La manifestazione, giunta al terzo atto, ha avuto il merito di ricevere dai partecipanti al relativo concorso  stessa l'entusiastico  plauso per l'operato svolto.
Questo naturalmente ha costituito un motivo di grande soddisfazione per gli organizzatori, appagandoli  pienamente per i grossi sforzi effettuati, anche dal punto di vista economico per pianificare al meglio il nuovo appuntamento.
É risaputo che l'artista ha le sue esigenze, i suoi concetti organizzativi e le proprie esigenze a volte difficilmente gestibili,  ma il fatto che gli artisti partecipanti abbiano dato il loro consenso a questa edizione , è segno che tutto è andato a buon fine. 
La manifestazione è stata anche un modo per ricordare al meglio il verbo, la struttura letteraria, il messaggio che De Andrè ci ha tramandato attraverso i testi di quella elegante poesia su cui, in occasione di "Accordi eretici",   il noto letterato Mario Luzi ebbe a dire:  « ... Lei è davvero uno chansonnier, vale a dire un artista della chanson. La sua poesia, poiché la sua poesia c'è, si manifesta nei modi del canto e non in altro; la sua musica, poiché la sua musica c'è, si accende e si espande nei ritmi della sua canzone e non altrimenti ... ».
Ma lo stesso Luzi ebbe a riportare nel contempo «... Lei conscio della natura simbolica dell'arte demanda il senso dei suoi canti che è anche, un senso generale della vita e della società, disingannato eppure pronto a incantarsi a motivi verbali e musicali che hanno una preistoria popolare molto intensa e significativa.
La virtù che subito le riconosco è di ritrovarli nella loro freschezza e anzi di rinnovarli fino a suggerire l'emozione di una originaria verdezza. In lingua o in dialetto queste risorse emotive dell'espressione sono molto generose con lei: e lei è tanto pulito e sobrio da captarle con naturalezza e a farne uso con piena credibilità.
Questa è, appunto, l'altra sua virtù che mi sorprende: l'uso libero, saputo e ingenuo - sulla scorta di antiche filastrocche e ballate - delle battute verbali, delle frasi, dei luoghi linguistici: senza sintassi o
paratassi, ovviamente, che acquistano però senso dalla semplice accumulazione e variazione...».
Gianni Aiello nel corso del suo intervento ha sottolineato alcuni aspetti della “città” sia nella poetica di Fabrizio De Andrè, nella letteratura, nel cinema, che hanno come comune denominatore i soggetti deboli.
Ne "La città vecchia" vi è una scena dove «... il sole del buon Dio non dà i suoi raggi ha già troppi impegni per scaldar la gente d'altri paraggi ...» : si assiste ad una serie di quadri di vita quotidiana inseriti nella struttura sociale di un quartiere genovese del centro storico, dove  De André fa andare in scena  gli anti-eroi, gli emarginati.
Egli  rappresenta spesso il mondo degli emarginati, a lui così cari ed invece così spesso dimenticati, persino dal buon Dio.
Città che si alternano e si differenziano e che a volte si rassomigliano e che hanno anche dei riferimenti letterari anche comuni come "La città vecchia" di Umberto Saba (1948), pseudonimo del poeta friulano Umberto Poli, che descrive uno scenario in cui «... la gente che viene che va dall'osteria alla casa o al lupanare, dove son merci ed uomini il detrito di un gran porto di mare,io ritrovo, passando, l'infinito nell'umiltà. Qui prostituta e marinaio, il vecchio che bestemmia, la femmina che bega ...».
Quindi vi sono dei punti di contatto tra il percorso letterario del testo di Fabrizio De André con quello di Umberto Saba; infatti risulta evidente non solo nel titolo ma anche nelle singole scene ricavate dai due set, quello deandreiano e quello sabiano:  la "bimba che canta la canzone antica / della donnaccia" richiama la "prostituta"; i "quattro pensionati mezzo avvelenati / al tavolino" ricordano le due  immagini sabiane dell'"osteria" e del "vecchio / che bestemmia".
Anche se vi sono dei punti di contatto c'è da notare che vi sono anche delle differenze di pensiero tra i due autori. Infatti per Umberto Saba "il Signore" riscatta con la sua presenza i suoi concittadini  più deboli della sua città, mentre per Fabrizio De Andrè il "buon Dio"  "non dà i suoi raggi" ai poveri quartieri genovesi, dove abitano le vittime della società e della storia.
Altri esempi relativi alle "città" ed inseriti nella parte introduttiva di Gianni Aiello riguardano "La città invisibile" di Italo Calvino  dove si assiste «...all'alternarsi di città tristi e città contente, città dal cielo stellato e città piene di spazzatura, insomma spazi, sensazioni, genti diverse...».
Per passare poi al cinema del regista "Daniel Zimmerman e della "Città dolente" , dove si  narra dei campi di sterminio nazista, quindi un'altra città, con i suoi protagonisti. da una parte gli aguzzini e dall'altra i perseguitati, gli oppressi.
Rimanendo sempre sul set cinematografico Gianni Aiello parla del regista Mario Bonnard che in un'altra "Città dolente" parla del dramma degli italiani che dopo la fine del secondo conflitto mondiale dovettero abbandonare la zona di Pola, ed ancora  Dante Alighieri " ...Per me si va ne la città dolente …" .
Poi cita l'epigramma del latinista Diego Vitrioli dal titolo “Una città della penisola” : «Città della discordia e dell’invidia, nemica ai buoni ed ai cattivi amica ingrato albergo agli uomini ed alle fiere! »,  (chiaro il riferimento alla città dello stretto) e per concludere, passando a tutt'altro genere,  la città descritta  dal poeta reggino Nicola Giunta.
Ha preso poi la parola Gianfranco Cordì, Responsabile della Sezione “Cinema” del sodalizio organizzatore della manifestazione.
Cordì ha iniziato il suo intervento rammentando alcuni dati anagrafici della figura di Fabrizio
De Andrè.  
Rapportando il cantautore alla Genova degli anni della sua infanzia ed adolescenza, Cordì ha voluto mettere in evidenza il back-ground socio-culturale da cui è nata l’esperienza musicale ed umana dell’autore della “Canzone di Marinella”.
Subito dopo questa introduzione biografica, Cordì ha spiegato come dai trascorsi umani di Fabrizio De Andrè sia potuta nascere quella particolare musica che l’avrebbe contraddistinto per sempre nel panorama italiano.
Per giungere a mettere in evidenza che le canzoni di De Andrè, nel loro globale, possono dunque essere divise in due filoni principali.
Quelle di impegno sociale e politico e quelle di tipo sentimentale. Cordì ha citato, fra le canzoni appartenenti al primo gruppo, “La domenica delle salme”, “Canzone per l’estate” e “Don Rafae”; e, fra le canzoni del secondo gruppo, “ Verranno a chiederti del nostro amore”, “Canzone dell’amore perduto” e “Giugno '73”.
Identico è lo spirito che muove De Andrè in entrambi i casi - ha detto Cordì.
Infatti, sia quando il cantautore genovese sta parlando d’amore sia quando si sta occupando della crisi della società il suo fine è comunque quello di mettere in evidenza quanto, come egli stesso dice, “sono riusciti a cambiarci, sono riusciti e tu lo sai”.  
Sono parole tratte da “Verranno a chiederti del nostro amore”; e dunque, ha detto Cordì, la società italiana con le sue contraddizioni i suoi luoghi comuni e la sua barbarie entra sia nei rapporti umani e sentimentali (comunque  affettivi) sia anche nella riflessione che ogni uomo fa su quello che gli accade attorno.
“Canzone per l’estate” rappresenta poi un testo ed una melodia che è altamente significativa nella produzione di De Andrè. Contenuta in “Volume 8” (scritto in collaborazione con De Gregori), “Canzone per l’estate” presenta tutti i luoghi tipici della borghesia - non solo italiana.
Una moglie che lava i piatti. Un bambino biondo a cui viene e donata una pistola per Natale. Un cane da appartamento.
Solo che il ritornello non appare per nulla consolante come tutti questi bonari luoghi borghesi di tranquillità ed ordine vorrebbero far presagire ed intuire.
Nel ritornello, infatti, viene ripetuta per quattro volte la domanda: “Com’è che non riesci più volare?”.
Dunque, ha affermato a questo punto Gianfranco Cordì: in questa domanda, probabilmente amara e
molto più probabilmente solamente realistica, viene dichiarato quello che è stato il fallimento storico di una generazione, degli ideali di una generazione e forse di un’intera nazione.  
Oltre che della stessa classe borghese che (ma De Andrè non ce lo dice esplicitamente) forse un tempo (nonostante i suoi conformismi, le sue regole e la sua mediocrità) era riuscita comunque a produrre  qualcosa di significativo.
Ma la parabola artistica di Fabrizio De Andrè copre lo spazio di trent’anni della storia italiana. Ed ecco che arrivano quei “microfoni” dietro ai quali “porteranno uno specchio per farti più grande e sentirmi già vecchio” (“Verranno a chiederti del nostro amore”).
Siamo negli anni della televisione e della società dello spettacolo; niente è più vero e quindi anche l’amore subisce alcune notevoli e devastanti conseguenze.
La parabola si conclude poi  in quella “Domenica delle Salme” dove in un “tripudio di tromboni” e
di simboli post-umani ed in-umani (Un pettirosso da combattimento, le troie di regime, i polacchi che non morirono subito, il poeta della Baggina, gli ultimi viandanti che si ritirarono nelle catacombe) affiora un lugubre  corteo funebre che sta accompagnando nientemeno che “Il cadavere di utopia”.
La società dunque (la società borghese degli anni sessanta e poi televisiva degli anni settanta e poi edonistica degli anni ottanta) celebra il suo trionfo definitivo a questo punto!
L’uomo, ed anche l’intellettuale e persino colui che ama (colui che si abbandona ad un sentimento) vede consumarsi il senso della sua irrimediabile sconfitta.
Adesso non solamente nessuno riesce più a volare,  ma tutti i sogni e tutte le aspettative e tutte le speranze di un tempo, coltivate da generazioni di ragazzi e di ragazze con grande fede ed entusiasmo e passione, sono divenute, adesso, l’immagine di un funerale.
Un funerale che nessuno avrebbe mai potuto prevedere quando quel movimento di speranza e di lotta era cominciato.
Gianfranco Cordì ha dunque concluso il suo intervento affermando che, alla luce di queste sia pur sommarie considerazioni tratte dall’analisi di alcuni testi particolari scritti fra l’altro in anni fra loro lontanissimi di De Andrè si può arrivare ad affermare comunque qualcosa sul valore dell’impegno artistico del cantautore genovese.
De Andrè cioè fu una specie di  testimone oculare  (e poi narratore) di eventi che  avrebbero cambiato l’Italia nel corso di trent’anni della sua storia.
De Andrè è giunto a ritrarre un paese.
Ed ha riportarne umori contraddizioni e delusioni come nessun altro.
E l’ha fatto usando il mezzo della musica, della canzone.
Un mezzo immediato che gli ha consentito di poter diventare, alla fine (possiamo dirlo oggi alla luce della considerazione definitiva che abbiamo del suo lavoro interrotto dalla sua morte prematura) certamente un grande protagonista della vita artistica ed intellettuale del nostro paese.
Ma anche uno dei più prestigiosi e raffinati analisti della società che l’Italia abbia maiavuto.
Dopo l'intervento di Gianfranco Cordì la parola è passata all'altro relatore, il giornalista Vincenzo Foti che ha esordito dicendo che «Anime salve, disco pubblicato nel 1996 e di cui quest’anno ricorre il decennale è l’ultimo della carriera di Fabrizio De Andrè. Apprezzabile più per la qualità della musica che per la felicità dell’incontro tra verso e melodia, l’album sembra manifestare, secondo alcuni, una certa carenza strutturale.
Nel complesso, Anime salve si colloca a metà tra un recupero dello stile elegante del primo periodo di De Andrè e quella curiosa accumulazione di metafore ed ellissi cui il cantautore si andava abbandonando nella seconda fase della sua produzione, a partire dal Volume 8, album uscito nel 1975 e realizzato in collaborazione con Francesco De Gregori.»
Per quanto riguarda le storie raccontate in Anime salve, va comunque precisato che De Andrè, anche prima di questo disco, aveva raccontato vicende i cui protagonisti, attraverso particolari percorsi, giungevano al superamento di un fato altrimenti implacabile.  
In un certo senso egli ha sempre parlato e cantato di anime salve nelle sue canzoni, indicando in qualche modo tre strade fondamentali che i suoi derelitti potevano seguire: l’ignavia, l’amore e la grazia.  
Vincenzo Foti ha tratteggiato nella prima parte del suo intervento "l'ignavia" i salvi per felice ignavia.
Questo atteggiamento appartiene a quei percorsi che portano alla conquista della liberazione, rivendicata come proprio personale traguardo. E questo da tempi assai remoti. Pensiamo per esempio al Fannullone, brano a metà tra il divertito bozzetto e il ritratto autobiografico.
Titolare di “una parte fastidiosa alla gente” perché disposto a fare “della vita una commedia divertente”, il fannullone non si adatta al lavoro e pensa “al matrimonio come al giro di una danza”; quando la sua donna lo lascia, dopo un accenno di malinconia, si auto-convince che “Lei tornerà in una notte d’estate / l’applaudiranno le stelle incantate” anche se, probabilmente, tale speranza mai vedrà compimento.
Più posata e mesta appare, nell’album "Non al denaro, non all’amore, né al cielo" tratto dall’"Antologia di Spoon River" di Edgar Lee Masters, "Il suonatore Jones". 
Qui il personaggio di Fiddler Jones è ritoccato non solo per esigenze metriche e liriche, ma anche perché risultasse meglio sovrapponibile a una certa immagine che De Andrè voleva dare di se stesso.
Così Jones, da querulo vecchietto felicemente egoista, si trasforma in elegiaco cantore di una vita trascorsa a guardia della propria libertà, aperta solo alle emozioni del presente istantaneo o, al massimo, a quelle di un’arte estemporanea e di strada.
Nel Testamento, travolgente flusso di immagini e  musica, De Andrè sceglie addirittura la prima persona per sorridere di quell’umanità che per interesse o per vanità ha scelto l’affanno e l’interesse stesso come motori della vita. 
L’estensore del testamento, come prima con la vita, ora scherza con la morte, gioca con le scadenze ultimative che essa pone ma, d’altra parte, confessa che tanto cinico disincanto si spiega con la fuga “dal peso della pietà” e si sconta con una fine solitaria.
Ma tale esibita indifferenza è anche sostegno necessario quando la vita stessa sembra una sequenza di lutti e disillusioni. 
Così l’Angiolina di "Volta la carta" – il brano più vivo e riuscito di Rimini – si vede sfilare dinanzi tutti i sogni perduti, dall’infanzia fino alla scelta del mestiere: il suo primo amore, un carabiniere, svanisce nel dramma di una rotta militare mentre gli altri la tradiscono per la consueta attitudine del maschio alla menzogna. 
Di qui lo sbocco: Angiolina guarda la sua storia della giusta distanza e, voltata un’ultima volta la carta, chiamati i ricordi “col loro nome”, senza amore ma con saggio realismo si sposa.
A una vera e propria condizione dello spirito vuole alludere la celebratissima "Creuza de ma", brano eponimo dell’album. 
I marinai protagonisti della canzone, obbligati a percorrere rotte ormai desuete e a praticare un mestiere che la modernità vuole schiacciare, sono testimoni di un mondo arcaico, conservatore e anarchico a un tempo, che stoicamente proseguirà, fino all’estinzione, a scandire i propri ritmi millenari, nulla concedendo ai molitores rerum novarum, i “costruttori di cose nuove”.  
Nel secondo punto "I salvi per amore" De Andrè sa cantare l’amore nella muta fedeltà di Giuseppe a Maria, nella dignità infinita di Michè, nella struggente apostrofe di Piero a Ninetta o nella trasfigurazione in re del carnefice della povera Marinella.
Ma, se si esclude il particolarissimo rapporto che unisce  la coppia di Nazareth, gli altri amori sono altrettanto infelici, in parte per destino, in parte per la loro stessa profondità. 
Di qui il bisogno di una liberazione ricercata sì nell’istinto, ma non storicizzata nella rivoluzione sessuale. 
La sensualità di De Andrè non a niente a che vedere – anzi contrasta – con i modelli di comportamento sessuale imposti dalla cultura di massa.
Non solo: per l’autore l’appetito sessuale può anche diventare espressione di puro e distruttivo egoismo, quando da strumento per comunicare con l’altro, diventa mezzo di una seduzione finalizzata al dominio del compagno.
É quanto accade nella Ballata dell’amore cieco o della vanità.
E comunque De Andrè scorge nel sesso una carica di ancestrale sincerità, idonea a far emergere la debolezza dei vincoli borghesi, anche quando questi si travestono di un velo maliziosamente libertino.  
Maliziosa non è certamente la Barbara della Canzone che porta il suo nome, creatura di cui l’autore canta la passionalità e insieme il disincanto. 
Barbara è di tutti e di nessuno, rimanda a domani indistinto l’incontro con un “amore vero” che per lei sembra coincidere “con il letto di sposa”.
Un odore di libertà trasuda anche da "Princesa", il brano che apre l’album "Anime salve". 
E’ la storia della salvezza alla fine attinta da un transessuale che definisce la propria sessualità lungo le consuete penose stazioni della chirurgia plastica e della prostituzione.
Ma alla fine di questa sequenza, Fernandinho troverà addirittura il borghese rispetto che si  deve all’amante di un avvocato milanese.
"Via del Campo" allude soltanto alla vicenda di un travestito che si salva invece grazie al proprio ‘mestiere’. 
Il brano, costruito su una melodia non a caso d'intonazione medievale, evoca la continuità psicologica e sociale del mondo e del ruolo delle prostitute.
Costrette da sempre al nascondimento, verso di loro, altrettanto celatamente, rifluisce la  buona gente che cerca non solo emozioni particolari ma anche un'intensità, una verità di  rapporti negata dalle mura domestiche.
Il frequentatore di via del Campo – dietro il quale, lo ricordiamo, si nasconde Fabrizio De Andrè – torna più volte presso l’oggetto del suo desiderio e non alla ricerca del piacere ma addirittura “a pregarla di maritare”. 
Ma invano: il portone si chiude. 
La “puttana” non cede alle lusinghe della vita normale, da vero spirito libero o anima salva; e a lei, secondo Biagio Buonomo, va attribuito l’epigrafico ammonimento con cui il brano si conclude: “Ama e ridi se amor risponde / piangi forte se non ti sente / Dai diamanti non nasce niente / dal letame nascono i fior”.
Gli stessi temi di "Via del Campo" ritornano in "Bocca di rosa", narrazione esplicita e popolare ambientata sullo sfondo bigotto e godereccio della provincia italiana anni ’50. 
La ragazza disinibita che “appena scesa alla stazione / del paesino di Sant’Ilario” scuote gli squilibri del piccolo borgo, rappresenta il reagente attraverso cui un corpo sociale statico e torpido secerne, infine, qualche umore vitale.
Basti dire che la giovane Bocca di rosa sarà, alla fine, se non difesa dalle accuse delle mogli tradite e coalizzate, almeno compresa e rimpianta persino dai carabinieri, fedeli e integerrimi per definizione, e da un parroco, casto per vocazione. 
Ma mentre negli altri brani la salvezza resta un patrimonio essenzialmente individuale, in Bocca di rosa la ragazza non innalza alcun tipo di barriera tra sé e i suoi occasionali compagni; non li usa, infondendo anzi in loro almeno la speranza di una liberazione non solo dal tabù del sesso ma anche dall’insieme di quei vincoli psicologici che chiamiamo valori.
In "Marcia nuziale", forse la più riuscita delle traduzioni da Brassens, il vincolo coniugale si riconcilia, sullo sfondo della campagna francese, con l’amore ma celebrandosi lontano dagli schemi borghesi. 
Gli sposi arrivano in chiesa su un carro da buoi “tirato dagli amici, spinto dai parenti” e accompagnati da tutti i figli generati in 25 anni di convivenza. 
La “gente civile” ha “gli occhi fuori dalla testa” e tuttavia non si alzano voci di censura o di sarcasmo. 
Alle nozze paiono opporsi soltanto “gli dei dispettosi” della pioggia. Ma senza successo.
Oltre questo felice approdo c’è la vicenda del "Malato di cuore" di Spoon River al quale, separata da un corpo segnato dal male e tuttavia salvata dall’esperienza dell’amore, l’anima sfugge dalle mani durante il primo e fatale amplesso. 
Rispetto all’originale, De Andrè accentua l’impaurita e insieme altruistica consapevolezza con cui il malato va incontro al suo destino.  
Nell'ultima parte della relazione Vincenzo Foti ha parlato de " De Andrè conclude con un’invocazione al Signore – Smisurata preghiera  – la galleria di Anime salve riprendendo quel ruolo di mediatore con il divino assunto in Preghiera in gennaio. 
L’autore non dice se le anime di cui ha cantato siano riuscite a raggiungere il buon approdo anche per l’intervento di Dio. 
Avverte che “è appena giusto che la fortuna li aiuti”; e se “fortuna” sta per Provvidenza, quest’ultima non può non intervenire a inclinare, in ragione della sua intrinseca funzione, il destino dei ribelli verso la salvezza.
Eppure, almeno una volta De Andrè sembra aver raccolto, nel suo canzoniere, la diretta risposta di Dio all’affanno di un ultimo. 
Nel Pescatore trova infatti la sua figurale epifania quel Cristo solo evocato in Si chiamava Gesù e misteriosamente, in voce e gesti, assente dalla Buona novella. 
Nel brano sono richiamate esplicitamente la fractio panis – ed è un pescatore a compiere quel gesto – l’attitudine misericordiosa del Samaritano, la diffidenza, tutta cristica, per i segni della giustizia degli uomini e, più in generale, l’immutabile, smisurata disponibilità di Dio alla salvezza.  
Nel corso del suo intervento Vincenzo Foti fa qualche cenno alla canzone "Crueza de Ma" riferendosi al rapporto con il Mediterraneo e Gianni Aiello interviene dicendo che anche "Sidun" per altri aspetti, meno romantici, più crudi e tristemente attuali ricorda l'altra faccia del "Mare Nostrum" quello dei soprusi e delle guerre.
Elementi e cifre simboliche, quindi, che troviamo ben presenti  nel dettato letterario del  cantore del Mediterraneo,   di quella porzione di terre, mare e culture care a Fabrizio De Andrè che ha avuto il grande merito di trasformare il tutto in versi, in poesia, quindi in note.
Quel sottotitolo con la sua importanza "Popoli e Culture nel Mediterraneo", la sua tragica attualità come i fatti del Libano e di questo il Presidente del sodalizio organizzatore Gianni Aiello ha fatto qualche cenno mentre veniva menzionata la canzone "Sidun", dove si parla di guerre, di popoli in catene, di violenze, di abusi e soprusi dove i perdenti, i deboli, gli emarginati diventano gli angeli, gli  attori principali che recitano sul set del palcoscenico deandreiano.
Un Mediterraneo quindi contenitore di diverse culture ma anche di contraddizioni, abusi e soprusi come, rimanendo nell'attualità dei testi di Fabrizo De Andrè, nello scenario della città libanese di Sidone, teatro di continui massacri che ebbero ad interessare il Libano a far data dal 13 aprile 1975 e dopo una parentesi "momentaneamente" conclusa nel 1991, che si riapre di recente.
Proprio quella  "Sidùn" , teatro di battaglia tra eserciti siriani ed israeliani che nell'album del 1984 "Creuza de mä" , lo scomparso cantautore dà voce ai deboli, a quella popolazione civile che ebbe e subisce il gioco e gli interessi dei potenti.
Un Mediterraneo caratterizzato da diversi aspetti musicali, culturali, come ha rilasciato Fabrizio De Andrè in una puntata della trasmissione "Mixer" del 1984 : «Certo, navigando non è che si incontrino soltanto Jamine o tavole imbandite con gatti in salmì spacciati per conigli selvatici, come si dice nella canzone Creuza de mä.
Ci si può trovare anche di fronte alla tragedia, magari alla tragedia altrui, anche se condivisa, in quanto fratelli o figli della stessa cultura.
È il caso di Sidone, Sidùn in genovese. Sidone è la città libanese che ci ha regalato oltre all’uso delle lettere dell’alfabeto anche l’invenzione del vetro.
Me la sono immaginata, dopo l’attacco subito dalle truppe del generale Sharon del 1982, come un uomo arabo di mezz’età, sporco, disperato, sicuramente povero, che tiene in braccio il proprio figlio macinato dai cingoli di un carro armato. Un grumo di sangue, orecchie e denti di latte, ancora poco prima labbra grasse al sole, tumore dolce e benigno di sua madre, forse sua unica e insostenibile
ricchezza.
La piccola morte a cui accenno nel finale di questo canto, non va semplicisticamente confusa con la morte di un bambino piccolo.
Bensì va metaforicamente intesa come la fine civile e culturale di un piccolo paese: il Libano, la Fenicia, che nella sua discrezione è stata forse la più grande nutrice della civiltà mediterranea.»
Le opere sono state realizzate dagli studenti degli Istituti Artistici della Provincia di Reggio Calabria e dall'Accademia di Belle Arti e per le quali è stata allestita un'apposita  mostra che è  visibile  on-line alla pagina denominata "galleria faber". In fondo a questo  resoconto è inserito il link di richiamo, che raccoglie anche le opere partecipanti alle precedenti edizioni.
Oltre alle opere partecipanti al concorso realizzate dagli autori che hanno elaborato i testi de "la città vecchia; " cantico dei drogati"; "dolce luna"; " anime salve"; "preghiera in gennaio" che sono state abilmente riprodotte su colore, tela e fotografia, la manifestazione è stata arricchita ulteriormente  dall'opera scultorea "Faber" realizzata dal maestro Antonio Pepe che è stata esposta lo scorso dicembre a Genova.  

ShinyStat
22 luglio 2006

B. BUONOMO, F. De Andrè. La storia, le storie, ed. Città del Sole, 2000;
L.VIVA, Vita di Fabrizio De Andrè, ed. Feltrinelli, 2000.