Thanatos e Koimesis: la morte e i suoi riti nel
reggino
22.02.2001
A
relazionare sul tema, dopo l’introduzione di Orlando Sorgonà ,
sono stati Sebastiano Stranges
su “ Riti e sepolture funebri nella provincia arcaica reggina” , Franco
Mosino che ha trattato il tema relativo a “La poesia sepolcrale dei Greci” e
l’antropologa Paola Garofalo che ha parlato su “Usi funebri nelle zone di
Bagnara Calabra, Ceramida, Pellegrina” .
Thanatos
,in greco vuole dire
morte , è un trattamento "post mortem"
che nell'antichità veniva usato dagli Egizi, nei loro riti funebri, per
conservare il più possibile il corpo del defunto e le
pratiche funebri nel nostro territorio hanno radici antiche .
Gli
scavi archeologici della necropoli di Tauriana, in contrada Scinà, attestano
l’usi di porre ai piedi del defunto una monetina per pagare il pedaggio per
l’aldilà e che secondo la tradizione pagana l’obolo veniva
anche messo in
bocca del morto affinché pagasse a Caronte il traghettamento all’altro mondo.
Una
tradizione che, in alcuni paesi della locride , si perpetuava fino agli anni
settanta .
Presso i Romani ,
quando sopraggiungeva la morte, il parente più prossimo raccoglieva lo spirito
del defunto baciandolo sulle labbra e quindi gli chiudeva gli occhi.
Solo così poteva avere inizio la conclamatio o lamento funebre intonato dai
parenti, che oggi la tradizione ha consegnato a noi in quel lamento di
“prefiche” ancora in uso in alcuni luoghi del Meridione d'Italia (Bagnara
Calabra).
Sin
dalle origini, l'uomo ha cercato di dare un senso alla vita e alla morte. In
particolare i riti funebri sin dal Paleolitico confermano tale attenzione,
soprattutto per ciò che concerne la cura nella preparazione di cadaveri.
Questo
periodo storico ha caratterizzato la presenza di tombe a fosse rivestite
di sassi con sopra ghirlande di conchiglia.
Da uno scavo a Bova Marina
sono venuti alla luce, dentro una capannina risalente al primo neolitico, resti
umani disseminati in zone diverse del terreno .
In un primo momento si è
pensato alla diffusione sulla fascia jonica reggina, per questa data epoca, di
un rito funebre particolare, appunto quello dello smembramento degli arti dei
cadaveri.
Ma in un secondo
tempo, dopo il ritrovamento all'interno della medesima capannina di ossa di
epoca tardo romana, si è scoperto che l'insieme dei resti si era mischiato in
seguito ad una frana del terreno .
Nell'età
del Bronzo si sviluppano le necropoli corredate di vari materiali ed utensili, a
Salerno, presso una tomba d'epoca romana, dentro un'ampolla sono stati ritrovati
resti di bergamotto. Ritrovamento che arricchisce ulteriormente la storia di
questo agrume che sembra sia stato adoperato anche in Egitto per la
mummificazione
Lo
storico Franco Mosino, relazionando sul periodo greco, ha descritto l'ubicazione
dei sepolcri che erano posti extra moenia, lungo le strade anche agli incroci,
così i passanti potevano leggere i nomi dei defunti. Inoltre era in vigore il
rito del pasto funebre consumato accanto o sopra il
sepolcro, dopo un dato numero di giorni successivi alla morte del congiunto.
Il corredo funebre dipendeva dalla ricchezza della famiglia.
Durante il periodo romano, tale rito,
in genere, per le donne era formato da utensili da cucina, attrezzi per la
filatura e vasi contenenti creme e oli profumati e per i guerrieri da armi. I
bambini ed i poveri venivano portati in un cimitero comune e sepolti senza
nessuna cerimonia, il cosiddetto funus tacitum . Le salme dei ricchi patrizi venivano unte con oli
balsamici e vestite riccamente, poi esposte in una camera ardente cui seguiva un
funerale in pompa magna.
Questo
consisteva in una processione preceduta da suonatori con strumento a
fiato, seguiti poi dalle “praeficae”, ossia donne
pagate per piangere, che accompagnavano il defunto perquotendosi il petto,
strappandosi i capelli e lanciando grida strazianti.
Seguivano ancora vari mimi e
danzatori, poi il carro su cui stavano le “imagines” degli antenati: erano
schiavi.
Il
lamento funebre trova le proprie radici nel cerimoniale greco, come il lamento
di Andromaca sul cadavere di Ettore come si evince dal XXIII canto dell’Iliade
di Omero .
L
e
prèfiche erano donne incaricate di cantare nenie funebri durante la veglia al
defunto.
Esse accompagnavano il canto con una particolare mimica (muovevano il
capo, si spettinavano, agitavano un fazzoletto).
Il
termine prefica indica la donna che,
insieme ad altre colleghe, seguiva, nel corteo funebre dell’antica Roma, i
portatori di fiaccole, con il compito di levare altissime grida di dolore (lugubris
eiulatio) e, negli intervalli del rito, cantare la "naenia" dei morti
e lodare il defunto: tutto ciò a pagamento.
Q
uesto
è stato l'argomento di discussione dell'antropologa Paola Garofalo che ha
svolto un lavoro di ricerca nella zona tirrenica reggina che comprende i paesi
di Bagnara, Pellegrina e Ceramida.
In
questa zona c'era un vero e proprio rituale come ad esempio quando qualcuno
entrava in agonia veniva fatta suonare la campana della Chiesa a cui la persona
apparteneva .
A Bagnara esistono molte confraternite e quando un loro
appartenente entra in agonia tutti i confratelli vano a chiedere notizie e si
uniscono ai parenti per dire preghiere e vi partecipano uomini e donne.
Appena
vi è il decesso i parenti si abbandonano ad un pianto disperato, le donne
incominciano a gridare e si sciolgono i capelli e si battono il petto.
Poi si
calmano per dare la possibilità agli amici dilavare il morto che viene cambiato
e rivestito con indumenti nuovi e con il vestito migliore.
La camera ardente è
ricoperta con drappi (neri fino a qualche decennio addietro) viola. Il catafalco
a Bagnara cambia a seconda della Confraternita, mentre a Ceramida e Pellegrina
viene portato dall'impresario delle pompe funebri di Bagnara.
Mentre a Ceramida
l'allestimento della camera viene fatto preparare dall'impresario a Bagnara e
Pellegrina sono le Confraternite a provvedere a tutto.
In
queste zone c'è un uso di piangere i propri morti che il De Martino
riscontra nel bacino euromediterraneo.
A
lcune
pratiche proprio di questo rito noi le ritroviamo negli antichi riti pagani:
come l'uso di strapparsi i capelli e di graffiarsi il viso, che possiamo
riscontrare in Omero, nei Greci e nei Romani.
Nelle
veglie funebri, alcuni usavano cospargersi il capo di cenere, sembra che sia una
reminiscenza dell'antica Grecia.
Nelle esequie l'intervento per chiamata o per
spontanea iniziativa di donne specializzate nel piangere il cadavere
strappandosi i capelli ed esaltando, nello stesso tempo con cupe cantilene i
meriti del defunto, ricordano le antiche prefiche elleniche.
Accanto a questo
rituale pagano di piangere i morti coesiste quello cristiano che in qualche modo
ha contribuito a moderare dette pratiche pagane.
La
prefica esalta le cose terrene, esprime il rimpianto del defunto per ciò
che lascia sulla terra e questo è stato uno dei motivi per cui la Chiesa
combatté questa usanza.
I
nfatti la Chiesa
mediante i Sinodi ha proibito di manifestare il dolore in dette forme: ciò si
evince ad esempio nei manoscritti del canonico Sorace che riassumendo le disposizioni sinodali di
Nicotera (dove era Cancelliere della Curia Vescovile) risulta che nel Sinodo
celebrato il 24 luglio 1588, il Vescovo Capece della predetta Diocesi, conferma
le norme precedentemente emesse nel 1583, dove si proibiva il «repete»
ossia quella sorta di pianto lugubre, che si faceva dalle reputatrici sul
cadavere e lo scarmigliarsi i snellirsi dei capelli.
Questa
tradizione è molto antica e da quanto ci ha tramandato Eliano si evince
che questa
tradizione è molto antica e da quanto ci ha tramandato Eliano si evince
che:
«Locrenses
mortuas non lugebant, sed postquam cadaver efferent et humarent convivebant»
ed il Marafioti intende nel senso che i Locresi non piangevano il morto, non
perchè non piangessero ma forse perché nel pianto dimostravano cantare ed
ancora oggi in alcuni parti del territorio della locride le donne nell'atto di
piangere il defunto, con cori di due o tre donne, accordano un mesto canto
vocale.
Il
catafalco è adornato con la migliore coperta damascata e con il lenzuolo più
bello e più ricco di ricambi entrambi sono portati in dote dalla moglie.
Il
cuscino fatto con foglie di alloro e bergamotto è riccamente addobbato con
merletti e raso.
Durante
la veglia le donne della famiglia si dispongono a cerchio attorno al defunto
e con i capelli sciolti iniziano il lamento, le donne piangono
frammischiando alle lacrime e alle grida le lodi del defunto.
Le
donne in una camera e gli uomini in un'altra e fanno la nottata.
Le donne iniziano la nenia e mentre la cantano si
tirano i capelli e si graffiano il viso, mentre a Pellegrina si battono la testa
con pugni .
L’appuntamentoha rappresentato quindi un’attenta analisi dei rituali funebri
dove la morte di un individuo provoca una profonda commozione specie se il
defunto è deceduto o per morte violenta o per disgrazia.
É
presente ed ancora viva nella convinzione popolare che tali fatti avvenuti in un
determinato luogo costringano gli spiriti a presidiare il luogo del misfatto, in
quanto vuole tradizione che il decesso avvenga in modo naturale e la morte
violenta costringe l’anima a rimanere sulla terra, minacciando l’incolumità
fisica dei viventi : questa credenza è ben radicata in molti comuni della fascia jonica calabrese come quelli di Bova .