Il tema oggetto della manifestazione, organizzata nell’ambito dei “Pomeriggi Culturali” dal Circolo Culturale L’Agorà, in la Biblioteca Comunale “Pietro De Nava” ed i laboratori di ricerca del sodalizio reggino, tali gruppo di ricerca Mnemos, centro studi “Gioacchino e Napoleone” e Centro Studi italo-ungherese “Árpàd”.
La manifestazione odierna rientra nelle argomentazioni relative all’Ottocento, periodo cui il sodalizio reggino pone attenzione nel proprio palinsesto culturale, avendo già argomentato diverse iniziative a tal proposito.
Ha coordinato i lavori il presidente del Circolo Culturale L’Agorà che nel corso del suo intervento ha evidenziato che la figura di Sàndor Petöfi assume delle connotazioni di notevole rilievo, proprio, quando la cultura e la politica effettuano un percorso parallelo atto al benessere della comunità in cui essi operano e come si è verificato nel periodo storico oggetto della giornata di studi.
«Lo spirito della Marsigliese – dice Gianni Aiello - , del Çà Irà, di J.J. Rousseau, degli illuministi francesi, rivive e prende forma nelle strade, nelle piazze, di Berlino, Parigi, Budapest, nel Mezzogiorno d’Italia (Palermo, Cosenza, Reggio, Messina NON DIMENTICHIAMOLO i primi moti avvennero dalle nostre parti 1847 e non in altri punti della penisola italiana come una certa storiografia asserisce».
La prima parte della giornata è stata caratterizzata dalla lettura intenerente l'intervento del prof. Mario Spizzirri che, suo malgrado, non potuto presenziare all'incontro e la relazione dello storico calabrese si è basata su "Gli eventi risorgimentali in Italia e in Europa nel 1848-1849. Sintesi e spigolature storiche".
Il terremoto della rivoluzione francese del 1789 si avverte con scosse d’intensità variabile fino al 1850. E’ quella l’epoca delle “rivoluzioni romantiche” in cui i principi di libertà, uguaglianza e fraternità penetrano nella regione centro-europea, dove acquistano, via via, una identità nazionale.
I popoli tendono a costituirsi in stati nazionali, contro i sacri principi di legittimità e di equilibrio europei sanciti dal Congresso di Vienna del 1815 e dalla Santa Alleanza.
E’ questo il caso degli italiani, dei magiari, dei polacchi, dei cechi, dei boemi, degli slavi meridionali e dei romeni che daranno vita ad un’altra più prosaica alleanza, quella del diritto dei popoli alla loro autodeterminazione, una risposta generosa e utopica alla sacra Congrega delle monarchie per diritto divino o presunto tale.
Il periodo che và dal mese di giugno del 1846 a quello di agosto del 1849 sarà, per la generazione risorgimentale, un periodo di intense ricerche, dalle risposte, ancora da trovare, a domande inquietanti indirizzate alla possibilità di attuazioni di riforme costituzionali, l’indipendenza della penisola e con quali strumenti: la lotta interna o grazie ad un intervento esterno, le altre questioni che si ponevano erano ubicate ad un bivio: o la creazione di un’Italia unita o di una confederazione e da ciò dipendeva l’esistenza di uno stato nazionale italiano.
La risposta alla domanda: stato unitario o confederazione, varia: Venezia e la Lombardia si uniscono, in un primo momento, al Piemonte, la Toscana si pronuncia per l’unione con la Roma repubblicana.
La soluzione confederativa conquista dalla sua parte personalità con orientamenti politici diversi: da Vincenzo Gioberti, Pio IX a Carlo Cattaneo.
Esiste anche una soluzione siciliana che vuole il distacco, quasi totale, dal Regno delle Due Sicilie.
Per quanto riguarda la forma di governo, si oscilla tra la monarchia costituzionale e le repubbliche di tradizione antico- romana.
Per liberarsi dalla dominazione austriaca, gli italiani provano la strada della guerra d’indipendenza sotto la guida dei Savoia, con il motto lanciato da Carlo Alberto “L’Italia farà da sé” mentre, dopo l’armistizio di Salasco (1848), si fa strada l’idea di una mediazione anglo-francese nel conflitto con l’Austria, nell’ambito di un congresso europeo, dove la monarchia asburgica, cui erano stati promessi i principati danubiani e la Bosnia, avrebbe dovuto rinunciare al Lombardo-Veneto.
Ma una serie di circostanze come i risultati non incoraggianti derivati dalla dichiarazione del 4 marzo 1848 di Lamartine, dalla politica prudente della Gran Bretagna, l’ostilità del governo austriaco e di quello russo impongono ai pensatori e politici italiani la collaborazione con l’Europa centro-orientale, le cui nazioni vivevano già un’effervescente rinascita spirituale e politica.
Giuseppe Mazzini, con la sua sensibilità profetica e visionaria, intravede, per primo, la potenza rivoluzionaria dell’Europa centro-orientale nell’articolo “Ungheria” pubblicato nel 1833 su “Giovine Italia”. Mazzini vede in questo paese un baluardo contro l’espansionismo dell’impero zarista e il futuro, probabile nucleo di una libera federazione di nazioni che ruotavano intorno al Danubio: Moldavia, Valacchia, Bulgaria, Serbia, Bosnia.
Continua a scrivere su questo argomento in Jeune Suisse, dove pubblica “Nationalité, humanité et patrie”, invitando il lettore a rivolgersi verso Oriente, dove altri popoli lottavano contro l’impero ottomano per indebolirlo nell’utopistica certezza di rafforzare lo spirito repubblicano paneuropeo.
Nella “Rivista repubblicana”, in un famoso saggio dal titolo “L’iniziativa rivoluzionaria in Europa”, Mazzini, infatti, prevedeva l’inizio della rivoluzione in Oriente e, nel 1847, parla dei romeni della Bukovina, della Transilvania e del Banato che si sono fatti sentire come gli italiani del Lombardo-Veneto e degli slavi dell’impero asburgico.
Nello stesso anno riprende l’idea del 1833, rilevando l’importanza dell’iniziativa ungherese nell’unione nazional-danubiana contro le correnti panslaviste e austroslaviste.
Il destino delle nazionalità dell’impero austriaco, poi, era noto a Camillo Benso di Cavour - che aveva frequentato, da giovane, le lezioni del poeta e pensatore polacco Adam Mickiewicz a Parigi, e che prevedeva la dissoluzione della monarchia asburgica grazie alla “guerra delle razze”.
Lo stesso Carlo Alberto è consigliato, nel 1846, dagli esuli lombardi di appoggiarsi ai boemi e ai moravi nella futura azione contro l’Austria.
La percezione dei pensatori italiani diventa realtà nel marzo 1849 quando al Nord della penisola, Milano, Venezia e Torino, si aggiungono altre nazionalità nella lotta contro l’impero austriaco per la definizione del loro statuto nell’ambito o al di fuori della monarchia asburgica.
Inviati e rappresentanti diplomatici del governo sardo si mettono in contatto a Parigi, Francoforte e Costantinopoli, con i dirigenti dell’emigrazione polacca, del governo ungherese, con cechi, moravi, croati e romeni.
A Parigi, infatti, agiva per sensibilizzare il governo e l’opinione pubblica, il console Brignole Sole mentre é in assiduo moto anche Giuseppe Mazzini, attraverso l’Associazione nazionale Italiana, creata nel marzo 1848.
Intanto inviati stranieri e corrieri speciali attraversano l’Italia, intervenendo e inserendosi nell’organizzazione degli eserciti sardo, milanese, veneziano, come l'ideologo e attivista polacco Adam Mickiewicz che organizza una legione a difesa della repubblica veneziana.
L’importanza dello spazio ungherese, intanto, notata, addirittura, dal ministro dello stato pontificio Terenzio Mamiani che vede l’aumento dell’influenza italiana nell’Adriatico attraverso la costituzione di una Lega commerciale e doganale tra l’Italia, la Dalmazia, l’Ungheria, la Transilvania e la Croazia.
L’interesse della Roma papale per la sorte dell’Austria e delle nazionalità che la componevano risultava dai rapporti della Nunziatura di Vienna già nella primavera del 1848.
Vi si parla del movimento rivoluzionario nella capitale dell’Impero, della fuga di Metternich, della caduta del governo e dell’arrivo della delegazione ungherese.
Il governo di Torino, impegnato nella guerra contro l’Austria, si rende conto, dopo la dichiarazione fatta dal Pontefice il 29 aprile, che l’elemento dinamico delle nazionalità nell’ambito dell’Impero è costituito dagli ungheresi.
Lorenzo Pareto, ministro degli Esteri sardo, a tal riguardo, prefigura l’alleanza militare italo-ungherese. I moti rivoluzionari italiani, inoltre, sono, ampiamente, presentati dalla stampa romena, costituendo un esempio per l’organizzazione della rivoluzione romena che, attraverso i suoi esponenti, nel settembre dello stesso anno, coglie l'opportunità di una soluzione collegata alle esigenze italiane.
Tali tematiche sarebbero dovute essere discusse nella conferenza che sarebbe dovuta essere organizzata a Munster o a Francoforte, patrocinata dai governi della Francia e della Gran Bretagna.
Ma le speranze cominciano a svanire per i romeni della Transilvania a causa delle continue tensioni tra austriaci ed ungheresi, fin a precipitare con l'uccisione del conte Lemberg comandante delle truppe austriache in Ungheria del 1848.
Nella penisola italiana, i tumulti continuano nell’autunno del 1848. In novembre, nello stato pontificio il ministro Pellegrino Rossi è ucciso, Pio IX si ritira in Gaeta, dove chiede ai sovrani europei l’aiuto contro gli “usurpatori”. Dopo la sconfitta del Piemonte, la repubblica di Venezia assume la guida della resistenza armata antiaustriaca.
In suo aiuto arrivano la legione polacca e quella ungherese ed all'inizio del 1849 il governo sardo s'impegnava ufficialmente nella realizzazione di un'ampia alleanza antiasburgica che doveva e poteva comprendere gli ungheresi, gli slavi meridionali, i romeni.
I contatti si infittiscono ancora di più, come si può evincere dagli incontri degli emissari ufficiali del governo piemontese a Belgrado e in Romania, appoggiati nelle loro azioni dai membri dell’emigrazione polacca e romena. Giuseppe Carosini, commerciante sardo al servizio della rivoluzione ungherese è mandato da Kossuth a Torino e poi va nei Balcani insieme al colonnello Alessandro Monti, così come avviene a Parigi con dirigenti dell’emigrazione serba, romena per un accordo tra le nazionalità.
L’avvicinamento tra ungheresi e italiani ha esiti clamorosi: tre unità italiane dell’esercito austriaco si schierano dalla parte degli ungheresi. Il 17 gennaio 1849, poi, diserta dall’esercito imperiale Stefano Turr, uno dei dirigenti ungheresi che sarebbe rimasto legato per sempre all’Italia e alla sua causa.
Ma questa "primavera" non disorienta la coalizione conservatrice austro-russa che nel periodo marzo-aprile del 1849 reagisce ed i cui segni sono tangibili nel dettato della costituzione asburgica del 4 marzo che ignorava i diritti all’autonomia politica delle nazionalità, adottando l’idea di uno stato centralizzato la cui lingua ufficiale era quella tedesca.
Di conseguenza la Repubblica francese si preparava ad intervenire militarmente contro la sorella repubblica romana mentre il Piemonte conosceva a Novara il gusto amaro e finale della sconfitta.
L’offensiva austriaca obbligava i capi della rivoluzione ungherese a trovare urgenti soluzioni per salvarsi dall’intervento militare russo-austriaco: una parte dei dirigenti ungheresi si pronunciavano per la confederazione dei popoli esistenti nell’impero austriaco in base all’uguaglianza dei diritti nazionali.
L.Teleki scriveva, infatti, a L. Kossuth il 14 maggio 1849 da Parigi: “Non solo l’Austria è morta, ma anche l’Ungheria di Santo Stefano. Liberté, égalité, fraternité - da sole non soddisfano più i popoli. Essi vogliono vivere la loro vita nazionale.
Tanto più daranno alle nazionalità, tanto meno daranno all’Austria e all’assolutismo”.
Fin dal 4 marzo, il leader romeno G. Magheru proponeva a L. Kossuth un’alleanza romeno-ungherese contro il pericolo panslavista.
La politica della Romania e dell’Italia entrava così in una nuova epoca con le rivoluzioni del 1848-1849 - quella della costituzione degli stati nazionali.
L’iniziativa del primo contatto politico spetta al regno di Sardegna, l’unico stato italiano che abbia avuto una politica ufficiale central-europea durante quel turbinio rivoluzionario.
Nei progetti del governo di Torino il posto principale era occupato dagli ungheresi e dai polacchi grazie al loro atteggiamento antiasburgico e alla loro buona preparazione militare. Gli slavi ed i romeni occupavano il secondo posto, cercando di evitare eventuali complicazioni russo-turche nei Balcani e alle foci del Danubio.
Eppure lo spazio romeno è percepito dall’élite politica piemontese in un duplice aspetto: possibile compensazione territoriale per l’Austria in cambio della regione lombardo-veneta e partner in un’ampia coalizione antiasburgica.
Anche se si punta sull’appoggio militare ungherese, nella stampa e nel parlamento di Torino si discute liberamente, specialmente sotto il governo Gioberti, del problema delle nazionalità dell’impero asburgico, che Camillo Benso di Cavour riassume nell’espressione: “guerra delle razze”.
I capi della rivoluzione in Valacchia, dopo il settembre 1848, agiscono nell’emigrazione dove si impegnano nell’elaborazione dei progetti di confederazione dell’Europa centro-orientale, sperano in un’analisi congiunta del problema romeno e di quello italiano in una conferenza europea in ottobre-novembre 1848 e, dalla primavera del 1849, insieme agli italiani e ai polacchi, tentano di salvare la rivoluzione ungherese.
Anche se i dirigenti romeni non sono stati direttamente in contatto con i governi italiani durante la rivoluzione, hanno i loro rappresentanti a Costantinopoli e Parigi, il rapporto diretto essendo supplito anche dall’emigrazione polacca, vera lega delle rivoluzioni europee che rappresenta, ormai, i prodromi per iniziative future.
Gianfranco Cordì nel suo breve intervento ha tratteggiato alcuni aspetti della letteratura risorgimentale europea,dicendo a tal proposito: «Per capire la letteratura risorgimentale europea dobbiamo prima di tutto capire il secolo entro cui si svolge quella letteratura.
Il secolo è quello diciannovesimo. Tanto per intenderci si tratta del secolo che vede due cose prima di tutto: la rivoluzione industriale dapprima inglese e poi europea ed il formarsi del concetto di nazione.
Iniziano quelle che Karl Marx avrebbe definito le condizioni favorevoli all’”accumulazione originaria del capitale” per cui nasce l’industria moderna. Imprenditore, capitale e lavoro sono i tre nuovi fattori della produzione.
Parallelamente si forma una classe di diseredati che hanno solo “la forza delle loro braccia per lavorare”: sono i proletari. Accanto al capitalismo moderno ed alle sue immense prospettive di ricchezza nasce subito il problema sociale, problema della disuguaglianza delle opportunità, delle condizioni e della ricchezza.
Problema che sarà oggetto di un filone della letteratura di questo periodo che fa capo a Charles Dickens con i suoi emarginati. L’altra novità è il formarsi del concetto di nazione. Come dice il Manzoni “Una d’arme d’altare e d’onor” la nazione fa la sua comparsa nel secolo XIX con l’unirsi in un solo conglomerato statale ad esempio di Italia e Germania.
La nascita delle nazioni porta con se un filone della letteratura che fa capo anche a Sandor Petöfi per quanto riguarda l’Ungheria e che è quello che fa riferimento ai valori della tradizione, anche risorgimentale.
L’idea del sangue della lotta e della redenzione in un ideale finalmente raggiunto che è quello del comunitario stare insieme in nome di sentimenti passioni e valori finalmente condivisi.
Il Risorgimento europeo si inquadra in questa ottica.
E se in Italia c’è il Pellico con la sua poetica in Europa troneggiano autori come Dostoevskij, Flaubert e Tolstoj. La letteratura risorgimentale ha forte dentro se il senso del conflitto, della lotta, della guerra.
Tutti ideali che saranno anche di Petöfi. Il quale nella sua poesia più famosa “Alzatevi magiari!” incita il suo popolo al risveglio ed alla tensione verso il raggiungimento dell’ideale dinazione.
Il secolo XIX dunque produce una letteratura che è anche influenzata e permeata da questi valori ma che si produrrà poi anche in innovazioni formali e sostanziali. Il romanzo moderno è alle porte, ad esempio e quello di tipo tradizionale troverà il suo epilogo con le opere di Victor Hugo.
La letteratura risorgimentale è dunque una letteratura di forti passioni, passioni ora declinate a favore di una classe (quella proletaria) ingiustamente bistrattata e posta ai margini ed ora invece passioni esaltanti i più nobili ideali dell’uomo, valga per tutti l’esempio di Lord Byron.
Queste passioni comunque hanno un fine quasi sempre politico. E se è vero che l’epoca iniziata dal Romanticismo aveva posto il sentimento alla sua base teorica è altresì vero che col decadentismo e con la letteratura risorgimentale di fine secolo questo sentimento sarà sempre più declinato come ragione e quindi come idea.
Un idea che troverà un epilogo (purtroppo tragico) nella prima guerra mondiale che aprirà il nuovo secolo.»
Dopo la breve esposizione di Gianfranco Cordì, riprende la parola Gianni Aiello, che prima di passare la parola all'ultimo relatore, fa qualche cenno a ciò che si avvertiva in Francia ed in Italia ma anche alla letteratura ungherese.
Nella regione transalpina vi era un importante"Cenacolo" di letterati che vede riuniti, insieme a Hugo, autori come Vigny, Dumas, Merimee, Balzac, Sainte-Beuve, Nerval e Gautier.
Interessante il sonetto delle Correspondances di Baudelaire, dove l’uomo è affascinato dal nuovo, dall'ignoto, che per molti è rappresentato dal progresso in tutte le sue dimensioni, ma anche terrorizzato, impaurito dal vuoto.
In Italia, invece per la cultura ha fatto cenno ad Alessandro Manzoni il romanzo storico " I Promessi Sposi " pur ambientato nel periodo della dominazione spagnola rifletteva lo stato d'animo che vi era durante quella austriaca.
Più diretto invece Silvio Pellico con "Le mie prigioni" e Luigi Settembrini in " Ricordanze della mia vita " che descrive le sue vicende di esule perseguitato dal Borboni.
Per quanto riguarda la filosofia Pasquale Galluppi, l'abate Antonio Rosmini,Vincenzo Gioberti.
Gianni Aiello, infine, per quanto riguarda la letteratura magiara dice all'uditorio che quel periodo viene conosciuto come "epoca delle riforme", un periodo ricco di splendore letterario magiaro che va tra il 1825 ed il 1848, come Mihály Vörösmarty "La fuga di Zalàn", "Conforto" (Szózat, 1838), poesia che venne cantata durante la rivoluzione come Marsigliese ungherese, János Arany (1817-1882) , Ferenc Kölcsey autore nel 1823 dell'inno nazionale ungherese (Himnusz), Mór Jókai (1825-1904) "Un Nàbob ungherese" (Egy magyar nábob, 1854), prese parte alla Rivoluzione di Marzo come anche Sandor Petöfi .
La professoressa Mimma Suraci esordisce dicendo ai presenti: «Il mio essere qui stasera a conversare di Petöfi è un fatto che sorprende me per prima, considerato il fatto che fino a qualche anno fa non conoscevo proprio l’esistenza di questo artista.
Il mio secondogenito, a conclusione degli studi di terza media, prepara un elaborato sulla libertà,valore anche per lui fondamentale che ha sviluppato sia a livello individuale sia come valore civile, inteso cioè come diritto all’indipendenza, per la conquista della quale molti popoli hanno combattuto e sofferto. In questo percorso di ricerca,il ragazzo, mio figlio, si imbatte per caso in una poesia di un certo Petöfi “ Morire per la libertà “, conosciuta anche con il titolo “Mi tormenta un pensiero”, che gli piace, inserisce nel suo lavoro e mi fa leggere - mamma senti com’è
bella..- »
La consueta curiosità ha spinto, da quel giorno, a conoscere meglio questo poeta ungherese, a significare, qualora ce ne fosse bisogno,che i canali attraverso i quali si veicola la cultura sono imprevedibili, che è difficile stabilire un codice, almeno per quanto riguarda la relatrice, così come lei ha affermato e che continuerà ad approfondire lo studio su tale importante figura.
Il suo certificato di nascita è scritto in latino e porta registrato il nome di Alexander Petrovics in data 1 gennaio 1823 a Kiskoros,località a circa 110 chilometri da Budapest.
Il padre Istvan (Stephanus) Petrovics, che faceva il macellaio di villaggio e il locandiere, era serbo e il serbo era la lingua parlata correntemente in famiglia, modificó in quello magiaro di Petöfi che vuol dire " figlio di Pietro".
La madre, Maria Hruz, apparteneva a una povera famiglia slovacca e non conosceva l’ungherese, lingua che comunque era usata dalla famiglia nei rapporti sociali.
L'amore verso la sua terra è presente anche nella sua poetica che raccoglie una ricca sintesi di tecniche artistiche e soggetti realistici che celebrano la natura, le gioie e le tristezze del popolo, l'amore coniugale, la vita familiare e il patriottismo, valori stessi vivi nelle grandi pianure ungheresi, in cui erano radicati la sua lingua, le sue immagini, il suo folklore e i suoi personaggi che abitano l'Alföld (bassopiano,gli ungheresi chiamano cosí la grande pianura di cui la 'puszta' é la parte sterile e deserta) , dalla quale Petöfi trae tanti vividi motivi nella sua poesia e rievoca spesso la bellezza della sconfinata pianura nella sua lirica "... Che sei per me, o aspra terra romantica dei diruti Carpazi irti d'abeti? Forse ti ammiro, ma non ti amo:s'arretra la mia mente dinanzi alle tue cime e alle tue valli.
Giú nell'immenso mare dell'Alföld giú sono a casa, é quello il mio mondo: su quelle infinite distese é la mia animaun'aquila che irrompe liberata .."
La famiglia vive un breve periodo di due anni nel villaggio di campagna di Szabadszallas, quindi si sposta a Kiskunflegyhaza, che Petöfi considererà in seguito come suo luogo natale ideale.
Il padre prova a dare la migliore formazione possibile al figlio, che intorno ai 12 anni aveva cominciato a scrivere in versi; ma quando Sandor aveva appena 15 anni la famiglia perde ogni cosa a causa dello straripamento del Danubio del 1838 e del fallimento di un parente prossimo.
Il ragazzo è costretto a lasciare il liceo che frequentava a Selmechanya e adattarsi a svolgere diversi lavoretti: fa il copista a teatro, insegna in Ostffyasszonyfa e serve l’esercito austriaco a Sopron, Graz, Zagabria.
In questi anni conduce una vita errabonda, e impara le lingue: il tedesco per leggere Heine, il francese per conoscere Hugo, Beranger, Lamartine.
Cerca di continuare gli studi all’Università Calvinista nel college della città di Papa, dove ben presto litiga con alcuni suoi insegnanti .
Nel 1842 edita il poema “ A borozò” in Atheneum con il nome vero, Sandor Petrovics, e il 3 novembre dello stesso anno cura la prima edizione pubblica con lo psudonimo di Petöfi: il poema è una canzone umoristica “ bevente”,di un bevitore che elogia l’alimentazione curativa se accompagnata dal vino , che porta via tutte le difficoltà; è scritto in lingua colloquiale,per la quale è stato accusato di volgarità e di equivocità perché gradiva il vino, come esprimeva in quei versi.
In “ Apam mesterseges az enyem” Petöfi trova somiglianze tra il suo lavoro di poeta e il lavoro del padre come macellaio; come il padre usa l’ascia per colpire gli animali da macello,così il poeta usa la penna per colpire nei sentimenti più profondi dell’animo umano.
Un po’ sfiduciato, tenta il mestiere di attore di teatro, ma senza successo; fa il copista parlamentare,vive un periodo di indigenza a Debrecen e fa alcune traduzioni.
Dall’Ungheria del Nord torna a piedi a Pest per cercare qualche editore disponibile per i suoi versi. Intanto,nel 1844 si trasforma in aiuto-redattore al periodico letterario "Pesti Divaltlap".
Continua, comunque, il percorso letterario e la sua poetica si orienta verso temi folcloristici-popolari e la sua prima raccolta, Versek,viene pubblicata nel 1844 con l’aiuto di Mihaly Vorosmarty (1800-1855), vecchio scrittore che lo prende in simpatia. Questa raccolta rende Petofi immediatamente famoso.
Verso la fine dell’anno,1844, scrive “ Janos vitez” ,un componimento di 1480 versi divisi in 27 canti, pubblicato l’anno successivo.
I suoi versi sono chiari, realistici, vigorosi, forti e umoristici, trasmettono buonumore e allegria, e la gente ordinaria, il popolo, studenti, pastori, poveri musicisti,vagabondi, locandieri, amano questi caratteri.
Il poema “Janos vitez” -dove si racconta come Gianni Pannocchia divenne il prode Gianni -narra dell’eroe Kukoricza Jancsi: Petöfi sembra voler dire, con questo poema, che un eroe è tale solo se è fedele al proprio cuore e se è capace di scegliere la povertà piuttosto che le tentazioni della ricchezza e del potere.
La popolarità gli procura una certa sicurezza economica, infatti, adesso è in grado di aiutare anche i suoi genitori.
Nella città di Pest frequenta regolarmente il Caffè Piovax,dove ha sede un Circolo Letterario e, contemporaneamente, viaggia senza sosta, ma per motivi opposti a quelli che lo portavano in giro precedentemente, adesso, infatti, è celebrato in tutto il Paese.
Nel 1846 conosce in Transilvania Giulia Szendrey che sposerà nel 1847 contro la volontà del padre di lei, funzionario appartenente alla nobiltà; il matrimonio è festeggiato nel Castello del Conte Sandor Teleki, unico aristocratico tra gli amici di Petofi.
Da questa unione nasce un figlio. L’ amore è un argomento ricorrente nei versi di Petöfi, il quale,in uno dei poemi più noti ,mette in bocca a un giovane marito che parla alla moglie : “Dimmi,se muoio prima io, ti libererai presto del mio ricordo, e nasconderai il mio corpo ? “. In verità Giulia non si affliggerà a lungo per la scomparsa del marito; si risposa, infatti, dopo meno di un anno.
Diminuiti i viaggi, Petöfi si dedica con impegno e ardore al Circolo, dove segue un gruppo di giovani allievi e dove frequenta regolarmente altri intellettuali, con i quali lavora per promuovere soprattutto la lingua ungherese come linguaggio nazionale per esprimere letteratura e teatro.
Proprio lui che era cresciuto parlando altre lingue, rivendica con forza la necessità che l’ungherese sia riconosciuto ufficialmente lingua nazionale. In questo periodo nasce il primo teatro nazionale.
Petofi è devoto e strenuo difensore della libertà e dell’autonomia e farà proprio il problema dell’indipendenza dell’ Ungheria.
Gli attacchi che Petöfi sferra contro la monarchia in alcuni poemi come “ un kiralyothoz” e “ il fol di Akasszatok un kiralyokat”,qualche anno prima ,sono causa di scandalo. Come osava ardire così tanto, costui, da scagliarsi contro il potere costituito ?
In alcuni versi scrive: “ Libertà,amore ! Questi due ho bisogno. Per il mio amore sacrificherò la vita ,per la libertà sacrificherò il mio amore !
“ Già intorno al 1820 in Ungheria era cominciato a diffondersi un desiderio di rinascita sotto la guida di Lajos Kossuth, rivoluzionario magiaro appartenente alla piccola nobiltà, laureato in legge, in carcere per accusa di alto tradimento, in esilio anche in Italia dove si lega a Mazzini e da dove cerca di provocare un’altra rivolta in favore di Gerolamo Napoleone nel 1859; ma la pace di Villafranca gli preclude ogni speranza; muore a Torino nel 1894.
L’ importanza nazionale di “ Talpra, magyar”, che Petöfi scrive sulla rivoluzione del 1848 può essere paragonato alla Marsigliese: ha ispirato i giovani rivoluzionari ed è stata cantata dappertutto, sotto l’influenza del motto della Rivoluzione Francese -libertè, egalitè, fraternitè.
I tempi sembrano ormai maturi per un intervento decisivo. Petöfi e i suoi amici stabiliscono di riunire un’Assemblea Nazionale per il 19 marzo.
Quando, però, hanno notizia dell’insurrezione di Vienna per il giorno 15, ritengono opportuno anticipare la loro sommossa anche al 15 .
Sin dal mattino,dunque,la gioventù rivoluzionaria si riunisce intorno a Petofi e tutti insieme marciano per le vie della città di Pest leggendo il poema e i 12 punti,le dodici famose richieste nazionali, che Petofi aveva scritto con Pal Vasvar e altri intellettuali, con i quali chiedevano tra l’altro,la libertà di stampa con l’ abolizione di ogni censura e la liberazione dei prigionieri politici. Via via che si procede, il corteo si gonfia con migliaia di partecipanti.
Il Sindaco, premuto dalla folla, è costretto a sottoscrivere i 12 punti. Più tardi, nel pomeriggio, dai gradini dell’Ampia Scalinata del Museo nazionale, costruito tra il 1837 e il 1847 , Petöfi legge per la prima volta il suo “ Canto Nazionale “, “Nemzeti“, che scatena la ribellione contro gli Asburgo.
Questo momento viene ricordato il 15 marzo di ogni anno, quando il Museo viene decorato con i colori nazionali e la scena viene ricostruita.
Questa data, il 15 marzo appunto,cambia profondamente la vita di Petöfi che diviene il poeta e il soldato,il pensiero e l’azione, simbolo della Rivoluzione, che cerca di infiammare il popolo con la penna e con le parole,di entusiasmarlo con la sua poesia, di trascinarlo con il suo esempio.
La decisione adottata di anticipare la manifestazione al 15 si è dimostrata azzeccata per il fatto che le autorità politiche e militari del governo asburgico, a conoscenza dei programmi dei rivoltosi che fissavano a giorno 19 la data della dimostrazione, avevano programmato una retata di arresti per giorno 18 in modo da impedire la realizzazione della rivolta.
Presi alla sprovvista hanno dovuto affrontare una situazione imprevista.
Infatti sempre pomeriggio del 15 marzo, la folla dei dimostranti si raduna davanti la sede del Consiglio del Governo Imperiale, i cui rappresentanti ritengono conveniente firmare il documento relativo ai 12 punti.
Subito dopo la folla passa dalle carceri a salutare il poeta rivoluzionario Mihaly Tancsics, immediatamente liberato.
Anche se Petöfi era un grande rivoluzionario patriota ,non ha avuto fortuna nella politica attiva e non è stato scelto dal nuovo
Parlamento; nonostante si fosse candidato nel suo paese d’origine,non è stato eletto..
C’è da dire, in proposito, che l’ Assemblea dei nobili aveva già capito che era tempo di attuare delle riforme democratiche , ma intendeva procedere in questa via con calma,cioè con la famosa politica dei piccoli passi.
Gli eventi, però, li hanno superati e si sono dovuti adattare, naturalmente solo per ingannare il popolo dei rivoltosi, in quanto subito dopo hanno cercato di restaurare il regime precedente.
Infatti, il poeta simbolo della rivolta, Mihaly Tancsics viene nuovamente arrestato e tradotto in carcere.
In questo clima Petöfi compone il poema epico “Apostolo”, in cui narra le gesta di un finto rivoluzionario, che si sente investito del sacro fuoco della missione patriottica, e che dopo molti disagi e sofferenze riesce ad assassinare un re fittizio.
Nel mondo fantastico del pensiero magico Petöfi realizza il suo ideale politico reale.
A questo punto Petöfi si unisce alle truppe dell’esercito della Transilvania,guidate dal generale rivoluzionario polacco Josef Bem e combatte nella campagna ,riuscita, contro le truppe asburgiche, le milizie regolari della Transilvania e del rumeno Saxon.
Quando, però, scende in campo in aiuto degli austriaci, la Russia Imperiale,i rivoluzionari vengono sconfitti vedendo così amaramente sfumare la possibilità di realizzare il loro sogno.
Petöfi è visto l’ultima volta nella battaglia di Segesvar (Sighjosara) il 31 luglio 1849.
Il suo corpo, però, non è mai stato trovato e le circostanze della sua morte sono misteriose e combattute,suscitando discussioni interessanti.
La scomparsa di Petöfi rimane,così, avvolta nel mistero e diventa leggenda,come esprime efficacemente Carducci quando afferma che “ Sparì come un bel Dio Greco “.
A proposito della vita e della morte la poesia “Mi tormenta un pensiero“ è molto significativa e in un certo senso profetica, ed esprime il desiderio dell’autore che preferirebbe morire sul campo combattendo per la libertà del suo Paese,dopo aver fatto grandi cose, piuttosto che tra i guanciali del suo letto.
Nel panorama letterario ungherese Petöfi sviluppa presto una voce originale e fresca, insolita in quel Paese fino ad allora,che lo colloca fuori dalla folla.
Negli anni 1844-45 la poesia di Petöfi è diventata sempre più sottile e matura.
Accanto agli argomenti di impegno civile e patriottico emerge anche la nota paesaggistica che sottolinea l’importanza dell’ambiente naturale.
Nel tempo le capacità poetiche di Petöfi si ampliano e si solidificano: l’artista è padrone del suo strumento,che domina con competente padronanza.
Diversi poemi di Petöfi sono stati musicati da Friedrich Nietzsche giovane, per hobby e come dilettante, mentre studiava i classici,prima di darsi totalmente alla filosofia.
Soffocata la rivoluzione nella repressione la scrittura di Petöfi raggiunge una popolarità immensa, e il suo impegno civile è diventato figura centrale del romanticismo, simbolo e modello per i rivoluzionari ungheresi e i rivoluzionari potenziali di ogni colore politico, e di ogni dimensione spaziale e temporale, perché fa parte del patrimonio culturale dell’uomo universale.
Moltissime sono le vie a lui intitolate.
A circa 4 Km da Singhiosara si trova il villaggio di Albesti , sede del Museo di Sandor Petofi; a Budapest l’ Atrio Petofi è luogo di incontro e di divertimento per i giovani; al centro di Piazza Petöfi, a Budapest, c’è la statua del poeta e proprio da questa piazza, il 23 ottobre 1956 partì la manifestazione che diede vita alla protesta contro il governo stalinista di Rakosi.
Nel 1957 la sua immagine è stata immortalata sulla banconota di 10 fiorini.
Che dire, dunque, di Petöfi ?Sicuramente un poeta eclettico ,un intellettuale che teorizza il suo vissuto, i suoi luoghi e il suo tempo, che riesce ad anticipare i tempi della storia con rara acutezza; e contemporaneamente vive ciò che scrive, considerando l’impegno civile fondamentale per la libertà intesa come diritto individuale e collettivo,da conquistare e da difendere con tutte le proprie forze,anche a costo dell’estremo sacrificio. Anche quando esprime sentimenti forti, Petöfi riesce piacevole; solitudine e morte, indipendenza politica ed economica, esortazione civile e sociale sono rese con versi ugualmente gradevoli e con un sottofondo di leggero umorismo che alleggerisce le tensioni e conduce il lettore alla loro condivisione in maniera naturale e spontanea.
Petöfi, inoltre, esalta nei suoi versi il pensiero magico, dimensione importantissima nello sviluppo del carattere e della personalità di ogni individuo perché aiuta ad esorcizzare i fantasmi della violenza che in qualche modo disturbano l’ animo dell’uomo.
L’ Ungheria è un Paese che, anche e soprattutto ai nostri giorni, cura attentamente la formazione e l’educazione dei cittadini: in questa prospettiva, squisitamente culturale, sin dalla scuola materna e in tutti i cicli di scuola a diversi livelli di approfondimento, la didattica prevede l’inserimento del racconto e lo studio della favola e della fiaba, sia come intreccio che come costruzione narrativa, prestando particolare attenzione ai sentimenti e alle emozioni dei personaggi, in un contesto che considera miti e leggende come metafora della vita di tutti gli uomini.
Tenuto conto di tutto ciò ,e facendo riferimento agli studi antropologici e strutturali compiuti sulla fiaba dal russo Propp, mi sento di poter affermare che Petofi può essere apprezzato anche come pedagogista.