A volte capita che si avverte da parte degli organizzatori di una qualsiasi manifestazione un certo timore nell'organizzare la nuova edizione ed i dubbi sono che la medesima manifestazione non abbia il fascino della precedente. Invece tali attitudini emotive vengono disperse, quando vi è una massiccia risposta di pubblico con  gli entusiasmi registrati durante le tre giornate. Tutto questo è indice di una certa soddisfazione da parte degli organizzatori che da questi elementi di lettura si preparano si da ora a stilare il programma del prossimo appuntamento. Un Mediterraneo, quello amato e trasformato in versi e note da Fabrizio De Andrè che ha accompagnato gli organizzatori in tutte le fasi della manifestazione: dalla fase progettuale, agli incontri-confronti con altre realtà istituzionali. Da sottolineare che prima di arrivare alla data della giornata di sabato 25 giugno c'è stato un lavoro preparatorio caratterizzato da diversi incontri-confronti con altre realtà, alcune sensibili all'iniziativa, altre ancorate ai moli della diffidenza: ma anche queste attitudini sono elementi caratteristici, purtroppo, di questo bacino di mare, quindi "Popoli e Culture nel Mediterraneo" che è stato fonte ispiratrice di Fabrizio De Andrè. Nel corso della conferenza stampa è stato presentato il programma dell'edizione odierna che, anche gli addetti all'informazione hanno evidenziato il laborioso lavoro progettuale da parte del sodalizio reggino. Tre settimane di rassegna, tra esposizioni degli elaborati realizzati dagli studenti degli Istituti Artistici ricadenti sul territorio della provincia di Reggio Calabria e dell’Accademia di Belle Arti della Città dello Stretto e due appuntamenti presso gli Istituiti penitenziari di Reggio Calabria e Laureana di Borrello: questo il palinsesto organizzativo della nuova edizione. All’interno della manifestazione è inserito un corso scolastico, riservato agli Istituti artistici della provincia di Reggio Calabria ed all’Accademia di Belle Arti della città dello Stretto, che si basa sulla elaborazione artistica di cinque canzoni di Fabrizio De Andrè e che per questa edizione sono state scelte: “Hotel Supramonte”, “Un Chimico”, “Nella mia ora di libertà”, “La ballata del Michè”, “Don  Raffaè”.    C’è da sottolineare la presenza alquanto nutrita di opere realizzate dagli studenti del Liceo Artistico “Mattia Preti” di Reggio Calabria, dell’Istituto d’Arte “Michele Guerrisi” di Palmi e dell’Accademia di Belle Arti di Reggio Calabria, questo grazie anche alla sensibilità del corpo insegnanti e dei Direttori didattici degli istituti che hanno voluto essere presenti alla manifestazione. Gli elaborati sono stati esposti per tutta la giornata di sabato 25 giugno presso il Chiostro del Tempio della Vittoria, hanno hanno fatto da degna cornice alla manifestazione organizzata in riva allo Stretto. Prima di passare la parola al primo relatore è stata data lettura di un documento redatto dal Presidente della Fondazione "Fabrizio De Andrè", dal cui contenuto si è potuto evincere la soddisfazione della Signora Dori Ghezzi De Andrè per la manifestazione e per i suoi contenuti culturali. Il primo relatore, l’avvocato Carlo Baccellieri ha relazionato su “La cucina calabrese e quella ligure” evidenziando che nonostante la grande distanza che separa le due regioni vi siano, non solo a livello ambientale, ma anche in una delle più tipiche manifestazioni della cultura popolare, e cioè della gastronomia, delle affinità che nascono dalle reciproche influenze. La Calabria e la Liguria sono molto distanti, più o meno 1200 chilometri; apparentemente non dovrebbero esserci grandi affinità tra due regioni così lontane, ma risalendo la penisola, in treno o in auto, sul versante tirrenico fino alla Liguria ed oltre, si può notare  come la flora cambi gradatamente mentre si sale verso il Nord . Già la Campania presenta aspetti molto diversi rispetto alla Calabria: le campagne diventano più ampie e pianeggianti, le coltivazioni di agrumi devono essere protette, la macchia mediterranea gradatamente scompare, anche  nel Lazio e nella Toscana vi è una flora molto diversa, così come sul versante adriatico. Ma quando si arriva in Liguria ecco che l’aspetto del paesaggio diventa familiare: le coste precipitano sul mare con dirupi che lasciano pochissimo spazio alle strette spiagge,  ricompare la macchia mediterranea, si rivedono coltivazioni a terrazzo, si rivedono le agavi ed anche i fichidindia. La Liguria sarebbe stata una regione molto povera se non avesse avuto l ‘opportunità di sviluppare il più grande porto commerciale d’Italia e poi di avvalersi dello sviluppo industriale del Nord Italia, a sua volta prossimo al centro dell’Europa. Perciò lo sviluppo e l’economia delle due regioni, affini per clima e morfologia, sono così diversi. Tuttavia queste affinità non si affermano alla sola condizione fisica, che comprende anche la flora e la fauna, ma si estendono, in qualche misura, alla più tipica delle produzioni culturali delle popolazioni, quella della gastronomia, precisando che la cucina calabrese è una tipica cucina meridionale che ha molto in comune con le due massime espressioni della gastronomia del Sud: quella di Napoli e quella della Sicilia. Il relatore nel corso del suo intervento afferma che le tradizioni gastronomiche della Calabria e della Liguria hanno più di un punto di contatto dovuto, non solo alle coltivazioni agricole, ma pure a contatti che nel corso dei secoli hanno spesso portato i genovesi, da sempre navigatori e marinai, ad incontrarsi con gente di tutte le latitudini e, tra tanti, anche con i calabresi. Il ligure, come i meridionali, usa l’olio d’oliva ed  utilizza, come i calabresi, molte verdure dell’orto, poco la carne e moltissimo il pesce. E in cucina, proprio come i calabresi, cerca di utilizzare tutto ciò che può essere commestibile perché in passato ha dovuto far dei conti con una natura alla quale bisognava strappare, a forza di braccia e con grande fatica, fazzoletti di terra da coltivare: quindi è evidente qualche somiglianza con la gastronomia meridionale. Innanzitutto va ricordato un alimento assunto da calabresi e liguri, probabilmente per motivi diversi tra loro, come fondamentale, almeno fino a 40-50 anni or sono nelle campagne, ma tuttora in auge: il pane biscottato che in Liguria chiamano galletta. In Calabria era una necessità delle campagne ove non c’era il forno pubblico e serviva per conservare a lungo il pane che i contadini confezionavano a distanza di 15 giorni o, addirittura, un mese. In Liguria serviva soprattutto ai marinai sulle navi ove il pane non si poteva confezionare fresco ed occorreva consumarlo biscottato. Da qui nasce, la prima e quasi incredibile, affinità anche nel lessico. «Mi sono sempre domandato – prosegue il relatore - perché da noi il biscotto bagnato e condito con olio, origano, aceto, si chiamasse “a caponata” e una risposta non me la sapevo dare, anche perché l’altra caponata nota, fatta a base di melanzane, peperoni, sedano, capperi, di nascita arabo-siciliana, è tutt’altra cosa. Finalmente ho appreso che il nome ha origini genovesi e trae spunto da una preparazione di pane biscottato. Si tratta di questo: i marinai sulle navi usavano per forza di cose, il pane biscottato e, per renderlo più appetitoso, prima lo ammorbidivano in acqua e poi lo insaporivano con olio di oliva, capperi, acciughe sotto sale, aceto chiamavano questa preparazione “capponada”,  la cui denominazione prendeva spunto dalla più elaborata pietanza “u cappun magru”, ossia il cappone magro, una ricetta sempre a base di pane biscottato ammollato ma arricchita da molte altre verdure e pesce, così detta per sottolinearne da una parte la bontà e dall’altra l’assenza di carne. Ora, tra la “capponada” ed il nostrale “biscottu a caponata” le differenze sono veramente minime per cui deve necessariamente ritenersi che o noi l’abbiamo appreso dai marinai genovesi o loro da noi: da qui non si scappa. Io, ovviamente, propendo per la prima ipotesi». Un altro punto di contatto, in questo caso però solo nel lessico, è il termine buridda, che in Calabria è pervenuto direttamente dalla Francia senza passare per Genova, ma solo il  nome nel significato di stoviglia mal lavata, mentre in Liguria è giunta dalla vicina Provenza anche la pietanza a base di uova e di pesce che, effettivamente, lascia nei piatti adoperati a contenerla un puzzo molto sgradevole.  A proposito di pesce stocco è opportuno partire di un’osservazione preliminare: nonostante il mar  ligure sia (era) un mare molto pescoso  ed il pesce fresco si è sempre trovato in grande abbondanza, i liguri hanno fatto notevole uso del merluzzo essiccato o salato perché l’unico con il quale si potevano riempire le cambuse delle navi che solcavano i mari con navigazioni che duravano lunghi mesi. Va pure osservato che in Liguria, contrariamente all’uso invalso da Roma in su, si tiene ben distinto lo stoccafisso dal baccalà, perché, sebbene si tratti dello stesso pesce all’origine (merluzzo dei mari del nord) viene conservato in modo completamente diverso: essiccato il primo, salato il secondo,e, naturalmente, il sapore è molto diverso. Ma in Liguria, dove, come da noi, c’è una cultura del merluzzo conservato, alla distinzione ci tengono. Non è per nulla escluso che in Calabria, (non necessariamente passando per la vicina Messina) l’uso sia stato introdotto dai Genovesi i quali avevano nei secoli scorsi frequenti contatti con Reggio, tanto che il vessillo di S.Giorgio, che doveva divenire l’emblema della nostra Città, è tradizione che sia stato donato dai genovesi. Come detto, l’uso del pesce essiccato o salato, a cagione della facile conservazione, era molto in auge sulle navi fino ai primi decenni del secolo scorso e quindi i Genovesi ne facevano grande uso. Da tenere presente anche i frequenti contatti tra Genova e la Piana di Gioia Tauro per via del commercio dell’olio d’oliva di cui la Calabria era una delle principali produttrici in Italia e Genova il principale luogo di raffinazione e commercio. Le preparazioni liguri del merluzzo conservato di uso popolare sono molto simili alle nostre. Ad esempio lo “stocche brand de cujun” non è altro che il nostro “piscistoccu a nsalata chi patati” mentre  quello che prendono il nome di stoccafisso a tocchetto o a “buridda” e  di “stocche accomoudou alla genovese”, somigliano incredibilmente (salvo alcune aggiunte che lo arricchiscono) al nostro “piscistoccu a trappitara”. Le frittelle di baccalà alla spezzina sono in tutto e per tutto uguali alle nostre omologhe frittelle di baccalà. Nel campo delle verdure i nostri “sciurilli ca pastetta” hanno  una perfetta simmetria nei “fiori di zucca fritti” che ho trovato a Nizza insieme alle verdure ripiene di mollica (pomodori, peperoni, zucchine, melanzane, etc) che sono  tutte pietanze popolari in Liguria e prendono il nome di “ripieni all’antica”. Qui entra in campo la cucina mediterranea con le sue preparazioni a base di ortaggi e saporite fritture: è chiaro che a colture simili debba corrispondere una cucina, almeno per certi aspetti, non molto diversa. Una notazione: la Liguria era, fino a non molti anni or sono, l’unica regione settentrionale che conoscesse la melanzana quale ingrediente usuale della sua cucina. Un altro punto di contatto tra la gastronomia delle due regioni che mi sento di evidenziare è l’uso del capretto e dell’agnello che in Liguria si arricchisce di numerose preparazioni. Per concludere non possiamo non parlare di una  pietanza che da noi porta il nome di “genovesa” o di “carne alla genovese”. Pare che questa preparazione sia approdata in Calabria  passando per Napoli e li sia giunta da Genova introdotta da alcuni cuochi genovesi che avevano aperto le loro botteghe al molo grande del porto dove preparavano grandi quantità di carne che poi smerciavano direttamente agli avventori ed ai marinai in transito. Possiamo ritenere questa pietanza abbastanza vicina a quella che a Genova prende il nome “tocco di carne alla genovese” ed è  una delle poche pietanze a base di carne di manzo dalla Liguria. Certamente la pietanza, scendendo al Sud, ha cambiato molto i suoi connotati, è divenuta più semplice e più appetitosa, ma è connotata, come la consorella ligure, dal colore particolarmente scuro che prende il sugo col quale si usa condire la pasta. L’intervento di Gianni Aiello si è basato su vari elementi di carattere storico-culturali che hanno caratterizzato il percorso del  cantautore genovese e dell’intera area del Mediterraneo, sottolineandone il “suo destino comune” come fece Fernand Braudel nel 1985.   Quindi «Un omaggio al poeta del Mediterraneo, - ha esordito il relatore -  certo, per nulla retorico, un Mediterraneo che è un contenitore non solo di diverse culture ma anche di guerre, dolori, sogni, paure, utopie: da qui il sottotitolo della manifestazione “Popoli e Culture nel Mediterraneo”.» Gianni Aiello trattato anche gli aspetti delle sue conflittualità, basandosi su fatti storici che hanno visto contrapposto l’area islamica a quella occidentale , come ad esempio nel periodo delle crociate, il colonialismo, i conflitti politico territoriali che ancora oggi interessano, purtroppo,  alcune zone del bacino. È  stata analizzato il Mediterraneo evidenziandone le pertinenze storiche-culturali ereditate dal passato e che hanno avuto una loro crescita con i commerci, gli scambi sia essi culturali, commerciali,  sociali che politici e di tutto ciò ne sono valide  testimonianze che offrono validi esempi di ricerca e di riflessione la storia dell'antica Grecia, quella dell'antica Roma, ma anche di quelle di altre civiltà che se pur distanti ebbero il modo di sviluppare la circolazione di idee e scoperte culturali tra le varie comunità dell’area del Mediterraneo. Gianni Aiello ha posto una serie di interrogativi basati su cosa sia rimasto della civiltà mediterranea del passato e secondo lo stesso relatore ciò che si è ereditato sul piano intellettuale  ha origine nel mondo ellenico come la logica e la ragione della filosofia greca e quello trasmesso sul piano politico dalla comunità romana come il diritto e la forma politico-territoriale dell'impero romano; ma anche tutto ciò che riguarda la sfera del mondo spirituale, come le religioni monoteistiche che poggiano i loro fondamenti sui testi sacri, quali la Bibbia, i Vangeli e il Corano. L’altro quesito posto dal relatore è di cosa sia rimasto realmente attuale ed attuato di quel glorioso passato e che cosa  trova applicazione attualmente : da questa domanda Gianni Aiello ha menzionato la citazione di Giovanni Pascoli “… questo è il luogo sacro dove le onde greche vengono a cercare le latine…”  aggiungendo che oltre al punto d’incontro di tali civiltà, questo è anche “… il luogo delle città morte…”, non solo perché non più abitate ma anche perché “morte” anche per la mentalità, i  compromessi, i tradimenti, le utopie mai realizzate, promesse non mantenute. Un Mediterraneo, un Mezzogiorno che si identificano e che si riconoscono nei testi del dettato letterario di Fabrizio De Andrè :  i vinti, gli eterni sconfitti, un territorio  dove fatalità, ipocrisia, tradimenti, mentalità, si scontrano con un utopia di campanelliana memoria. Gianni Aiello adesso pone l'attenzione sui tratti somatici di  questi “miserabili”, - domandandosi e chiedendo in modo provocatorio ai presenti a pesare ed a ricordare   i vari Masaniello, i capi popolo, succeduti nel tempo e che poi, messi da parte, per aver quasi indignato un certa mentalità chiusa ed ostile ai cambiamenti, ancorata ai compromessi che si trovano in Leonardo Sciascia, Tommaso Campanella  dove i “... ed i suonatori, pagati, addolcivano il sonno infame…” Giovanni Verga, Nicola Giunta. La relazione è un continuo susseguirsi di note storiche, citazioni,  versi estrapolati dalle canzoni di Fabrizio De André  come quelle di "Don Raffaè” dove vi sono presenti altri  “tratti somatici” di gente bisognosa che si rivolge al  padre-padrone che da udienza a chi, suo malgrado, fa parte di quella schiera di “disperati”…  e quanti padri-padroni ha avuto il  Mezzogiorno con lo scorrere del tempo o il  cambio di casacca? I disperati delle rivolte, delle rivoluzioni, anche di quelle mancate, da Tommaso Campanella, ai fatti del 1799, a quelli di Caulonia, Avola, Battipaglia, Reggio, ad altre rivoluzioni  mancate come quelle de “La domenica delle salme” dove in un panorama triste e apocalittico viene soppressa ogni forma di resistenza e vengono imposti “sorrisi” atti a sopprimere, eliminare l’ennesima speranza utopica, non importa come essa si chiami. Ma lo scenario della canzone - evidenzia il relatore -  è temperato dal messaggio positivo finale che vede rinascere la lotta sotto forma di cicalio fastidioso che si estende per tutta la nostra penisola … da Palermo ad Aosta: ”Adesso non c'è nessun tipo di risposta unitaria da parte di chi subisce il potere, nessuna protesta come accadeva anni addietro. Il popolo non si esprime più in maniera collettiva e la sua protesta è come un coro di cicale”  Fabrizio De Andrè . Nel suo intervento, Gianfranco Cordì, responsabile della sezione “cinema“ del circolo culturale “L’Agorà”, ha messo in luce i motivi filosofici ed umani che stanno dietro alla figura intellettuale ed artistica del cantautore Fabrizio De Andrè.  Cordì ha cominciato parlando di un episodio verificatosi nell’adolescenza del giovane Fabrizio De Andrè.  Accadde che un suo professore di religione, chiamato Don Brillo,leggesse un passo del filosofo Kierkegaard nel quale si faceva il paragone fra Gesù e Socrate con riferimento alle loro morti. Alla fine di quella lettura il giovane De Andrè si avvicina a Don Birillo e gli confessa che lui, pur non essendo credente, ha sentito parlare quel giorno di un Gesù “ che gli piace”. De Andrè, ha detto Cordì, ama il Gesù di Kierkegaard perché è un Gesù umano. Vede in lui quel singolo essere umano messo di fronte alla propria condizione di uomo. Così, quello che a lui interessa, è l’umanità delle situazioni. La sua arte sarà fatta di questo ed anche le sue scelte personali e politiche.  Il fatto che abbia aderito all’anarchismo individualista vuol dire proprio questo: per gli anarchici individualisti, infatti, quello che conta è l’individuo umano. L’essere umano che si pone davanti alla società ma che rimane, pur sempre, un singolo, esso stesso, con  le sue prerogative e le sue esigenze. Quell’essere umano è la base di partenza di De Andrè nel considerare anche gli avvenimenti politici del suo tempo. E per questo egli leggerà tutti gli anarchici individualisti: Stirner, Malatesta e Bakunin. La sua anarchia sarà quella terra di nessuno nella quale gli esseri umani sono solo se stessi e nient’altro che se stessi.  Le canzoni che De Andrè scriverà poi saranno piene di questa esigenza e saranno anche delle canzoni che celebreranno questi ideali. Le sue Marinelle, Bocche di Rosa, i suoi Andrea sono dei singoli esseri umani posti di fronte alla loro condizione esistenziale di esseri nel mondo. De Andrè li porrà sulla scena con l’alto grado della sua umanità di artista. E li vedrà sempre come dei casi particolari in cui si declina l’umano e l’umanità.  Quell’originaria lezione di Don Brillo gli rimarrà sempre in mente.  E quel Kierlegaard sarà sempre nel suo cuore a caratterizzare la tragedia ed il dramma e la speranza di una condizione che si perpetua la stessa per ogni uomo.  L’essere umano messo di fronte alle sue responsabilità ed alle sue scelte.  Quando canterà Marinella , De Andrè canterà in realtà solo Marinella, la sua tragedia di donna su questo mondo.  La radice esistenzialistica verrà declinata nell’anarco sindacalismo nelle scelte politiche e sarà portata alle estreme conseguenze in una vita che sarà contrassegnata da una coerenza quasi assoluta. Infatti, De Andrè non accetterà mai i privilegi di classe della sua condizione di borghese. E devolverà parte degli incassi dei suoi concessi alle associazioni anarchiche.  Segni, questi, di una coerenza dovuta ad una scelta di vita alla cui radice c’è comunque l’uomo. Quell’uomo che Kierkegaard gli aveva insegnato a considerare per quello che era. Cordì ha concluso il suo intervento ricordando che De Andrè ha pagato anche a livello personale le sue scelte così radicali. Con un sequestro e con una lontananza dai mercati discografici tradizionali. De Andrè ha anche vissuto quasi in esilio in Sardegna. La sua vita è stata la conferma di quanto l’uomo fosse importante per l’artista. Quell’uomo conosciuto da De Andrè nei bassifondi di Genova e mai dimenticato. La sua vita è stata l’espressione di una coerenza pagata a caro prezzo ma anche portata avanti con dignità. La relazione di Vincenzo Foti si è basata sulla  formazione artistica di Fabrizio De André trova le sue radici nella frequentazione di cantautori francesi degli anni ’60, come Jacques Brel e soprattutto Georges Brassens. Ascoltando le canzoni, studiando i testi, il giovane De André – fin dall’adolescenza appassionato di musica country e jazz – comincia ad appropriarsi dei motivi essenziali di quella straordinaria “commedia umana” che lo porterà ad abbracciare le idee del movimento anarchico.  Questa visione del mondo ha permesso al carattere, all’inquietudine esistenziale di Fabrizio di trovare il giusto orizzonte di libertà e gli ha consentito via via di affrancarsi dalle ideologie, dai preconcetti e da tutto ciò che gli appariva come sovrastruttura, falsità, ipocrisia. De André aveva capito che gli emarginati, il più delle volte, riescono a sperimentare la solidarietà e l’autenticità in un modo impensato, spesso meglio delle persone considerate "normali".  E rivedeva i protagonisti delle canzoni di Brassens nei vicoletti della sua Genova, dove approfondiva la conoscenza di quelle figure – prostitute, omosessuali, ladruncoli, delinquenti comuni – che avrebbero poi trovato redenzione nelle sue canzoni.  Fabrizio era ancora ragazzino quando, nel dopoguerra, scorrazzava con gli amici per le "vie del campo", in un ambiente così diverso da quello d’origine: si addentrava nell’eterna disperazione, nel cuore di un’umanità derelitta, affamata, avvilita dalla miseria eppur capace di rassegnazione e dignità.  Proprio nei “carruggi”, De André ha imparato il rispetto e la comprensione verso il lato tragico della condizione umana, con tutte le sue debolezze e contraddizioni: da qui nasce quel cantare con dolcezza storie drammatiche ma poeticissime, che ancora oggi toccano nel profondo l’animo dell’ascoltatore più attento e sensibile.    Sul piano musicale, Fabrizio De André ha il merito di aver amalgamato le tre tendenze fondamentali europee del valzer, della giava e della tarantella in un suo stile proprio, riviste, corrette e adattate con una straordinaria abilità e con un gusto assai singolare.  Il suo modo di cantare era unico: quella voce calda, avvolgente, pastosa, a tratti carica di un’irresistibile ironia, se da un lato ricorda Domenico Modugno e  Luigi Tenco, dall’altro brilla invece di luce autonoma, sempre scandendo le parole con esattezza, quasi Fabrizio avesse il timore di inciampare nella pronuncia.  Per inciso, è questa la ragione per cui la maggior parte delle canzoni di De André, con la loro metrica ricca e serrata, risultano di difficile esecuzione anche per i musicisti professionisti.  La solida preparazione strumentale – certamente il più bravo in chitarra classica fra quelli della sua generazione – l’innato senso del ritmo e la passione per i generi musicali emergono fin dalle prime esibizioni. Un ulteriore motivo del successo di De Andrè risiede nell’intelligente metodo di lavoro. De André sapeva scegliere bene i propri collaboratori, ricercati di volta in volta fra i più accorti e valenti dei musicisti, arrangiatori, compositori, direttori d’orchestra.  Fra quelli che hanno lavorato con lui ci sono Giampiero Reverberi, Mauro Pagani, Nicola  Piovani, Massimo Bubola, Francesco De Gregori, Ivano Fossati e, naturalmente, i componenti della Premiata Forneria Marconi.   I vari personaggi come i diversi, i deboli, che si sono susseguiti nelle tematiche narrative di Fabrizio De Andrè hanno indotto gli organizzatori a sentire più vivo il messaggio del cantautore genovese, quindi la nascita di una collaborazione con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Provveditorato Regionale della Calabria per costruire un ponte con un mondo che spesso ed a torto viene  identificato con  quel luogo in cui rinchiudere e isolare immigrati ed emarginati . Le restanti giornate della manifestazione hanno avuto luogo presso  la Casa Circondariale di Reggio Calabria e presso l'Istituto Sperimentale di Laureana di Borrello, dove è stato letto un documento, stilato  dal Presidente della Fondazione "Fabrizio De Andrè". Lo stesso evidenzia la valenza della manifestazione ed il suo alto significato sociale e culturale, proprio per la scelta effettuata dal sodalizio reggino nell'organizzare la manifestazione in quei luoghi, come sottolinea la Signora Dori Ghezzi De Andrè, presidente della Fondazione. Nel corso della manifestazione tenutasi presso la struttura di Reggio Calabria, vi è stata una sentita partecipazione degli ospiti di quella Casa circondariale e da parte del Presidente e dai componenti del Direttivo del sodalizio organizzatore che hanno intervallato gli interventi musicali di Alessio Gatto. Il giovane reggino ha avuto modo di esibirsi, mostrando la propria maturità artistica e sensibilità, colloquiando con il pubblico ed offrendo loro un momento di svago, che è stato abbastanza gradito dagli stessi che hanno voluto ringraziare il giovane artista. Sono intervenuti, fra gli altri,  educatori della stessa Struttura ed il cappellano dell'istituto penitenziario ha voluto prendere parte all'iniziativa esibendosi con due classici quali "Mamma" e "O sole mio", inutile dire che le stesse hanno lasciato un pò di emozione tra i presenti che hanno richiesto, in modo garbato anche l'esecuzione di alcuni classici di musica calabrese, siciliana e napoletana, esibendosi anche loro sotto il palco ed accompagnati dal giovane artista reggino che ha inserito nella sua performance degli omaggi musicali allo scomparso cantautore cui è tributata la manifestazione. In conclusione della manifestazione i ringraziamenti sono stati anche esternati dagli ospiti della struttura stessa che hanno chiesto, ove possibile ed in un futuro prossimo, altre manifestazioni del genere quali momenti di autentica socializzazione e scambi di idee con l'esterno. La terza giornata si è svolta presso l'Istituto Sperimentale di Laureana di Borrello con la partecipazione dei responsabili della stessa Struttura ed anche di numerosi e qualificati invitati. Anche in questo caso vi è stata una sentita partecipazione da parte degli ospiti  alla manifestazione che hanno particolarmente gradito lo spettacolo offerto. Si è assistito all'esibizione di Moreno Franzè e di Alessio Gatto che hanno sostenuto una buona performance offrendo ai presenti momenti di autentica emozione, visto anche il modo con cui sono stati eseguiti i pezzi, particolarmente graditi dai presenti. Una edizione di notevole successo sia organizzativo, sia per quanto riguarda le presenze ma anche perché è emerso dalla stessa quel lato di umanità che, forse risulta nascosto dalla "continua corsa" del vivere quotidiano, dove i rapporti umani sembrano non esistere, quasi sopraffatti dagli interessi e che si sono visti riemergere e materializzarsi proprio nel corso delle tre giornate.
ShinyStat
25  giugno,9 luglio 2005
la conferenza