Si tratta, in pratica, di un
breve periodo penitenziale e di un giorno
festivo seguente, considerati come anticipazione
e preannuncio del digiuno quaresimale e delle
feste pasquali, dato il significato cristologico
che da tutte le chiese orientali viene
attribuito alla vicenda del profeta Giona.
Questo concetto di
anticipazione delle feste pasquali, in epoca
imprecisata, ma in ogni caso molto tarda, passò
in ambiente bizantino.
A Costantinopoli, però, non
vennero importati gli usi penitenziali, che
presso le altre chiese orientali precedevano la
Pasqua. Anzi durante questo periodo non si
digiunava e non si faceva astinenza in nessun
giorno, a somiglianza delle settimane seguenti
Pasqua e Pentecoste
[16];
si organizzavano invece delle feste che nella
cultura dei villaggi, data l’origine popolare di
quelle usanze assunsero tutte le connotazioni
del Carnevale della tradizione occidentale.
Questi usi entrarono anche
nel calendario della chiesa greca dell’Italia
meridionale (si ricordi che la Calabria
apparteneva al patriarcato di Costantinopoli).
Assenza di astinenza e di digiuno, baccanali,
licenziosità, conviti collettivi, maschere,
canti e balli, ai quali prendevano parte tutti i
membri della comunità locale, preti e monaci
compresi, divennero le componenti del rituale
che caratterizzava la settimana precedente il
progressivo inizio delle penitenze quaresimali e
sono
attestate almeno dal secolo XV in poi.
Sappiamo, anzi, che in quei
giorni l’archimandrita del monastero di San
Giovanni Theristi di Stilo (RC), per altro noto
per i suoi costumi poco morigerati, «in
carnisbrivio tingebat sibi faciem et postea ibat
per casale faciendo: “Bu bu bu” »
[17]
.
La festa di Carnevale in
Calabria, ha quindi origine da diverse
tradizioni che si vennero incorporando nel
profondo tessuto etnico locale.
I rituali
dell’incoronazione, del processo, del
testamento, della morte, del bruciamento di
Carnevale - che variavano da zona a zona, da
paese a paese - riconducono ad antichi riti
agro-pastorali di inizio anno, di rinascita
della natura, di passaggio da una stagione
all’altra, in cui centrale era il rapporto con i
morti e con le divinità sotterrane.
Ancora oggi a
Luzzi, in provincia di Cosenza, rimane la
processione di “nannuzzu carnulivaru”, l’antico
rito funebre che celebra la morte di Carnevale.
Il fantoccio,
che impersona tutto quello che è vecchio e che
rappresenta il male che è successo nell’anno
trascorso, viene bruciato sulla pubblica piazza
a tarda sera.
I partecipanti alla
singolare processione si vestono con delle
tuniche bianche e con un copricapo di forma
appuntita dello stesso colore, e piangono la
morte di “nannuzzu Carnulivaru” (nonno
Carnevale)
[18]
.
Anche a Tropea, come attesta
la testimonianza del Segretario Generale della
Intendenza della Calabria Ultra avveniva il rogo
di Re Carnevale
“…Nel giorno poi che chiude
i baccanali sollazzi, si moltiplicano le
maschere, e si sentono fino a mezzanotte
altissimi urli co’ quali fingono di piangere la
morte del Carnevale che i popolo simboleggia in
un omaccione di paglia goffamente vestito, al
quale in ultimo finiscono con l’appiccargli il
fuoco fra le grida e gli schiamazzi dei monelli,
i quali cantano pure:
[19]
Carnilevare moriu di
notti
e dassau quattru ricotte
Du’ frischi e du’ salati
Pi li povari malati;
Du’ frischi e du’
stantivi
Pi li poviri cattivi
[20].
Mentre a S.Nicola da Crissa
, fino a tutti gli anni Cinquanta, era possibile
assistere a una forma mista in cui una persona
viva (in genere un personaggio caratteristico,
un beone) simboleggiava il Carnevale fino al
momento in cui doveva essere bruciato e poi
lasciava il posto a un fantoccio di cenci,
paglia, segatura, addobbato con foglie, erbe,
simboli sessuali, ossa di maiale
[21].
Si trattava di una forma in
cui la sostituzione di un fantoccio a un uomo
vero attenuava un antico rito cruento che può
essere ricollegato al rito annuale
dell’espulsione del pharmakoi dell’antica
Grecia, che mirava ad espellere periodicamente
la macchia accumulata l’anno trascorso
[22].
“E’ usanza ad Atene –
riferisce Elladio di Bisanzio – portare in
processione due pharmakoi in vista della
purificazione, uno per gli uomini, l’altro per
le donne…
[23]”.
La cerimonia aveva luogo il
primo giorno della festa delle Targhelie, il 6
del mese Tharghelion. I due pharmakoi, ornati di
collane di fichi secchi venivano portati in giro
attraverso tutta la città; li si colpiva sul
sesso con bulbi di cipolla marina, con fichi e
altre piante selvatiche, prima di cacciarli
fuori dalla città; può anche darsi che, almeno
alle origini, fossero messi a morte per
lapidazione, i cadaveri bruciati, le ceneri
disperse.
Tutto lascia pensare che i
pharmakoi venissero reclutati tra la feccia
della popolazione, tra coloro che per i loro
misfatti, la loro bruttezza fisica, la loro
bassa condizione, le loro occupazioni vili e
ripugnanti erano considerati esseri inferiori.
A Leucade, ai fini della
purificazione, si prendeva un condannato a
morte.
A Marsiglia un poveraccio si
offriva per la guarigione di tutti. Ci
guadagnava un anno di vita, mantenuto a spese
del popolo. Trascorso l’anno, lo si portava in
giro per la città con solenni esecrazioni,
perché tutte le colpe della città ricadessero su
di lui
[24].
Nella tragedia di Sofocle,
Edipo è presentato in modo esplicito, come l’agos,
la macchia che bisogna espellere colui che porta
il peso di tutta la sventura che opprime i suoi
concittadini.
In Omero ed Esiodo è la
persona del re, rampollo di Zeus, quella da cui
dipende la fecondità della terra, degli armenti,
delle donne. Si mostri, nella sua giustizia
“irreprensibile”, e tutto prospera nella sua
città
[25]; ma se si fuorvia, è tutta la città
a pagare per la colpa di un solo.
Il Cronide fa ricadere su
tutti la sventura, limos e loimos, carestia e
peste tutt’insieme: gli uomini muoiono, le donne
cessano di partorire, la terra resta sterile,
gli armenti non si riproducono più
[26].
Perciò la soluzione normale,
quando su un popolo si abbatte il flagello
divino, è di sacrificare il re. Se egli è il
signore della fecondità e questa s’isterilisce,
è perché la sua potenza di sovrano si è in un
certo senso invertita; la sua giustizia si è
fatta crimine, la sua virtù macchia, il migliore
è divenuto il peggiore.
Le leggende di Licurgo, di
Atamante, di Oinoclo comportano così, per
cacciare il loimos la lapidazione del re, la sua
messa a morte rituale, o, in difetto, il
sacrificio di suo figlio.
Ma succede anche che si
deleghi a un membro della comunità il compito di
assumere questo ruolo di re indegno, di sovrano
alla rovescia. Il re si scarica su un individuo
che è come la sua immagine rovesciata di tutto
ciò che il suo personaggio può comportare di
negativo. Tale è appunto il pharmakos:
controfigura del re, ma alla rovescia, simile al
re del Carnevale che si incorona al tempo della
festa, quando l’ordine vien messo sottosopra, le
gerarchie sociali invertite: i tabù sessuali
sono aboliti, il furto diventa lecito, gli
schiavi prendono il posto dei padroni, le donne
scambiano gli abiti con gli uomini; - allora il
trono deve essere occupato dal più spregevole,
più brutto, più ridicolo, più criminale. Ma,
finita la festa, il contro-re viene espulso o
messo a morte, trascinando con sé tutto il
disordine che incarna e di cui purga nello
stesso tempo la comunità.
I Calabresi ritenevano che
durante i giorni del Carnevale non bisognava
permettere a nessuno di esercitare il proprio
mestiere. E se avveniva che qualcuno
trasgredisse la consuetudine, gli amici,
accorgendosene, lo distraevano togliendogli gli
strumenti del lavoro che poi portavano in pegno
al vinaiolo o al pizzicagnolo per il vino, la
salsiccia ed altre cose mangerecce, addebitando
tutto al colpevole profanatore del Carnevale.
Non a caso in quel periodo si sentiva
pronunciare la seguente frase:
Duminica, Luni e Marti,
non si pensa cchjù all’arti, ma si penza a lu
mangiari chi esti di Carnalivari
Domenica, Lunedì e Martedì,
non si pe pensa più al lavoro, ma si pensa al
mangiare, poiché e di Carnevale.
Anche durante i Saturnali si
sospendeva ogni attività. Ecco come Luciano nei
Dialoghi fa parlare Saturno: “…In questi giorni
non è lecito trattare alcun affare, né alcuna
pubblica faccenda, ma bere, ubriacassi, gridare,
motteggiare, giocare ai dadi, fare il Re del
Convito, ricevere i servi alla mensa, cantar
nudo e barcollando, danzare col volto tinto di
fuliggine, Queste cose è permesso fare…”.
Fino a non molto tempo fa,
nei paesi della Calabria, se qualcuno si fosse
applicato ai lavori di campagna (generalmente la
coltura delle vigne coincideva col Carnevale)
veniva preso con violenza, e gli veniva tinto il
volto di fuliggine, come usavano i Satiri nelle
feste di Bacco, oppure lo coprivano con una
maschera.
Sul capo gli veniva posta una mitra di
pelle e appendevano un campanaccio al braccio
destro e un paniere con cenere al sinistro.
Così abbigliato e con gli
strumenti del lavoro appesi sugli omeri, veniva
portato al paese o sopra un asino
[27]
o addosso a qualcuno, o in seggetta formata
dalle mani intrecciate di due dei compagni.
Il campanaccio serviva per
fare strepito al suo passaggio e richiamarvi
intorno la gente, alla quale mandava poi i suoi
saluti con aspersione di cenere. Se per caso,
nelle vie interne, si fossero trovate donne
intente a filare, la lieta brigata strappava
loro fuso e conocchia
[28].
Fino a qualche anno fa, in
numerosi carnevali della Calabria, era possibile
trovare maschere, decorazioni floreali e
alimentari, simboli fallici che richiamavano il
carattere di festa di propiziazione,
prolificità, rinascita della natura.
Nei territori meno isolati
della Regione il Carnevale ha perduto il
carattere drammatico-orgiastico; le canzoni
originarie della festa si sono venute
trasformando in farse popolari ricche di lezzi,
riferimenti e intrighi, satire contro personaggi
della vita locale.
La divisione in classi
alimenta la satira contro i potenti e i padroni
che vivono una diversa vita. Così in un distico
dei Greci di Calabria che ha avuto numerose
variazioni nella cultura popolare delle altre
zone calabresi:
I addiso pinnao tu crasì
tu carnasciumo
c’ego pinno tu nerò tu
pigaddio
[29]
Altri beve il vino che fa
carne
ma io bevo l’acqua da povera
sorgiva.
Mentre in una farsa raccolta
a S.Nicola da Crissa:
‘Mbiatu cu’ ave frisca la
memoria
E cu’ ave lu stipendio a
quindicina;
Alla fini di lu misi va e
si paga
E si la ccatta ‘na coscia
de vaccina:
A mia l’amaru, lu picu e
la pala
E chista este la mia
medicina.
Beato chi ha fresca la
memoria/ E chi si prende lo stipendio ogni
quindici giorni;/Alla fine del mese va a
pagarsi/ E se la compra una coscia di vaccina/ A
me l’infelice il pico e la pala/ E’ questa la
mia medicina.
Le farse carnevalesche in
Calabria documentano con la loro tipizzazione
l’attenuarsi del carattere popolare e
l’infiltrazione di elementi colti (frasi
italiane non funzionali, mosse letterarie di
ottava epica, accentuazione dell’elemento
popolare da parte di attori colti, etc.) sicchè
per avere l’idea delle manifestazioni
carnevalesche nella loro realtà antropologica
occorre riferirsi anche agli elementi della
tradizione orale in un confronto con tutti i
materiali dispersi e residui nella regione.
L’ideologia pagana della
festa è inquinata dall’infiltrazione letteraria
che tende ad assimilarla ai fenomeni della
società borghese e, soprattutto, è
colpevolizzata sotto il segno del demoniaco,
della corruzione, dalle gerarchie ecclesiastiche
le quali nell’elemento autentico, libertario o
liberatorio, vedendo la vendemmia del diavolo
(come in ogni manifestazione del corpo), della
cuccagna popolare, la satira delle istituzioni,
le maschere sono viste come pericolo per
l’anima, per la speranza nel paradiso celeste,
come indirizzo di disobbedienza e di
sovvertimento, come travestimento suscettibile
di attenuare le responsabilità e le dipendenze
dal potere.
La lunga lotta della Chiesa
contro il Carnevale si inserisce nella “polemica
antimagica attraverso cui la civiltà occidentale
si è venuta via via plasmando nel corso della
sua storia”
[30].
La Chiesa segue la consueta
tecnica dell’assorbimento, ove possibile,
altrimenti della condanna. La sua influenza si
limitò alla parziale riscrizione moralistica,
nei termini del suo linguaggio, delle figure del
Carnevale: si introdussero diavoli, angeli,
monaci, la quaresima, senza poter modificare
funzioni e significati.
Le polemiche
antimagiche della Chiesa (e dei profeti) si
iscrivono nei processi di modernizzazione, o
meglio di consolidamento del nostro mondo e
della nostra ragione, che si estendono a tutto
abbracciare per eliminare altri mondi e altre
ragioni e la possibilità stessa di pensarli.
Quando nel Settecento la
penetrazione religiosa raggiunge capillarmente
le campagne (mentre nelle città si sviluppa la
cultura laica) ha inizio la gestione
ecclesiastica delle feste: il consenso popolare
consegue all’egemonia del potere religioso.
Giovanni Conia che era
canonico e teologo, giudica le maschere da un
punto di vista unicamente censorio (“testi senza
cerveja”) e le condanna come esseri infernali
[31]
:
Chi nov’arrazza è chissa
di nimali?
quatrupiti non su chissi
bestiacci:
auceji mancu, ca non
hanno l’ali:
omani manco su: guardati
li facci:
si smorfj scancarati su
nfernali?
Si, si, diavuli su,
diavuli pacci
[32].
Ma anche dopo le
epurazioni ecclesiastiche, dopo le limitazioni
poste dallo Stato liberale, Il Carnevale in
Calabria ha mantenuto per molto tempo archetipi
antichi corrispondenti alle strutture originarie
del mondo contadino e pastorale: il precetto di
mangiar carne il giovedì grasso:
lardaloru:
cu’ no ‘ndavi carni si ‘mpegna lu figghiolu
Giovedì grasso
chi non ha carne si impegna il bambino
la
macellazione del maiale e la conservazione delle
carni, i cortei per la morte di Carnevale.
Nei dialoghi popolari di
Crotone è accentuata la contrapposizione fra
l’abbondanza di olio del Carnevale e la povertà
di Quaresima (sarda salata, Corajsima, occhi
torta/ nun ce lassi fogghie a orta”); a Tropea
Quaresima si lamenta degli stenti che deve
sopportare per maritare le dodici figlie (i mesi
dell’anno), le “ghivannare” (lavandaie) gli
orsi, gli “zimmari” (caproni), i diavoli (con
gli animali e i diavoli coperti di pelli e
carichi di campanacci), ma queste maschere
antiche e indicative dell’origine della festa
sono scomparse e sono state sostituite dal
contrasto tra Carnevale e Quaresima (vestita di
nero e con la collana fatta di teste di aglio e
peperoni secchi e rossi), dal processo e dalla
condanna a morte di Carnevale.
Le maschere antiche
prosopopaiche scompaiono perchè quella società
pastorale è finita ma il canto che rimane indica
la continuità della vita nella natura:
Chinnilivàre mo si nni va
(...) / e ghinnichibène/ nata vota vena”
Carnevale ora se ne va a
(...)/ col nuovo anno ritornerà ancora.
Un rituale Carnevalesco
ancora in uso a San Sosti, in provincia di
Cosenza, si segnala come carnevale strutturato
con esclusive valenze allegoriche e simboliche,
collegate alla rifondazione del tempo, è quello
de I Mesi dell’Anno.
Si tratta di una forma
drammatica popolare connessa al ciclo
calendariale, sorta di profezia o almanacco
drammatizzato, studiato dal Toschi nel suo
importante saggio sulle origini del teatro
italiano
[33] .
Lungo la strada principale
si raduna una coloratissima brigata che
rappresentano i dodici mesi. I personaggi giunti
sul luogo deputato allo spettacolo, si
dispongono in cerchio declamando a gran voce le
proprie virtù stagionali che non temono
confronti.
Anche in uno strumento
musicale rustico chiamato “zzucu” (voce
onomaopeica) - consistente in un vaso di
terracotta coperto da una pelle sottile, legata
all’orlo a modo di tamburo, nel cui centro è
fissata verticalmente una cannuccia che viene
sospinta in alto e in basso con la mano - e che
ha un suono rauco, cupo e monotono, rimane un
ricordo del Carnevale originario pastorale (con
pifferi, zufoli, zampogne, strumenti di legno,
di pelle, etc.).
Nel suo sonetto censorio
della maschera Giovanni Conia ricorda gli
antichi strumenti musicali delle feste
carnevalesche:
Si
sbattinu abballandu
cu li chitarri, e cu li
cerameji:
Vi’, vi’ n’atra partita
esci gramandu!
Non sai si sunnu lupi,
ursi, o viteji:
si ncugnanu, si svrazzanu
sonandu
mortara, zucurucu, e
tamburredji.
Anche in Calabria, come in
altre parti d’Italia, il Carnevale veniva
personificato.
In alcuni paesi
(Cetraro, Monteleone, Brancaleone, ad esempio),
nelle farse di Carnevale, accanto ai personaggi
tipici delle rappresentazioni carnevalesche (il
Capitano, il Medico, il Notaio, Pulcinella, il
venditore ambulante, l’Americano, la
Prostituta...), ritroviamo Carnevale che mangia,
beve, ride, viene operato, fa testamento.
“Protagonista è la figura stessa di Carnevale.
Con un procedimento tipico della fantasia
primitiva, il popolo tende a trasformare in miti
i fatti e gli elementi della sua esperienza
quotidiana, e tale tendenza raggiunge il suo
massimo, concretandosi nel fenomeno della
personificazione”
[34]
.
La personificazione di
Carnevale avveniva prevalentemente in quei paesi
in cui i festeggiamenti si concludevano con la
farsa o altre rappresentazioni teatrali, senza
la morte e il bruciamento del fantoccio.
Le piazze, le strade, i
vicoli del paese divenivano luoghi di teatro
popolare; gli abitanti del paese e delle
campagne erano gli attori-protagonisti di un
rito-spettacolo attraverso cui la comunità si
autorappresentava, autodenunciava e si
purificava.
Il corteo di Carnevale (sia
nei paesi in cui assumeva prevalentemente
l’aspetto di corteo funebre dietro al fantoccio
sia nei paesi dove sfilavano soltanto i
mascherati protagonisti della farsa), accanto ai
valori estetici e spettacolari che esso
presentava, svolgeva la funzione di
delimitazione, ridefinizione, riappropriazione
degli spazi paesani, analogalmente a quanto
avveniva con le processioni religiose, con le
quali veniva sacralizzato il territorio noto.
Nel corso del corteo
funebre, attraverso i pianti, le litanie, le
preghiere, i canti licenziosi e scurrili, veniva
attuata un’esplicita parodia della liturgia
ecclesiastica che ci rimanda alle medievali
“feste dei pazzi”, dove, come già detto,
l’insania collettiva faceva profanare le chiese
e gli altari diventavano mense per
pantagrueliche abbuffate. Un diacono veniva poi
eletto re dei pazzi e portato in trionfo assieme
a una fanciulla seminuda.
Gesti, scherzi,
pianti e risate esprimevano il bisogno profondo
di esorcizzare e di allontanare la morte.
Analoga funzione
esorcistica svolgeva il testamento di Carnevale,
in passato particolarmente diffuso nei paesi
della provincia di Cosenza (Cetraro, San Lucido,
ad esempio).
Spesso il testamento è in
prosa; altre volte in versi, come quello
raccolto a S. Lucido, nel quale scherzosamente
Carnevale elenca i suoi lasciti (vino, noci,
fichi, carne di maiale, guai, pene, inganni,
pensieri).
Nella versione amanteana
della celebre farsa ottocentesca in ottave del
letterato Costantino Jaccino da Celico
[35].
Il testamento è un vero inno
alla filosofia “epicurea”, che Carnevale,
attraverso un avaro notaio, lascia in eredità ai
posteri; una composizione non priva di
sentimenti di giustizia e di uguaglianza:
"…/
All’articulu secunnu/ iu mi sientu di lassari/
Tuttu quantu lu miu funnu/ A china sa cancariari./
I sazizzi e lli prisutti/ iu li lassu a lli
farabutti,/ Vijulari a lli mangiuni,/
Cupiccuolli a lli riccuni./ E sazizze e
supressate/ Lassua schette e maritate,/ A
quatrare e vecchiarelle/ Lingue ei puorcu e
purmunelle./ Ed a tutti i ‘mbriacuni/ Vinu a
fiaschi e a fiascuni/…/”.
All’articolo secondo / io mi
sento di lasciare / Tutto quanto il mio fondo /
A chi si sa divertire / Le salsicce e i
prosciutti / io li lascio ai farabutti / Violari
ai mangioni /Capicolli ai ricconi/ E salsicce e
soppressate/ Li lascio a scapoli e ammogliati /A
ragazzi e vecchiarelle / Lingue di porco e
polmonelle/..
Come in altre
parti d’Italia, anche in Calabria “come era
costume della letteratura carnevalesca,
l’elemento parodistico costituisce l’elemento
primario del testamento, gli trasmette una forza
beffarda e dissacrante, gli presta una carica
mordace e irriverente, lo tuffa nell’inversione
e nel capovolgimento dei valori tradizionali,
quelli accettati o imposti dalla gerarchia
sociale e religiosa... In questo amplissimo
orizzonte di funerei giochi letterari... è forse
possibile scorgere la segreta copertura di una
paura invincibile, d’un tormentoso rovello,
quasi di un tentativo inconscio d’esorcizzare,
con demistificazione parodistica, l’antico
terrore dell’ultimo viaggio”
[36]
Nonostante le
ambiguità, i controlli dall’alto, le limitazioni
ecclesiastiche, Carnevale rispondeva a bisogni
sociali, culturali, psicologici profondi delle
classi popolari. Esso ha rappresentato anche in
Calabria uno spazio relativamente autonomo di
espressione, protesta, liberazione per le classi
oppresse.
Come ha
oppurtunatamente detto Bachtin, Carnevale non
era soltanto una festa, esso era una concezione
del mondo e della vita, rappresentava la seconda
vita del popolo in opposizione alla visione
ufficiale, aristocratica, seriosa del mondo.