili dalle truppe americane e sudvietnamite,  documentate e rese note al grande pubblico dai reporter dell'epoca, portò  Johnson a non ricandidarsi alla presidenza alla convention democratica  dell'agosto di quell'anno.
  Su questo argomento credo sia  opportuno riprendere una  riflessione di  Mitch Weiss, in un volume uscito nel 2005, "Sette pezzi d'America",  che ripropone alcuni grandi reportage-Pulitzer, dalWatergate ai preti pedofili,  dallo scandalo delle multinazionali del tabacco al Vietnam. 
  La condotta del primo periodo di  guerra, ma non solo, fu spesso caratterizzata da veri e propri crimini rimasti  impuniti per lungo tempo, un  po' per  calcolo politico, un pò per varie altre ragioni. 
  «Pezzi» che raccontano un  giornalismo che ha ben chiaro il suo ruolo di controllo del potere e che, caso  sempre più raro, riesce ad incidere sulla realtà. 
  Giornalismo americano, un tempo  il più libero e potente del mondo, oggi sotto accusa per alcune sospette  compromissioni con il potere. 
  Una debolezza che non fa parte  della sua storia.
  Mitch Weiss, con il collega  Michael D. Sallah, lavorò per mesi  su  alcuni documenti decisamente sconvolgenti. 
  Riportavano fatti relativi  ad  un'unità speciale dell'Esercito, i  "Tiger Force", che operava nel 1967 a Quang Ngai (poche miglia da My  Lay). 
  E soprattutto svelano le  metamorfosi che la guerra può provocare in individui apparentemente normali. 
  «Vivevamo alla giornata»  raccontò al Toledo Blade l'ex sergente William Doyle «non ci aspettavamo di  uscirne vivi. Quindi facevamo quel cazzo che volevamo, soprattutto se serviva a  restare vivi. Per vivere bisognava uccidere». 
  I soldati descrivono atroci  esecuzioni di prigionieri: militari e civili, vecchi e donne, bambini. 
  Ci furono militari che  testimoniarono come un soldato della Tiger Force «dopo aver tagliato la gola  a un prigioniero gli ha preso lo scalpo e l'ha messo sulla punta del fucile».
  Nella provincia di Quang Ngai,  terra sacra e ancestrale per i vietnamiti, l'unità americana sembrava vagare in  cerca di sangue. 
  Bastava rifiutarsi di abbandonare  i villaggi per essere uccisi. «In giugno sparano a un uomo anziano, vestito  di nero, che credevano fosse un monaco buddista, perché ha protestato per il  trattamento riservato ai contadini».
  Sempre a giugno, un ragazzo di 15  anni venne  trucidato dal soldato Sam  Ybarra per prendergli un paio di scarpe da ginnastica. 
  Inutilmente: le scarpe, ad  Ybarra, non entravano. Al cadavere del ragazzo venne comunque inflitto il  trattamento «rituale» dei Tiger Force: «Il soldato gli tagliò le orecchie e  le infilò in uno dei sacchetti delle razioni».
  I soldati, con le orecchie dei  morti, facevano collane che portavano infilate nei lacci degli anfibi. Confessa  l'ex medico del plotone: «Ci fu un periodo in cui quasi tutti ne avevano una  al collo».
  Per sgombrare i villaggi i  soldati li incendiavano. 
  Per convincere la gente a fuggire  la Tiger Force uccise abitanti a caso.
  Un episodio può essere  esemplificativo. Bevono molta birra e quando incontrano il signor Dao sono già  ubriachi. 
  Lo afferrano per la barba grigia  e lui giunge le mani, in preghiera. Viene colpito con la canna di un M-16, poi  «mentre il medico cerca di curarlo, il tenente Hawkins gli spara in faccia con  un Carabine-15». 
  Interrogato, il tenente spiegò: «Gridava  così forte da attirare l'attenzione del   nemico, volevo eliminare subito il problema». 
  Il soldato semplice Ken Kerney  riferì ciò che gli era stato detto dai comandanti: «Quello che succede qui,  qui deve restare. Non raccontare a nessuno le cose che vedi. Se scopriamo che  hai  parlato, quello che ti faremo non ti  piacerà».
  A settembre arrivò un nuovo  comandante, Gerald Morse, che cambiò nome alle tre compagnie. Invece che A,B,C,  le ribattezzò Assassins, Barbarians, Cutthroats (tagliagola). Lui diverrà una  legenda, il Ghost Rider, il Cavaliere fantasma.
  Dopo la morte di alcuni  dell'unità, il Cavaliere fantasma cominciò ad attaccare i villaggi per  vendetta. 
  «Non avevo mai visto niente  del genere»  ricorda il medico dei  Tiger Force. «Arrivavamo e facevamo piazza pulita della popolazione».
  Ricorda il sergente William  Doyle: «Se entravo in un villaggio e non erano tutti stesi per terra, io  sparavo a quelli ancora in piedi». 
  Una ragazzina di 13 anni venne  violentata e sgozzata. «Un soldato decapitò un neonato per prendergli una  collana». 
  Un uomo anziano venne ucciso per  provare una nuova calibro 38. 
  Il battaglione era il 327°, e fu  chiesto loro di fare 327 vittime. Un gioco. I soldati dicono che l'ordine è  arrivato dal Cavaliere fantasma. Un ufficiale si giustifica: «Laggiù nella  giungla non c'erano poliziotti né giudici, non c'era legge né ordine».
  Sam Ybarra, l'uomo che aveva  ucciso per le scarpe, di ritorno in patria era diventato instabile. 
  La madre ricorda che piangeva  sempre. 
  Era stato interrogato sui crimini  della Tiger Force e congedato con disonore. 
  Disse: «Ho chiesto a Dio di  perdonarmi per quello che ho fatto». 
  Morì a 36  anni.
  Furono diversi i militari  indagati, ma tutto restò “in famiglia”. Scrisse il Blade: «Nel 1967 i  comandanti sapevano, ma rifiutarono di aprire   un'indagine».
  Lo dimostra: c'erano denunce che  non avevano avuto seguito, si finse di indagare incoraggiando gli interrogati a  tacere per non essere processati. 
  Nel '75 sei imputati furono  congedati evitando così il processo.
  Nel '73 rapporti sui Tiger Force  arrivarono alla Casa Bianca (presidente Richard Nixon). 
  I grandi giornali americani, dopo  l'inchiesta del Blade, ignorano la notizia o la relegano in poche righe. 
  Solo Seymour Hersh, sul New  Yorker, lamentò come «un'indagine tanto straordinaria ha potuto rimanere  invisibile».
  Alle elezioni del 1968 trionfò il  repubblicano Nixon, il quale promise un progressivo disimpegno americano dal  conflitto, anche se egli non nascose ancora la volontà di proseguire nel  conflitto stesso, sebbene con una strategia rimodulata, fondata su colpi più  mirati da assestare alle forze comuniste, fino ad arrivare all'uso di armi  nucleari tattiche ove se ne fosse rilevata la necessità. 
  Nixon auspicava comunque una  progressiva “vietnamizzazione” del conflitto, riducendo le forze terrestri  americane e mantenendo solo quelle aeree e navali in numero consistente, ed  addestrando ed incrementando l'esercito del sud in maniera più efficiente e  moderna.
  Crebbero intanto nel paese i  movimenti di opposizione che arrivarono anche nel cuore delle città americane,  e si diffusero al resto del mondo. 
  Nonostante tutto, ancora, il  governo Usa cercava di convincere l'opinione pubblica  interna ed occidentale in genere della bontà  e necessità dell'intervento in Vietnam (vennero anche girate alcune pellicole  di intento celebrativo e propagandistico come "Berretti verdi" del  1969, con John Wayne).
  Una delle più sanguinose  battaglie di quegli anni fu quella che si ebbe tra reparti della 82ma divisione aerotrasportata e  dell'esercito del nord per la conquista di quota 937 nella valle di Ashau.
  Tra il 10 ed il 20 maggio del  1969 le perdite da ambo le parti furono pari al 70% delle forze totali; gli  americani provarono per almeno 10 volte ad arrivare in cima alla collina, ma i  bunker delle truppe Vietminh, ben dissimulati nel terreno, richiedevano un  numero di offensive consistente al fine di poterli snidare e distruggere; alla  fine della battaglia quel luogo assunse il nome di "Hamburger Hill"  (John Irvin immortalò questo episodio nell'omonimo film del 1987, forse uno dei  più commossi omaggi ad una generazione distrutta). 
  Peraltro, tre giorni dopo la  conquista dell'obiettivo, gli americani vennero nuovamente ricacciati indietro  dalle truppe Viet.
  Nel lasso di tempo che seguì  entrambe le parti comunque non avanzarono sostanzialmente dalle loro posizioni  e alla fine del 1969 si avviarono a Parigi colloqui diplomatici per arrivare ad  una soluzione del conflitto; il governo americano inoltre programmò una  progressiva e consistente riduzione del  proprio contingente-ormai pari ad un terzo di tutte le forze armate americane,  nonostante gli alti vertici militari chiedessero a Nixon ancora più truppe; ma il  presidente oppose un netto rifiuto.
  Nel 1970, si tentò di cambiare  parzialmente strategia, tagliando le linee di rifornimento alle truppe Viet;  Cambogia prima e Laos dopo vennero invasi da truppe sudvietnamite con appoggio  di aerei ed elicotteri statunitensi, senza che comunque se ne traesse alcun  risultato concreto.
  Ormai Nixon era invischiato in un  pantano dal quale non riusciva ad uscire: da un lato il sempre crescente  dissenso nei confronti della sua politica, dall'altro i settori più oltranzisti  del governo e delle forze armate, oltre che del paese, che non volevano  piegarsi al comunismo.
  Nel frattempo, i paesi alleati  agli usa che avevano inviato propri contingenti ritirarono progressivamente le  proprie truppe; la Corea completò il ritiro nel 1970, Australia e Nuova Zelanda  l'anno seguente.
  Nixon d'altronde dimostrò di  volersi progressivamente sganciare dal sud est asiatico con il riavvicinamento  che tra il 1971 ed il 1972 ebbe con Urss e Cina, paesi anch'essi, sebbene  indirettamente, coinvolti nel conflitto  (quella che venne chiamata “diplomazia del ping pong”); basti pensare ai primi  accordi Salt per la riduzione delle armi strategiche firmati il 22 maggio 1972  coi sovietici ed all'incontro tra Nixon e Mao Tse Tung avvenuto a Pechino-fu la  prima visita di un presidente Usa in Cina-nel febbraio dello stesso anno.
  Anche se la ripresa dei  bombardamenti nello stesso 1972 su Hanoi non sembrò effettivamente far pensare  ad una strategia di uscita dal conflitto vietnamita, la conquista da parte  delle forze comuniste della provincia di Quang Tri nel marzo di quell'anno  bloccò ogni velleità di avanzata verso nord da parte degli Usa, che nel marzo  dell'anno successivo, a Parigi, firmarono un accordo di pace; dell'oltre mezzo  milione di soldati presente nel 1967, solo 6.800 uomini rimasero a quella data  in Vietnam.
  Era la prima grande sconfitta che  gli Usa avessero mai subito: l'uso di armi sofisticate, dei defolianti, del  terribile agente orange, non era riuscito a piegare le forze comuniste, che  avevano seguito fino in fondo l'assunto di Ho Chi Minh anche dopo la sua morte  (avvenuta nel 1969):“potete uccidere milioni di noi, ma alla fine saremo noi  a vincere”; Saigon venne conquistata dalle truppe del nord e dai Vietminh  il 30 aprile del 1975, che travolsero senza eccessiva fatica le forze del  governo fantoccio  del presidente Dimh instauratosi da soli 3  giorni.
  Senza dubbio una delle guerre più  lunghe del 20mo secolo, quella  del Vietnam fu una vera macchia indelebile per il popolo americano: 58.270  caduti accertati, circa 2000 dispersi (che per lungo tempo, anche con intenti  propagandistici, si ritenne fossero detenuti in campi di prigionia o  addirittura che fossero stati inviati in Unione Sovietica, anche se già dalla  fine degli anni ottanta molti di loro furono catalogati come KIA, acronimo di  Killed in Action, ucciso in azione), oltre 100000 mutilati od invalidi, una  tremenda crisi economica e sociale furono il terribile prezzo che gli Usa  dovettero pagare per aver sottovalutato i loro avversari.
  Del resto, leggendo le opere sia  di Sheenan che di Karnow, gli autori che qui più volte ho voluto citare, si può  senz'altro affermare che essi fotografarono in maniera esatta i sentimenti di  quei tempi di una nazione in forte conflitto con se stessa.
  Essa non avrebbe voluto  abbandonare i suoi ragazzi “in qualche lurida palude”, un gergo molto usato in  quei tempi; ma per gli americani non fu possibile sopportare che i loro figli  si  macchiassero di atrocità contro le  popolazioni inermi e combattessero in una Dirty war (sporca guerra),  nella quale l'America mandò a morire i suoi soldati contro un popolo che, più  che per un'ideologia, lottava per la sua dignità e libertà, sebbene poi il  Vietnam riunificato  fosse entrato  nella sfera di influenza sovietica.
  Gianluca Tripodi conclude la sua  interessante disamina citando testualmente quanto ebbe a dichiarare a tal  proposito il maggiore Michael Davis O'Donnel, il primo gennaio del 1970 in quel  di Dak To: «Se ne siete capaci, conservate per loro un posto nella vostra  memoria, mentre andate verso luoghi dove loro non potranno più andare. Non  abbiate vergogna di ammettere che li avete amati, anche se non è stato del  tutto vero. Prendete ciò che vi hanno lasciato e vi hanno insegnato con la loro  morte, e conservatelo insieme alla vostra. E quando verrà il momento in cui gli  uomini decideranno di poter chiamare la guerra un'insana follia, sostate un  momento ad abbracciare quegli eroi   gentili che avete lasciato indietro».



E. J. HAMMER, "The Struggle for Indocina:  1940-1955", Stanford   University Press,1966;
    J. CHESNEAUX, "Perché il  Vietnam resiste. Le radici storiche e ideologiche di una guerra  rivoluzionaria", Einaudi, 1968;
    N. CHOMSKY, "La guerra  americana in Asia. Saggi sull'imperialismo", Einaudi, 1969;
    M. GALLUPPI, Il Vietnam dalla  dominazione francese all'intervento americano, Laterza,1972;
    F. FITZGERALD, Il lago in fiamme:  storia della guerra del Vietnam,Einaudi, 1974;
    F. MAZZEI, "il conflitto  vietnamita: storia, ìtattica e strategia delle operazioni aeree", Ìsaam,  1980;
    H.G. SUMMER, "On Strategy: A Critical  Analysis Ot The Vietnam War", Novato,  1982;
    S. KARNOW, "Storia della  guerra del Vietnam", Rizzoli,1989;
    C. T. KAMPS jr. "storia della guerra  del Vietnam", Gremese,1990; 
    G. MAMMARELLA, "Da Yalta  alla perestrojka", Laterza, 1990;
    S. KARNOW, "Storia della  guerra del Vietnam", Rizzoli, 1992;
    G. MAMMARELLA, "L’America da  Roosevelt a Regan: Storia degli Stati Uniti dal 1945 a oggi", Laterza,  1992;
    G. C. HERRING, America’s  Longest War: The United States and Vietnam,1950-1975, McGraw-Hill,  1996;
    H. KISSINGER, "L’Arte della  Diplomazia", Sperling & Kupfer, 1996;
    J. DUROSELLE, "Storia  diplomatica dal 1919 ai nostri giorni", F. Angeli, 1998;
    G. GIORDANO, " La politica  estera degli Stati Uniti: da Truman a Bush 1945-1992", F. Angeli, 1999;
    F. MONTESSORO, "Vietnam, un  secolo di storia", F. Angeli,2000.
